“Politica&Biografia”. Ha scritto
Loredana Lipperini in “la presidente”
pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 30 di ottobre 2022: Se
Leia Organa, o sua madre Padmé Amidala, avessero chiesto di venir chiamate
rispettivamente "Senatore" dell'Impero Galattico e "Re" di
Naboo forse persino i Sith avrebbero manifestato un certo sconcerto. Difatti,
la discussione su "il" o “la" presidente del Consiglio ha un
retrogusto surreale, semplicemente perché non bisognerebbe neanche discuterne:
già nel 2008 la prima donna presidente dell'Accademia della Crusca, Nicoletta
Maraschio, pubblicava un chiarimento lucido quanto ovvio: «La lingua italiana
consente, in questo caso, una soluzione semplice e per così dire trasparente e
naturale di un problema, quello del riassestamento maschile-femminile nei nomi
professionali; bastano infatti l'articolo (maschile o femminile) e l'eventuale
accordo (una presidente impegnata/un presidente impegnato) a definire, insieme,
il genere e la funzione». Ma senza scomodare la Crusca, e la conoscenza della
lingua italiana, dovrebbe bastare il buon senso: se la memoria non mi inganna,
abbiamo detto e diciamo «la preside» o «la docente» senza evocare lo spettro di
Tom Wolfe (e la malafede con cui si declina il termine che ha coniato, radical
chic). Poi, certo, massima libertà di scelta, anche a dispetto della
correttezza grammaticale: se Elsa Morante si definiva «scrittore», non mi sembra
un gran problema se Giorgia Meloni vuole farsi chiamare «il presidente»,
ritenendo che sia più prestigioso: comunque sia, il lavoro sul linguaggio andrà
avanti lo stesso e il mondo - e con lui la lingua - sta comunque cambiando. Semmai,
per restare in tema Star Wars, porrei attenzione alle previste ma sconcertanti
giravolte non solo linguistiche degli ultimi tempi. Come diceva proprio Padmé
Amidala: «È così che muore la libertà: sotto scroscianti applausi». È vero, era
solo un film, ma meglio ripassare. Di seguito, “Meloni, l’album di famiglia” di Barbara Spinelli, pubblicato su «il
Fatto Quotidiano» del 29 di ottobre ultimo: Fortuna ha voluto che nei dibattiti sulla
fiducia a Giorgia Meloni, mercoledì al Senato, intervenisse per il M5S Roberto
Scarpinato, ex magistrato, per parlare non tanto del ventennio fascista, ma
della nostra storia recentissima e di quel che il neo-fascismo ha detto e fatto
per decenni dopo l’avvento della Repubblica, in combutta con segmenti oscuri
dello Stato e parte dei poteri forti. L’ex magistrato ha ricordato le trame
nere, la cui esistenza non è oppugnabile, e il ruolo svolto dai neofascisti
nella strategia della tensione (strage di Piazza Fontana, di Piazza della
Loggia, del treno Italicus, di Bologna). Ha connesso il presente col passato
tutto intero. Ha ricomposto una biografia della nazione che per due giorni, in
Parlamento, era stata presentata da Meloni come storia a pezzi, simile alla
guerra mondiale a pezzi descritta da Papa Francesco. Si può capire l’ira di
Meloni, che s’esprime volentieri col linguaggio urlante del corpo (movimento
della bocca che scaglia improperi, sguardo fosco). Lo squarcio inferto al velo
nel quale s’avvolge l’ha visibilmente seccata. Tanto è bastato perché il
microfono venisse spento nell’attimo in cui Scarpinato, evocando i legami fra
destre eversive e mafia, pronunciava il nome di Marcello Dell’Utri. Abbiamo
notato stizza nei banchi di destra, silenzio nel Pd ancora draghiano, applausi
solo di 5 Stelle e Giuseppe Conte, che oggi appare l’unico vero leader
dell’opposizione. La storia a pezzetti si è così scontrata, per qualche minuto,
con un discorso di verità. Accadde qualcosa di simile quando Rossana Rossanda,
il 28 marzo 1978, nel pieno del sequestro Moro, lanciò un macigno nello stagno
del Pci: “In verità, chiunque sia stato comunista negli anni 50 riconosce di
colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l’album di famiglia”.
Ancora aspettiamo chi, a destra, sfogli il proprio album di famiglia e smetta
di tacere sul neofascismo postbellico nell’ora in cui quest’ultimo si presenta
– parla ancora Scarpinato – come “l’ultimo travestimento che nella patria del
Gattopardo consente al vecchio di celarsi dietro le maschere del nuovo, creando
l’illusione del cambiamento”. Da quando ha giurato sulla Costituzione, Meloni è
circondata da sorrisi e acclamazioni fin qui riservati a Draghi (è
impressionante il trasformismo di una stampa dimentica del proprio mestiere di
cane da guardia). I sorrisi di Mattarella e Draghi innanzitutto, talmente
larghi da divenire sospetti (perché è donna? giovane? underdog “meritevole”?).
“Una cosa emotivamente un po’ impattante” è stato per lei il salire le altrui
scale a Palazzo Chigi, al termine delle quali l’attendeva raggiante il
predecessore, insigne rappresentante in Occidente dei poteri forti. Sono
emotivamente impattati anche i commentatori: ecco infine una donna, addirittura
una “fuoriclasse”, modello di passione mescolata a competenza, e magari il Pd
ne avesse una così. I Gattopardi s’affollano sulla scena e dietro le quinte. Intanto
il capo di governo annuncia false “rivoluzioni copernicane”, quasi tutte nel
segno della continuità: in politica economica (condoni, indulgenza verso gli
evasori), sull’energia, l’ambiente, il lavoro (strali contro il Reddito di
cittadinanza). E in politica estera – fedeltà atlantica incondizionata nella
guerra in Ucraina, attacchi alla Cina, sostegno ai maxi-profitti delle
industrie militari – tanto da suscitare il fondato sgomento di Conte: “Ma non è
che alla fine l’agenda Draghi, presidente Meloni, la vuol scrivere Lei?”. È
fondato lo sgomento, perché in filigrana già s’intravedono futuri possibili:
crisi della coalizione di destra, alleanze con i draghiani Renzi e Calenda. Non
che siano scomparsi dubbi e sospetti sul passato di Fratelli d’Italia, anzi:
fioriscono, i dubbi, sotto forma di copiose produzioni di libri su Mussolini e
Marcia su Roma, nel caso li avessimo scordati. Per la verità non abbiamo
dimenticato, non c’è bisogno che nei talk ci ripetano un giorno sì uno no (…)
che la Marcia fu un abominio. Si sta bene quando la storia di una nazione o un
individuo si riduce a una serie di fotogrammi rimaneggiati – prima il
Risorgimento, poi la Marcia e le leggi razziali, poi l’America che ci libera e
resta unica perenne stella polare visto che antifascismo e Resistenza non sono
nominati, infine la palingenesi con il duetto La Russa-Liliana Segre accampati
sugli schermi che chiudono il cerchio. È come se tra la fine della Repubblica
di Salò e oggi ci fosse il nulla, e non: le congiure e i tentativi di colpo di
Stato, Portella della Ginestra, assassinio di Mattei, Gladio, Piano di
rinascita democratica della P2, assassinio di Moro, stragi di mafia, ecc.
Quanto all’antifascismo, Meloni l’ha evocato solo per ricordare gli “anni più
bui della criminalizzazione e della violenza politica, quando nel nome
dell’antifascismo militante, ragazzi innocenti venivano uccisi a colpi di
chiave inglese”. Già, questo fu l’antifascismo, non ci avevamo pensato:
ammazzamenti con chiavi inglesi. Non c’è da stupirsi se questa riscrittura
della storia, che implicitamente riconosce solo agli Stati Uniti il merito di
Liberazione dai nostri mostri, sia perfettamente funzionale ai dogmi
neoliberisti e neocon, in continuità gattopardesca col governo precedente e il
volere dei mercati. Anche questo governo rallenterà le trasformazioni
ecologiche, e per questo incorpora ex ministri come Cingolani, che oltre al
nucleare difende il fossile, il carbone e il gas liquido Usa da comprare a caro
prezzo (esentandolo da rigidi tetti del prezzo: mica è gas russo!) proprio
quando il rapporto Onu pubblicato mercoledì certifica che il riscaldamento
terrestre sta toccando il punto di non ritorno. Impossibile che il pianeta
fronteggi un simile disastro quando infuria una guerra per procura tra
Occidente e Russia e s’infiamma il conflitto Usa-Cina. Come neoliberista/illiberale,
infine, il capo del governo teorizza il laissez-faire, le deregolamentazioni, e
una democrazia non più “interloquente ma decidente” (“Il motto di questo
governo sarà: ‘Non disturbare chi vuole fare’”). Motto plurisecolare, che
Keynes criticò fin dal 1926: “(Il laissez-faire) presuppone che non vi sia
grazia né protezione per quanti indirizzino il loro capitale o il loro lavoro
nella direzione sbagliata. È un metodo che porta verso l’alto i ricercatori di
guadagno a cui arride il successo, grazie a una spietata lotta per la
sopravvivenza, attraverso la quale si seleziona il più efficiente per mezzo del
fallimento del meno efficiente. (…). Se lo scopo della vita è quello di
cogliere le foglie dagli alberi fino alla massima altezza possibile, il modo
più facile di raggiungere questo scopo è di lasciare che le giraffe dal collo
più lungo facciano morire di fame quelle dal collo più corto”. È passato quasi
un secolo e ancora c’è – da Meloni a Renzi a Calenda – chi difende le giraffe
con collo più alto. La guerra contro i poveri è cominciata e la chiamano
Ritorno della Politica e Meritocrazia.
P.S. A tutti, ben ritrovati.
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