Ha scritto Massimo Cacciari in “Opposizione divisa e senza radici” pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 30 di ottobre 2022:
(…). …già quel Pasolini che qualche leader o
ex leader della sinistra nostrana finge tanto di amare diceva mezzo secolo fa
che il fascismo attuale non è quello archeologico del saluto romano e della
camicia nera, ma quello della normalità omologante, del neo-capitalismo senza
patrie, del feticismo consumistico. Un pericolo, dunque, ammesso lo si ritenga
tale, che non ha più alcun senso chiamare fascismo. È il dominio concertato
delle grandi potenze tecnico-economiche per la gestione della perenne emergenza
prodotta dalla loro stessa logica di indefinito sviluppo. I totalitarismi
novecenteschi non servono più. La domanda di sicurezza, ansiosa di soffocare
ogni parola che ci suoni straniera, che ci sembri mettere a rischio la nostra
casa, viene fatta emergere con prepotenza dall’individuo stesso, nella sua
perfetta solitudine fatta di infinite connessioni. Lo sgretolamento della
sinistra europea deriva logicamente dall’impotenza critica nei confronti di
questo stato di cose, dall’ignorare perfino la domanda sulla sua possibile
trasformazione. Se il Pd non porrà questa domanda alla base del suo confronto
congressuale, questo non segnerà che l’atto finale della storia della sinistra
italiana in quanto forza politica. Di seguito, “Il feticismo del mercato” di Umberto Galimberti pubblicato sul settimanale
“d” del quotidiano “la Repubblica” del 29 di ottobre ultimo: Non
è solo una delle tante forme possibili che regolano gli scambi. Con la
globalizzazione è diventato l'unica forma che, per garantire profitti e salari,
ci obbliga a un consumo forzato. (…). È reversibile la cultura del mercato che,
se non mette in circolazione nuovi prodotti implode, con conseguenze disastrose
per il profitto di chi produce e per il salario per chi lavora? La mia risposta
è no. Non è reversibile. Perché il mercato è diventato la forma della nostra
società che promuove il consumo, perché questo sollecita la produzione, e l'incremento
della produzione aiuta la crescita, oggi assunta da tutti i Paesi come
indicatore di benessere, al punto che ci si allarma quando oscilla intorno allo
zero. La categoria della crescita non è solo un fatto economico, ma è diventata
una forma mentis, uno stato d'animo, un rimedio all'angoscia, una garanzia per
sé e per i propri figli, una caparra per il futuro. Ma vediamo le cose più da
vicino. Il mercato non ci considera come persone, ma unicamente come
consumatori e produttori, perché se non si consuma non si produce, e se non si
produce vien meno il lavoro e la pace sociale. Per questo siamo invitati a un
consumo forzato che non segna la fine di un prodotto, ma il suo fine. La data
di scadenza non l'hanno solo i prodotti alimentari ma tutte le cose, costruite
con materiali che non resistono nel tempo (…) per cui se si rompe un
apparecchio, rispetto al pezzo di ricambio, spesso risulta più conveniente acquistare
un apparecchio nuovo. Sembra che il fine di ogni produzione sia portare le cose
al nulla nel tempo più rapido possibile. Questo io chiamo
"nichilismo", che non è solo una categoria filosofica, ma un'evidenza
quotidiana. Vale qui il monito di Gunther Anders: "Chi tratta il mondo
come un mondo da buttar via, finirà per trattare anche l'umanità come un'umanità
da buttar via". E forse ci siamo già arrivati. Due ancelle sostengono
questa logica del mercato, la moda che di anno in anno mette fuori moda quello
che l'anno precedente era l'ultima moda, e la pubblicità che non produce cose,
di cui nei Paesi avanzati, siamo sufficientemente quando non abbondantemente
riforniti, ma produce bisogni. E quando il pubblico li ha interiorizzati, offre
i prodotti che li soddisfano. Frédéric Beigbeder, uno dei più grandi
pubblicitari del Novecento, agli inizi degli anni Duemila ha pubblicato un
libro dal titolo 13,89 euro (Feltrinelli) in cui scrive: "Sono un
pubblicitario, ebbene sì, inquino l'universo. Io sono quello che vi vende tutta
quella merda. Quello che vi fa sognare cose che non avrete mai. Cielo sempre
blu, ragazze sempre belle, una felicità perfetta ritoccata in Photoshop.
Quando, a forza di risparmi, voi riuscirete a pagarvi l'auto dei vostri sogni,
quella che ho lanciato nella mia ultima campagna, io l'avrò fatta passare di
moda. C'è sempre una novità più nuova che fa invecchiare la precedente. Io vi
drogo di novità, e il vantaggio della novità è che non resta mai nuova. Farvi
sbavare è la mia passione. Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra
felicità, perché la gente felice non consuma". Le leggi del mercato, oggi
sono da noi considerate come fossero leggi di natura. E per effetto di questo
fraintendimento, peraltro neppure avvertito come tale, alternative non se ne
danno. Per la qualcosa il passaggio – come automatica traslazione - dalla
“merce” e dagli oggetti che hanno invaso le esistenze degli umani a tutto ciò
che dovrebbe configurare e dare consistenza a quella vita stessa è più breve di
quanto lo si possa pensare, coinvolgendo anche la sfera della “politica” nei
suoi ideali. Ne ha scritto Michele Serra in “Dagli ideali al gadget” pubblicato sul settimanale “il Venerdì di
Repubblica” del 28 di ottobre ultimo: (…). Nella trasformazione di un simbolo in
marchio c’è quasi tutto della nostra epoca. Quasi più niente è ideologia, quasi
tutto è merce, gadget, passatempo. Il peso simbolico del Novecento, delle sue
tragedie, delle sue speranze, svolazzando sui foulard e sulle magliette diventa
un fregio leggero, perde senso. Volendo, ci si potrebbe anche rallegrare di
questa nuova leggerezza: ho ricordi anche abbastanza grevi della potenza dei
simboli, della loro implacabile capacità di unire come di frantumare. Non fosse
che questa leggerezza contiene un presagio di nuove sciagure, perché è una
leggerezza incosciente, senza memoria e senza giudizio. Come se il nostro
sistema immunitario collettivo avesse via via perduto molti dei suoi anticorpi,
e non fosse più in grado di riconoscere almeno alcuni dei malanni che
potrebbero capitarci. Nella vittoria di Meloni (gli altri due, anche come peso
elettorale, sono solo un codazzo) c’è molto di questa nuova incoscienza. “Basta
con le vostre beghe ideologiche, siete vecchi, siete il Novecento”: buona parte
dell’elettorato lo ha pensato, e la discriminante fascismo/antifascismo ha
avuto, nelle urne, una influenza molto relativa. Meloni è “nuova”, viene
percepita come tale anche se discende da una matrice politica vecchissima. Il
corpo elettorale, sempre più simile nei comportamenti alla massa consumatrice,
consumerà presto anche lei. Può darsi – flebile speranza – che quando avremo
addentato e poi sputato anche l’ultimo dei leader, saremo costretti a
rivalutare le idee e gli ideali come la sola materia prima che può consentirci
di ripartire su basi un poco più solide.
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