Ha scritto Enzo Bianchi oggi, lunedì 28 di novembre
2022, in “Chi sono i credenti”
pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”: In una conversazione con un teologo
cristiano sul tema della fede Umberto Galimberti a un certo punto insorge e
dice con forza: "Mi sento offeso dalla cultura cristiana che chiama quelli
che non credono "non credenti", al negativo, e quelli che non credono
in Dio "atei", che è un altro negativo. Abbiamo diritto di
cittadinanza senza essere definiti in negativo". Questa rivendicazione è
significativa: da un lato attesta la difficoltà da parte dei cristiani di
definire chi non si professa credente in Dio come loro, dall'altro mi sembra si
possa individuare qui una domanda per i cristiani. Chi è colui che crede? Credere
significa aderire, fare fiducia, mettere la fiducia in... Credere ingloba in sé
la speranza. Siamo consapevoli che se pur c'è una differenza cristiana questa
non sta nella capacità di credere: molti umani vivono di fede, nutrendo ogni
giorno pensieri e atti di fiducia, aderiscono a un orientamento con il quale
stare al mondo e renderlo più abitabile e umano, mentre altri che, a differenza
dei primi, si dicono cristiani si nutrono di un cinismo che li segna attraverso
dottrine che non richiedono alcun atto di fiducia, né cammino verso una meta
che li preceda come una promessa. Per gli ebrei la fede è innanzitutto umana, è
un atto di fiducia che si regge anche senza un oggetto in cui credere, ma anche
per i cristiani questa fede resta primaria come atto assoluto che si consuma
nel quotidiano rapporto con gli altri. Com'è possibile credere in Dio che non
si vede, o in Cristo, se non si è capaci di porre la fiducia negli umani che
vediamo e con i quali viviamo? Noi cristiani prima di lamentarci della crisi
della fede in Dio dovremmo interrogarci sulla crisi della fede nel prossimo.
Non è morto solo Dio, è morto anche il prossimo. Se si intende la fede
cristiana come un seguire, un essere impegnati in una sequela, in una chiamata
di Gesù, chi non si confessa cristiano non va chiamato "non
credente". Anche Gesù si è stupito di trovare fede in greci e non trovarla
tra i giudei, il popolo in alleanza con Dio. Fede e incredulità non sono
distribuite con canoni stabiliti da noi, abitano sia il credente in Dio sia chi
sa aver fiducia senza pensare a Dio. Quelli che si dicono credenti sovente
hanno nulla in comune tra loro, non hanno lo stesso Dio perché di lui hanno
immagini diverse. C'è un credente in ogni ateo e c'è un ateo in ogni credente,
anzi Ernst Bloch ha scritto che "solo un ateo può
essere un buon cristiano, solo un cristiano può essere un buon ateo",
perché aveva compreso come il cristianesimo è negazione della religione alla
quale basta un dio per funzionare. Nel nostro mondo globalizzato la marea di quelli
che non credono in Dio è estesa e in crescita. Non sarebbe il caso che le
chiese cercassero di rendere complice questa realtà, di prestare attenzione
alla fiducia, che non è assente, invece di essere attente unicamente ai
credenti in Dio delle altre religioni? Teofilo di Antiochia scriveva: "Tu
mi chiedi di mostrarti il Dio in cui credo, ma io ti mostrerò l'uomo in cui
credo e se tu vorrai capirai il mio Dio". Sull’”essenza” alta del “credere”
ne ha scritto Umberto Galimberti in “La
fede nei miracoli” pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la
Repubblica” del 15 di ottobre ultimo: È quella che sottrae ai credenti la qualità
spirituale, alimentando le parti più infantili di ognuno di noi. (…). …non
conosco le ragioni dell'Arcivescovo di Ferrara che ha tolto al santuario della
Madonna "miracolosa" la titolatura di parrocchia, assegnandone la
giurisdizione alla Cattedrale. Ma
approfitto (…) per spostare l'attenzione sulla devozione, peraltro molto
diffusa, che riduce la fede cristiana a fede nei miracoli. Guai se una fede trova nel miracolo il
sigillo della verità, adunando le folle intorno a un santuario costruito a
seguito di un'apparizione o di un evento considerato miracoloso, perché questo
significa contravvenire al monito che Gesù rivolge all'apostolo Tommaso che
dubitava della sua resurrezione: "Perché hai visto, o Tommaso, hai
creduto; beati coloro che non hanno visto e hanno creduto" (Giovanni
20,29). Se Gesù ha mostrato a tutto il popolo di Gerusalemme lo strazio della
sua passione e a pochissimi il miracolo della sua resurrezione, ciò forse significa
che non intendeva consegnare la fede, che da allora si sarebbe detta
"cristiana", allo stupore del miracolo, ma intendeva affidarla alla
sua partecipazione al dolore del mondo, che da quel giorno, nella religione
cristiana, acquistò un senso, peraltro testimoniato dal fatto che il simbolo di
quella religione divenne il crocefisso. La fede nei miracoli sottrae ai
credenti la qualità spirituale della loro fede, per alimentare le parti più
infantili, più regressive, più ingenue, più primitive presenti in ciascuno di
noi, quando ci si affida al soprannaturale, in cui i credenti ripongono la loro
fede, assegnandole il compito di sottrarci repentinamente al dolore o di
esaudire repentinamente i nostri desideri, che è un tratto comune cli tutte le
religioni primitive, e nel nostro tempo delle religioni carismatiche,
apocalittiche o da new age. Ma oggi, quando il mondo non è più governato dai
simboli e le menti umane dallo stupore, la religione cristiana, che ha
costruito la storia dell'Occidente, dovrebbe evitare di scatenare
l'infantilismo della religiosità, il suo aspetto più primitivo, quello per cui
nessun Dio sarebbe sceso sulla terra per prender parte al dolore del mondo, e
intorno ai miracoli dovrebbe mantenere il silenzio, quel silenzio che Gesù
chiese ai suoi discepoli in occasione della sua trasfigurazione, quando
"proibì ai suoi discepoli di raccontare ad alcuno quello che avevano
visto" (Matteo 9,9). Che ne abbiamo fatto di questo messaggio? Giunge
ancora all'orecchio dei credenti? O si è anch'esso perso e smarrito nel mondo
della comunicazione planetaria? Di fronte alla fede nei miracoli e delle folle
che intorno ai miracoli si addensano, i veri credenti e i non-credenti
rispettosi della religione cristiana pensavano che la fede proposta dal
Cristianesimo percorresse sentieri più impegnativi, che la speranza non si
risolvesse nel gioco delle illusioni, che la carità aiutasse a uscire dalla
logica amico/nemico, perché se il Dio in cui si crede è il Dio dei miracoli,
cosa risponde il Cristianesimo all'ipotesi prima illuminista e poi
materialista, secondo la quale Dio altro non è che la proiezione dei desideri
umani, o come diceva Ludwig Feuerbach: "L'ottativo del cuore umano"
che consegna all'uomo una speranza improbabile che, oltre al dolore, crea la
tragica delusione per l'illusione indotta?
"La fede non deve essere un'illogica fiducia nel verificarsi dell'improbabile ". (S. Kirkegaard). "Io non credo in chi parla agli altri della propria fede, specialmente se a scopo di conversione. La fede non ammette parole. Bisogna viverla e solo allora potrà accadere che si propaghi da sé". (Mahatma Gandhi). "La fede che non agisce è lettera morta, gli atti senza la fede sono peggio ancora. È tempo perso, nient'altro".(Anton Cechov). "Una fede che non dà frutto nelle opere non è fede". (Papa Francesco). "Solo la consapevolezza raggiunta nell'inseguire la struggente luce interiore ci permette di comprendere cosa sia la fede". (Dag Hammarskjold). Secondo me, la vera fede deve trasformare la nostra vita e il modo in cui viviamo rivela sempre chiaramente ciò in cui crediamo. Grazie per questo stupendo post che contiene preziosissimi spunti di riflessione. Buona continuazione.
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