“LaSinistraCheNonC’èPiù”. Ha scritto Alessandro
Robecchi in “Finanziaria. Meglio le
bomboniere che i poveri: salviamo il matrimonio” pubblicato su “il Fatto
Quotidiano” di oggi, 23 di novembre 2022: (…), seguiamo le cronache dei nostri eroi.
Mentre ministri e sottoministri si arrovellano per cercare nuove soluzioni ad
antichi problemi (…), nel cuore del potere meloniano c’è qualche timore nuovo.
“L’impatto di cancellare di botto il reddito di cittadinanza è devastante”,
dice la ministra del Lavoro, riportata con virgolette qui e là. Tradotto in
italiano, significa quel che molti dicono da sempre: che il reddito è un
argine, una diga che protegge chi non ce la fa, e toglierlo di botto in un anno
di recessione sarebbe come accendere una miccia. Cioè il contrario della
vulgata retorica delle destre più estreme ed ottuse, Italia Viva, Lega e
Fratelli d’Italia, sempre concentrate a dire cretinate sui divani, i fannulloni
e varianti più o meno offensive. Cazzate: di quei 660 mila a cui verrà tolto
ossigeno tra qualche mese, pochissimi potranno trovare un lavoro. Bassa
scolarità, nessuna formazione, soggetti deboli: cancellare il reddito significa
consegnarli alla disperazione o alla manovalanza della criminalità, oppure, nel
migliore dei casi (speriamo) al conflitto sociale. Dopo
aver sbraitato per anni, ora se ne accorgono pure al Consiglio dei Ministri, ma
è tardi per tornare indietro, quindi niente, pochi mesi e poi smantellamento
dell’unica legge che abbia aiutato, negli ultimi anni, le fasce più disagiate
della società. La
legge finanziaria – la stessa che ci dice che un professionista da 85.000 euro
l’anno pagherà le tasse di un dipendente che ne prende 30.000 – è dunque una
netta e precisa (in qualche caso rivendicata) ricerca dello scontro. Davanti al
timore di ampi disagi sociali si scelgono deliberatamente il conflitto e la
contrapposizione, le mani sui fianchi e la mascella volitiva: la dichiarazione
di guerra è stata consegnata nelle mani dei poveri. Di seguito, tratto
da “Mio padre bracciante, la dignità e
la sinistra senza più popolo” di Roberto Casalini, pubblicato sul mensile
“Millennium” del mese di novembre 2022: Quando è morto, mio padre era più giovane di
me che adesso lo ricordo. Ho tra le mani una foto in cui tutta la mia famiglia
è in posa. Il luogo è Sassari, Sardegna, culla di due presidenti assai
controversi e di un segretario del Pci molto amato. Gli anni, quelli del
miracolo economico che non abbiamo conosciuto. Nella foto mio padre ha poco più
di cinquant'anni ed è già vecchio. Eravamo poveri, mio padre di famiglia
contadina era stato un piccolo negoziante negli anni '50 a Carbonia, quando le
miniere chiudevano e i minatori non potevano più pagare gli acquisti segnati a
libretto. Ci trasferimmo a Sassari nel 1959: aveva trovato un ettaro di terra
da coltivare a mezzadria, metà del raccolto a lui e metà al padrone del
terreno. Qualche mese dopo il nostro arrivo un'alluvione disastrosa si mangiò
tutto, un anno di lavoro buttato, la malora. L'agrario del quale era stato
mezzadro diceva strafottente ai suoi braccianti: "Quelli che lavorano per
me entrano con gli stivali nuovi ed escono con gli stivali sfondati".
Verso la fine degli anni '60 lo sequestrarono e il corpo non venne ritrovato.
"Non si augura la morte a nessuno, ma quello se l'è cercata" commentò
mia madre. La mia infanzia è stata nell'Ottocento. Mio padre bracciante pagato
a giornata, mai un contratto in vita sua, e nei giorni di maltempo a casa senza
paga. Sfinito da un lavoro che non conosceva orari. In autunno, dopo dieci ore
di zappa, a fare la notte nel frantoio delle olive per comprarci cappotti
scarpe e il necessario per la scuola. In estate a irrigare quando faceva
fresco, la notte o all'alba. Per mercede il necessario per sopravvivere: pane e
pasta, tante verdure, il pollo o un lesso ogni tanto. E abitazioni, per lungo
tempo, perse nella campagna. Senza luce, senz'acqua corrente: c'era una
cisterna e quand'era in secco, d'estate, provvedevo io andando a riempire le
taniche a una fontana a qualche chilometro di distanza. Mio padre ha voluto che
tutti noi, eravamo quattro figli, studiassimo. E che fossimo docili: "Dì
sempre di sì e porta pazienza, che ti costa, così arrivi all'università e
quando vai a militare sei ufficiale e ti lucidano le scarpe". Ma io non
avevo pazienza, sono diventato presto di sinistra. Mi sono iscritto al Psiup,
il partito socialista di unità proletaria che a volte scavalcava a sinistra il
Pci, alla fine della terza media, a tredici anni. Sono diventato di sinistra
per mio padre, perché non si spezzasse la schiena, e contro la sua
rassegnazione, che aspettava come un favore quel che avrebbe dovuto spettarci
come diritto: una cura medica, un affitto equo, una paga giusta. Sono diventato
di sinistra perché allora la sinistra era tra il popolo, la gente che lavorava
e che faceva fatica a campare la conosceva bene e la difendeva. Era una scuola
dura ma affettuosa che aveva come materie i diritti e la dignità, e che
cresceva cittadini adulti e consapevoli. Sono stato grato ad Alessandro Natta
quando ha affermato che, avesse insegnato anche a un solo contadino a non
levarsi il cappello davanti a un possidente, l'esistenza del partito comunista
sarebbe stata pienamente giustificata. Noi chiedevamo dignità, gli altri ci
volevano umili. E riconoscenti per le briciole che ci gettavano. Quando entrai
al ginnasio con una borsa di studio - l'obbligo terminava allora con la terza
media - avevo appena letto la Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani
e dei suoi ragazzi di Barbiana: il padrone sa mille parole e gli operai
duecento, anche gli operai devono saperne mille. E scrissi in un tema che
trovavo accanto a me molti compagni svogliati che erano lì per censo, mentre
molti dei miei vecchi compagni non avevano potuto proseguire gli studi. Mi
chiamò alla cattedra una democristiana di scorza dura, di quelle che un tempo
ti avrebbero levato la pelle a vergate. Quattro, fuori tema, fu il verdetto.
Con il fervorino finale: "Tuo padre fa il bracciante e anche tu dovresti
essere in campagna con lui. Se sei qui è perché i padri dei tuoi compagni che
ti permetti di criticare pagano le tasse anche per te. Ritorna al tuo posto e
ricordati che non si sputa nel piatto dove si mangia". Mi ribellai come
potevo: dal giorno dopo non andai più a scuola, saltai un anno e fui respinto
come non classificato, sarei potuto finire male ma trascorsi quell'anno rintanato
nella biblioteca universitaria, a leggere e studiare per conto mio. L'anno dopo
mi rimisi in pari dando due anni in uno, e la mia militanza a sinistra si
intensificò. Ho lasciato la Sardegna a vent'anni, a casa sarei stato soltanto
una bocca in più da sfamare, e ho trovato, come i fratelli, il mio posto nel
mondo. Mio padre ha lavorato fino a poco prima di morire e il più grande
rimorso della mia vita è di non avere pagato il debito che avevo con lui. Di
non avere ricambiato la sua pazienza e la sua generosità. Ho cercato di
imparare da lui, dalla curiosità e dalla passione per la terra che neppure la
fatica riusciva a spegnere - un innesto, una nuova pianta da seminare - a fare
bene il mio lavoro. Perché c'è dignità nell'operare di tutti, e oggi che questa
repubblica fondata sul lavoro per il lavoro non ha posto, penso che lui è stato
il mio eroe, l'uomo che faceva crescere l'erba. Questa è la mia eredità, il mio
patrimonio. Divento vecchio e quando leggo, dati regionali del 2021, che nella
città della mia giovinezza, Sassari, ha trovato un'occupazione il 45,1 % delle
donne, il 59% degli uomini e il 59,1% dei giovani; quando leggo che in Italia
14,83 milioni di persone, il 25,2% della popolazione, uno su quattro, è a
rischio di esclusione sociale, soldi che non bastano, una casa non riscaldata e
neppure un pasto proteico in due giorni, penso che le conquiste di mezzo secolo
vengono inghiottite e che si ritorna a quando ero ragazzo. Tutto questo senza
clamori e senza scandali perché i poveri sono diventati invisibili, cani
perduti senza collare. Ho creduto, in tutta la mia vita, che la sinistra
dovesse abbattere il muro delle disuguaglianze, e penso con dolore che la
sinistra che oggi non ha occhi per la mia gente non mi rappresenta più.
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