Wlodek Goldkorn ha scritto
della “Sinistra”, ovvero di quando la
“Sinistra” ci teneva tanto d’esserlo,
pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 13 di novembre 2022: Una
volta la sinistra si considerava l'agente del futuro nel presente. L'idea
dell'anticipazione del tempo aveva a che fare non solo e non tanto con una
concezione messianica della storia, quanto con la nozione del tutto mondana del
progresso. Il progresso era figlio dell'Illuminismo, della convinzione che gli
umani, grazie alla capacità di giudizio e alle scoperte della scienza, fossero
in grado di forgiare il loro destino in modo da abolire la miseria,
l'oppressione, lo sfruttamento, la disuguaglianza e la guerra. Ma il futuro, a
pensarci bene non esiste, a meno che non sia costruito come azione collettiva
frutto dell'immaginazione unita alla pratica di solidarietà. La solidarietà significa
la trasformazione dell'empatia (un sentimento connaturato) in sostegno a
chiunque si batta per la libertà e per la giustizia. Ma oggi il progresso è in
crisi. Abbiamo conosciuto - a partire dalle camere a gas, dalla bomba atomica,
dalla hybris del colonialismo e del comunismo realizzato - i suoi pericoli.
Avvertiamo quello che il filosofo Gunther Anders chiamava la discrepanza fra
l'immaginazione umana e le capacità della tecnica: siamo in grado di fare cose
le cui conseguenze non possiamo immaginare. Così il
futuro anziché una promessa è diventato una minaccia. La società poi, da una
società di classi è diventata di massa: individui soli, e dove i diritti
sono percepiti come privilegi. Si è fatto largo un umore (più che un pensiero)
reazionario, che perfino a sinistra ha i suoi adepti, con i riflessi nostalgici
(per il mondo prima della caduta del Muro e per l'Uomo forte dell'Est), e con
lo smarrimento dovuto alla perdita di immediato riferimento di classe. E
allora, la sinistra può rinascere? Sì. A partire dall'affermazione di linguaggi
(gentili e inclusivi), valori (uguaglianza, sorellanza), sentimenti (empatia) e
capacità di rivolta contro le ingiustizie. In fondo si tratta pur sempre di
linguaggi e valori di stampo illuminista e della restituzione dell'idea di un
futuro come Bene comune. Ha scritto Peter Gomez in “Per fortuna i poveri non vanno a votare” pubblicato sul mensile “Millennium”
del mese di novembre 2022: La verità è semplice: alla maggioranza di
noi i poveri fanno schifo. Quando veniamo avvicinati da un senzatetto che ci
chiede una moneta proviamo fastidio o disgusto. Quando scopriamo che una volta
al mese chi percepisce il Reddito di cittadinanza va con la famiglia a
mangiarsi una pizza, ci indigniamo. E anche se stiamo zitti di fronte
all'artigiano che dopo un lavoretto in casa ci chiede di pagarlo in nero
"per risparmiare sull'Iva" o mettiamo il contante sul tavolo dopo che
ci hanno portato un conto senza ricevuta, andiamo ugualmente su tutte le furie
scoprendo che chi riceve 500 euro per non morire di fame ne guadagna altri 200
o 300 facendo le pulizie o scaricando i camion senza contratto. Il pensiero che
ci scatta in testa è sempre lo stesso: se è povero è colpa sua. E lui che non
ha voluto o saputo mettersi in gioco. È un fannullone, come direbbe Matteo
Renzi, o peggio ancora un furbetto perché riceve il sussidio, ma intanto senza
contratto e tutele va per pochi euro a lavorare. Non ci turba il fatto che più
del 90 per cento di chi è nato povero muoia povero indipendentemente dall'impegno
e dagli sforzi fatti in vita, mentre più del 90 per cento di chi è nato ricco,
muore ricco anche se si è dimostrato per anni solo un viziato perditempo. Non
ci sfiora mai l'idea che premiare il merito sia una cosa buona e giusta, ma
purtroppo quasi irrilevante dal punto di vista statistico. Noi intanto, pochi o
tanti, i soldi li abbiamo, mica siamo poveri. E se anche lo siamo stati, adesso
non lo siamo più. Ce l'abbiamo fatta, ci siamo spezzati la schiena, abbiamo
faticato come muli e ora possiamo dire di essere in quel dieci per cento per
cui l'ascensore sociale ha funzionato. Ma l'altro 90 per cento? Tutti scemi,
scansafatiche, incapaci? Può essere, certo. Ma allora perché in questi anni i
ricchi sono diventati sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri tanto che
oggi in Italia ci sono 15 milioni di persone che sfiorano pericolosamente il
livello della sussistenza? Siamo forse un popolo di idioti? Sì lo siamo,
verrebbe da rispondere. Perché anche se abbiamo un lavoro sicuro, se siamo ceto
medio o addirittura alta borghesia, preferiamo non vedere ciò che ci dà fastidio.
Sì è vero: vent'anni fa i bambini poveri (cioè figli di poveri) erano mezzo
milione, oggi sono quasi un milione e mezzo, ma allora perché diavolo se entri
in casa loro c'è la tv accesa e i genitori hanno tutti il telefonino? Poche
balle: che vadano a lavorare! E sì, perché è impossibile non essere d'accordo
con Giorgia Meloni quando dice che la soluzione per chi è in grado di lavorare
non è il sussidio, ma il lavoro. Solo che poi, se ti metti a ragionare, ti
rendi conto di quanto il mondo sia più complicato. Il 75 per cento dei poveri
senza lavoro ha fatto solo la terza media. Un impiego vero, specie al Sud, non
glielo dà nessuno: troppo poco qualificati. Tre milioni di persone, pari al 12
per cento dei lavoratori, faticano, ma sono lo stesso povere. Tanto che tra chi
riceve il Reddito di cittadinanza ci sono 186 mila uomini e donne regolarmente
assunte. Tutta questa umanità dolente non te la fanno però vedere in tv, perché
in tv vedi quasi solo i truffatori, i delinquenti, quelli che spacciano o
rubano e intanto prendono il sussidio. Ma è meglio così. Perché a noi i poveri
fanno schifo. Non la povertà. Proprio i poveri. Come li chiamava quel
presidente francese? Ah sì, gli sdentati. Brutta gente, sporca e persino
cattiva. Per fortuna che a votare tra di loro ci vanno in pochi. Perché se
votassero in massa qualcuno si accorgerebbe di loro. Affermerebbero almeno la
loro esistenza in vita. E pensate che ribrezzo: poveri a milioni. Un disgustoso
verminaio. Ha lasciato scritto Brian O’Nolan – in arte Flann O’Brien,
scrittore irlandese (Strabane 5 di ottobre dell’anno 1911/Dublino, 1º di aprile
dell’anno 1966) - in “La miseria in
bocca” editato in Italia da Feltrinelli (1987): Mio nonno dormiva con le mucche e
io dormivo con il cavallo, Charlie, una perla d'animale, docile e mansueto.
Spesso le pecore si azzuffavano, e non erano poche le volte che passavo la
notte in bianco per tutto quel belare e brontolare. Una notte il nonno rimase
ferito, ma non si seppe mai se a cominciare erano state le pecore, le mucche o
addirittura la nonna. Una sera arrivò un signore, un ispettore scolastico che
si era perso nella nebbia della torbiera. Quando vide quel che si poteva vedere
alla debole luce del fuoco, emise un gran urlo di stupore e rimase impalato
sulla soglia con gli occhi sgranati. E fa: "Ma non vi sembra
vergognoso, indecente e sbagliato dormire con le bestie, tutti quanti pigiati in un
unico letto? Eh? Non vi sembra assurdo, indecente e indecoroso star qua di
notte?". "Sarà vero per lei," dissi a quel signore, "Ma noi
cosa possiamo farci? Il tempo è cattivo e tutti devono starsene al coperto, che
abbiano due o quattro zampe". "Se le cose stanno così” dice il
signore, "non sarebbe più semplice costruire una capanna di lato al
cortile, un po' discosta dalla casa?". "Certo che
sarebbe semplice", gli faccio. Ero rimasto sbalordito da ciò che mi aveva
detto, perché a me non era neanche mai passata per l'anticamera del cervello
una cosa del genere. Il giorno dopo chiamo a raccolta i vicini e gli spiego,
parola per parola, il suggerimento datomi da quel signore. La cosa va bene
anche a loro, e nel giro di una settimana tiriamo su una bella capanna vicino
alla casa. Ma ahiahi! non è mai tutto oro quel che luccica! Dopo due notti che
io, la nonna e due dei miei fratelli dormivamo nella capanna, eravamo così
inzuppati e intirizziti, che ancora oggi mi chiedo come siamo riusciti a
sopravvivere. Decidemmo di tornare a dormire in casa, comodi e tranquilli in
mezzo alle bestie. E da allora abbiamo sempre vissuto così, come tutti gli
altri poveracci che abitano da queste parti.
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