"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 7 novembre 2022

Capitalismoedemocrazia.76 Umberto Galimberti: «La categoria della crescita non è solo un fatto economico, ma è diventata una forma mentis, uno stato d'animo, un rimedio all'angoscia».


Ha scritto Massimo Cacciari in “Opposizione divisa e senza radici” pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 30 di ottobre 2022:

(…). …già quel Pasolini che qualche leader o ex leader della sinistra nostrana finge tanto di amare diceva mezzo secolo fa che il fascismo attuale non è quello archeologico del saluto romano e della camicia nera, ma quello della normalità omologante, del neo-capitalismo senza patrie, del feticismo consumistico. Un pericolo, dunque, ammesso lo si ritenga tale, che non ha più alcun senso chiamare fascismo. È il dominio concertato delle grandi potenze tecnico-economiche per la gestione della perenne emergenza prodotta dalla loro stessa logica di indefinito sviluppo. I totalitarismi novecenteschi non servono più. La domanda di sicurezza, ansiosa di soffocare ogni parola che ci suoni straniera, che ci sembri mettere a rischio la nostra casa, viene fatta emergere con prepotenza dall’individuo stesso, nella sua perfetta solitudine fatta di infinite connessioni. Lo sgretolamento della sinistra europea deriva logicamente dall’impotenza critica nei confronti di questo stato di cose, dall’ignorare perfino la domanda sulla sua possibile trasformazione. Se il Pd non porrà questa domanda alla base del suo confronto congressuale, questo non segnerà che l’atto finale della storia della sinistra italiana in quanto forza politica. Di seguito, “Il feticismo del mercato” di Umberto Galimberti pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 29 di ottobre ultimo: Non è solo una delle tante forme possibili che regolano gli scambi. Con la globalizzazione è diventato l'unica forma che, per garantire profitti e salari, ci obbliga a un consumo forzato. (…). È reversibile la cultura del mercato che, se non mette in circolazione nuovi prodotti implode, con conseguenze disastrose per il profitto di chi produce e per il salario per chi lavora? La mia risposta è no. Non è reversibile. Perché il mercato è diventato la forma della nostra società che promuove il consumo, perché questo sollecita la produzione, e l'incremento della produzione aiuta la crescita, oggi assunta da tutti i Paesi come indicatore di benessere, al punto che ci si allarma quando oscilla intorno allo zero. La categoria della crescita non è solo un fatto economico, ma è diventata una forma mentis, uno stato d'animo, un rimedio all'angoscia, una garanzia per sé e per i propri figli, una caparra per il futuro. Ma vediamo le cose più da vicino. Il mercato non ci considera come persone, ma unicamente come consumatori e produttori, perché se non si consuma non si produce, e se non si produce vien meno il lavoro e la pace sociale. Per questo siamo invitati a un consumo forzato che non segna la fine di un prodotto, ma il suo fine. La data di scadenza non l'hanno solo i prodotti alimentari ma tutte le cose, costruite con materiali che non resistono nel tempo (…) per cui se si rompe un apparecchio, rispetto al pezzo di ricambio, spesso risulta più conveniente acquistare un apparecchio nuovo. Sembra che il fine di ogni produzione sia portare le cose al nulla nel tempo più rapido possibile. Questo io chiamo "nichilismo", che non è solo una categoria filosofica, ma un'evidenza quotidiana. Vale qui il monito di Gunther Anders: "Chi tratta il mondo come un mondo da buttar via, finirà per trattare anche l'umanità come un'umanità da buttar via". E forse ci siamo già arrivati. Due ancelle sostengono questa logica del mercato, la moda che di anno in anno mette fuori moda quello che l'anno precedente era l'ultima moda, e la pubblicità che non produce cose, di cui nei Paesi avanzati, siamo sufficientemente quando non abbondantemente riforniti, ma produce bisogni. E quando il pubblico li ha interiorizzati, offre i prodotti che li soddisfano. Frédéric Beigbeder, uno dei più grandi pubblicitari del Novecento, agli inizi degli anni Duemila ha pubblicato un libro dal titolo 13,89 euro (Feltrinelli) in cui scrive: "Sono un pubblicitario, ebbene sì, inquino l'universo. Io sono quello che vi vende tutta quella merda. Quello che vi fa sognare cose che non avrete mai. Cielo sempre blu, ragazze sempre belle, una felicità perfetta ritoccata in Photoshop. Quando, a forza di risparmi, voi riuscirete a pagarvi l'auto dei vostri sogni, quella che ho lanciato nella mia ultima campagna, io l'avrò fatta passare di moda. C'è sempre una novità più nuova che fa invecchiare la precedente. Io vi drogo di novità, e il vantaggio della novità è che non resta mai nuova. Farvi sbavare è la mia passione. Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma". Le leggi del mercato, oggi sono da noi considerate come fossero leggi di natura. E per effetto di questo fraintendimento, peraltro neppure avvertito come tale, alternative non se ne danno. Per la qualcosa il passaggio – come automatica traslazione - dalla “merce” e dagli oggetti che hanno invaso le esistenze degli umani a tutto ciò che dovrebbe configurare e dare consistenza a quella vita stessa è più breve di quanto lo si possa pensare, coinvolgendo anche la sfera della “politica” nei suoi ideali. Ne ha scritto Michele Serra in “Dagli ideali al gadget” pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 28 di ottobre ultimo: (…). Nella trasformazione di un simbolo in marchio c’è quasi tutto della nostra epoca. Quasi più niente è ideologia, quasi tutto è merce, gadget, passatempo. Il peso simbolico del Novecento, delle sue tragedie, delle sue speranze, svolazzando sui foulard e sulle magliette diventa un fregio leggero, perde senso. Volendo, ci si potrebbe anche rallegrare di questa nuova leggerezza: ho ricordi anche abbastanza grevi della potenza dei simboli, della loro implacabile capacità di unire come di frantumare. Non fosse che questa leggerezza contiene un presagio di nuove sciagure, perché è una leggerezza incosciente, senza memoria e senza giudizio. Come se il nostro sistema immunitario collettivo avesse via via perduto molti dei suoi anticorpi, e non fosse più in grado di riconoscere almeno alcuni dei malanni che potrebbero capitarci. Nella vittoria di Meloni (gli altri due, anche come peso elettorale, sono solo un codazzo) c’è molto di questa nuova incoscienza. “Basta con le vostre beghe ideologiche, siete vecchi, siete il Novecento”: buona parte dell’elettorato lo ha pensato, e la discriminante fascismo/antifascismo ha avuto, nelle urne, una influenza molto relativa. Meloni è “nuova”, viene percepita come tale anche se discende da una matrice politica vecchissima. Il corpo elettorale, sempre più simile nei comportamenti alla massa consumatrice, consumerà presto anche lei. Può darsi – flebile speranza – che quando avremo addentato e poi sputato anche l’ultimo dei leader, saremo costretti a rivalutare le idee e gli ideali come la sola materia prima che può consentirci di ripartire su basi un poco più solide.

Nessun commento:

Posta un commento