“Altro che
Ue, solo Francesco può imporre la pace a Putin”, intervista di Antonello
Caporale allo storico ed ex ambasciatore Sergio Romano riportata su “il Fatto
Quotidiano” di ieri, mercoledì 23 di febbraio 2022:
“La pericolosità di questa crisi
è che da evento in qualche modo regionale si è trasformata in una competizione
personalistica, in un regolamento di conti tra Biden e Putin. Perciò la
faccenda si va complicando al punto di ... ".
(…). …ritiene che la competizione militare
possa davvero deflagrare, e che Putin non si sazierà con l'annessione del
Donbass. “È chiaro che dopo la Georgia, l'Ucraina, laTransnistria, toccherà
alle altre Repubbliche nate dopo il disfacimento dell'ex Urss”.
Domani parleremo dell'Estonia, della
Lituania? “È del tutto plausibile uno scenario siffatto. Pericolosissimo”.
Chi
sta sbagliando di più? Come dobbiamo valutare questa escalation seguendo
l'ordine degli errori compiuti da ambedue le parti? “A mio avviso dopo la
Guerra fredda, l'Occidente doveva avviare la smobilitazione della Nato. Era una
struttura nata al tempo della contrapposizione col Patto di Varsavia.
Collassato quest'ultimo non aveva senso tenere in piedi un assetto militare che
sarebbe stato visto come struttura di pura aggressione”.
È ciò che lamenta Putin. “E – vista la
situazione con i suoi occhi - non ha tutti i torti. Aver avanzato con gli
insediamenti Nato nell'area dell'ex Urss ha mortificato l'orgoglio russo e in
qualche modo sollecita una risposta”.
La risposta sarebbe quella di riannettere i
territori perduti? “E qui c’è l’errore di Putin, descritto ingiustamente come
un autocrate. Anche il governo di Mosca ha un’opinione pubblica cui rispondere,
certo lì non siamo in una democrazia liberale, ma ha quasi gli stessi problemi
di Joe Biden. Ambedue in qualche modo costretti a prove di forza”.
È stato un errore far immaginare L’Ucraina
nella Nato? “Doppio errore da matitone blu. Non solo perché, l'abbiamo appena detto,
la Nato non ha senso di tenerla in piedi così come l'abbiamo conosciuta durante
la Guerra fredda. Non solo non l'abbiamo trasformata, rimodulata, aggiornata,
ma abbiamo pensato possibile che al confine con Mosca l'Occidente potesse
puntare i cannoni e tenere lo zar sotto tiro”.
Siamo aggressori noi occidentali? “Dobbiamo
sforzarci di valutare con equilibrio la situazione. Come ci sarebbe parso se la
struttura militare del mondo che si contrappone a noi avesse messo radici in
Svizzera, a un tiro di schioppo da Milano? Sarebbe o no stata destabilizzante
questa situazione?”.
Qual è dunque una negoziazione possibile,
realistica, dove la corda non solo non la si tiri più giacché è già stata
spezzata, ma neanche si immagini di fabbricarne. “Secondo me l'Ucraina deve
divenire territorio smilitarizzato, cuscinetto tra l'Ovest e l'Est, Paese neutrale”.
L'Ucraina una sorta di grande Svizzera
dell'Est. “Certamente più povera, ma simile nell'assetto politico. Washington e
Mosca devono impegnarsi a evitare ogni ingerenza militare”.
Lei pensa che basti? “Al punto in cui siamo,
io mi preoccuperei di sapere chi sarebbe il facitore di questa pace. Questa
domanda dovrebbe ottenere una risposta”.
Pensa che gli europei non abbiamo la forza
di imporre la pace a Putin né di chiedere a Biden di non giocare a braccio di
ferro con la Russia? Biden ha da rispondere alla sua opinione pubblica. “Infatti
si sta giocando la rielezione. Se perderà la partita con Putin addio sogni di
gloria”.
Se l'Europa è fuori gioco e gli americani
troppo dentro il gioco, chi può obbligare Biden e Putin a firmare la pace? “Il Papa”.
Papa Francesco ha spiegato con dolore che la
guerra è la prima chance dell'uomo. E questa guerra sembra sia attesa, annunciata,
favorita, sostenuta da un club di potenze personali. “Più la guerra sembrerà inevitabile,
più i toni si alzeranno”.
Secondo lei a quale punto di non ritorno si
arriverà? “Due grandi potenze nucleari si affrontano. Stiamo parlando di
questo”.
Sarebbe un punto di non ritorno? “Solo il
Papa potrebbe chiedere un atto di sincera e buona volontà”.
La proposta che lei intravede sarebbe
l’Ucraina nuova Svizzera d’Europa? “Io penso di sì”.
Di seguito, “L’atlantismo
di Draghi impotente in Ucraina” di Barbara Spinelli, pubblicato su «il
Fatto Quotidiano» del 23 di febbraio 2022: (…). Negli anni ’70 l’Italia fu chiamata
alla riscossa contro gli “opposti estremismi”. Prima ancora, nel secondo
dopoguerra, fu imposta la “conventio ad excludendum”: i comunisti andavano
esclusi dai governi, per volontà non degli elettori ma di Washington e della
Nato. Quello scenario si ripete, adesso che la guerra fredda ricomincia e
addirittura si riscalda in Ucraina, solo che la quarantena politica – morto il
Pci – è riservata al leader di 5 Stelle: inaffidabile perché ebbe la
sfrontatezza di aprire alla Via della Seta e di nutrire dubbi sulle sanzioni.
Ecco dunque rispuntare i raggruppamenti centristi, sempre rassicuranti perché
sempre allineati: quadripartiti, pentapartiti, e via allargando nella speranza
che alle prossime elezioni il M5S perda più voti di quel che già perde per
conto proprio. Se nel descrivere la resurrezione di vecchi scenari citiamo Nato
e Usa è perché il nuovo “campo largo” (si dice centrosinistra ma s’intende
centrodestra) è andato rafforzandosi man mano che cresceva la tensione
Usa-Russia sull’Ucraina. Tensione sfociata nella rabbiosa mossa di Putin che
riconosce e garantisce militarmente l’indipendenza delle regioni del Donbass
(Donec’k e Luhans’k) e alimentata per anni dall’afonia europea e, in Italia,
dall’accresciuto appiattimento sulle bellicose posizioni statunitensi e
britanniche. Macron almeno si è adoperato perché i negoziati riprendessero;
Scholz ha sospeso ieri l’autorizzazione del gasdotto Nord Stream 2 – un
disastro per gli europei – ma prima aveva almeno ammesso che l’ingresso di
Ucraina e Georgia nella Nato “non è all’ordine del giorno” (cruciale obiettivo
strategico di Putin). Draghi invece niente. Ha perso il treno del pomposamente annunciato
viaggio a Mosca, e ieri ha definito “inaccettabile” la mossa russa: aggettivo
futile, perché chi dice inaccettabile senza metter subito mano alla pistola ha
già accettato. Prima ancora, il 17 febbraio, ha emesso commenti piuttosto
sbalorditivi. Nessun accenno alle richieste di Putin, né agli accordi di
Minsk-2 (ampia autonomia delle autoproclamate Repubbliche di Donec’k e
Luhans’k, mai concessa da Kiev), ma in cambio smilzi appelli al dialogo e un
peculiare compiacimento: “Il punto numero uno è riaffermare l’unità atlantica.
Questo è forse il fattore che ha più colpito la Russia! Inizialmente ci si
poteva aspettare che essendo così diversi avremmo preso posizioni diverse,
invece nel corso di tutti questi mesi non abbiamo fatto altro che diventare
sempre più uniti. Il dispiegamento di quest’unità già di per sé è qualcosa di
importante”. Il Presidente del Consiglio dimentica che nel 2003 Parigi e
Berlino si scontrarono con gli Usa e non parteciparono alla rovinosa guerra in
Iraq. Lo spirito e gli interessi europei furono salvaguardati da un memorabile
intervento all’Onu del ministro degli Esteri Dominique de Villepin, e il
conflitto con Washington fu benefico. L’unità atlantica non è rassicurante a
priori, nei rapporti con Mosca o anche Pechino. E per quanto ci riguarda: se la
Nato non rispetta gli interessi di tutti gli europei vale solo il primo
paragrafo dell’articolo 11 della Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra”. Non
pochi commentatori, istupiditi dalla “fermezza atlantista” di Palazzo Chigi,
scoprono con otto anni di ritardo che nel Donbass c’è guerra tra forze ucraine
(compresi battaglioni neonazisti) e popolazioni russofone che Kiev si limita a
definire russofile. Temo che conoscano poco la situazione, nonostante le
puntuali precisazioni offerte da esperti per niente estremisti come l’ex
ambasciatore Sergio Romano o lo storico Gastone Breccia (“La Nato non è stata
concepita per arrivare fino al Dnepr. Riconoscere le ragioni geopolitiche
dell’avversario e i propri limiti strategici non significa tradire i principi
fondativi dell’Occidente, ma soltanto applicarli con realismo e saggezza”). Su
questo punto Letta jr. è più realista del re. Il 25 gennaio giudicò
improponibile la candidatura al Colle di Franco Frattini – ventilata da Conte e
Salvini– per il solo fatto che l’Improponibile menzionava i millenari interessi
russi (evocati con insistenza da Putin, lunedì) e sconsigliava altri
allargamenti della Nato, in memoria delle promesse fatte a Gorbachev nel 1990. Se
così stanno le cose tuttavia, e se anche in politica interna il patto Pd-M5S si
sbriciola, sarebbe ora di smettere il termine “centro-sinistra”. La sinistra
non c’è, nel campo largo detto nuovo centro-sinistra. L’attributo non può
essere accampato a vanvera per l’eternità. E non perché Conte rappresenti la
sinistra. Ma su alcuni punti la tiene in vita: sul lavoro precario, il salario
minimo, la corruzione, la giustizia, il reddito di cittadinanza, e non per
ultimo sulla visione di un ordine mondiale multipolare, che metta fine all’unipolarismo
Usa e al suo costante bisogno di nemico esterno. Il campo largo liquida questa
sinistra, per sintonizzarsi con un atlantismo che cura interessi
industriali-militari contrabbandandoli per Valori. Della storia russa
(Leitmotiv significativo nel discorso di Putin) Italia e Occidente non sanno
più nulla, da quando Clinton e Obama vollero allargare la Nato a Est.
Nell’agosto 1991 Bush padre avversò l’indipendenza dell’Ucraina; nel 2014
Helmut Schmidt ricordò che “fino ai primi anni ’90 l’Occidente non dubitava che
Crimea e Ucraina fossero parte della Russia. Il comportamento del leader del
Cremlino è comprensibile”. Sono saggezze perdute, da ritrovare. Le larghe
intese –la formula Draghi senza Conte – fanno comodo a tutti coloro che
ritengono bifolco ogni partito che non abbia, come unica cultura, quella “del
governare”, non importa se nelle vesti di vassalli. Fa bene Conte – definito
sull’«Espresso» “un ambizioso avvocato, scialbo e opportunista, privo di
afflato politico” – a rispondere che “creare accozzaglie per puntare solo alla
gestione del potere senza la reale prospettiva di un governo che serva davvero
a cambiare il Paese a noi non interessa”. Si spera che non interessi troppi
dirigenti, nel suo partito.
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