Nell’infosfera siamo tutti infomani e datasexuals: feticisti di informazioni che non comprendiamo, cullati dagli smartphone in una beata stupidità. In che modo le informazioni deformano la verità? «Non bastano le informazioni a spiegare il mondo. Oggi siamo ben informati, eppure ci manca il senso dell’orientamento. Ci approcciamo alle informazioni col sospetto che le cose possano anche stare diversamente. Ecco allora che l’informazione si accompagna una sfiducia di fondo. In questo si distingue dalla verità. Più veniamo messi dinanzi a svariate informazioni, più la sfiducia cresce. Da un determinato punto critico in poi, l’informazione cessa di essere informativa e diventa disinformante. Questo potrebbe-anche-stare-diversamente, questa esperienza della contingenza è un tratto essenziale dell’informazione. Ecco perché le fake news costituiscono una componente necessaria della società dell’informazione. Rientrano nel medesimo ordine. Inizialmente, le fake news sono informazioni come le altre. La società dell’informazione è una società del sospetto. L’informazione non rientra nell’ordine dell’essere, bensì in quello della contingenza. La verità rivela una struttura molto diversa da quella dell’informazione. La funzione della verità consiste nel ridurre la casualità della contingenza. A ben vedere, la verità è una narrazione. Le informazioni non si addensano mai in una narrazione. La verità, al contrario dell’informazione, ci fornisce appiglio e orientamento. Le informazioni conducono a una crisi narrativa, a un vuoto di senso. I dati e le informazioni, da soli, non spiegano nulla. Proprio in questo ambito fioriscono le teorie del complotto che offrono una spiegazione semplice, contrapposta all’esperienza della contingenza. Esse semplificano il mondo riducendo complessità e contingenza».
La digitalizzazione ci fa perdere la capacità di contemplare «che potrebbe essere la ricetta della felicità». Come si può invertire questa tendenza? «Le informazioni possiedono un margine di attualità risicatissimo. Si fondano sul brivido della sorpresa. In tal modo ci precipitano nel turbine dell’attualità. Impossibile indugiare presso le informazioni. Ne prendiamo atto solo per poco tempo, dopodiché il loro status ontologico si azzera, come fossero messaggi della segreteria telefonica già ascoltati. Il mio nuovo libro Le non cose indica proprio le vie attraverso cui potremmo approdare a un indugio contemplativo. In un capitolo, ad esempio, rifletto molto sul silenzio. Le informazioni provocano un baccano infernale che rende impossibile qualsiasi indugio contemplativo. Dovremmo invece riscoprire il silenzio e la sua magia, che è la chiave della felicità».
Dal lavoro fatto con le mani a quello con le dita sugli schermi si perde anche la visione hegeliana dello spirito come lavoro. La società ludica del «phono sapiens» a che tipo di realtà «post-storia» ci può portare? «Il phono sapiens senza mani non agisce, digita soltanto. Certo, è affascinante l’idea che l’uomo del futuro, il phono sapiens, si limiti a giocare, a godersela senza lavorare. Ma sarebbe davvero una condizione ideale? «L’ultimo uomo» di cui parla Nietzsche anticipa già il phono sapiens, e con tutta evidenza non è felice. Diventa un drogato come dice in “Così parlò Zarathustra”: «Un po’ di veleno ogni tanto: ciò rende gradevoli i sogni. E molto veleno alla fine per morire gradevolmente» Per Heidegger, il «cruccio» sta alla base dell’esistenza umana. Il phono sapiens, del tutto privo di crucci, non è più un uomo. L’uomo ha la Storia perché soffre».
L’impianto dello smartphone (o «pornophone») depaupera la vista del «proprio lato magico». In che modo la scomparsa delle cose ci sta accecando, distruggendo la nostra empatia? «Lo smartphone rende ogni cosa immediatamente disponibile e consumabile. In tal modo distrugge l’Altro, che si sottrae a qualsiasi disponibilità. La perdita dell’empatia deriva dal fatto che noi facciamo dell’Altro, del tu, un oggetto consumabile. Insieme allo smartphone ci ritiriamo in una bolla narcisistica che ci protegge dalle imponderabilità dell’Altro. La scomparsa dell’Altro è proprio il motivo ontologico per cui lo smartphone ci rende soli».
Il comunismo opprime la libertà, il capitalismo neoliberista del «mi piace» la sfrutta. Qual è l’alternativa che lei auspica? «Il regime neoliberista non è repressivo, bensì seduttivo e permissivo: sfrutta la libertà invece di opprimerla. Ci sfruttiamo da soli, e appassionatamente, credendo di realizzarci. Il regime neoliberista si fonda invece sul «like». Il like è un amen digitale lo smartphone è l’oggetto devozionale del regime neoliberista. È un rosario digitale. (…).
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