Ha scritto Nando Dalla Chiesa in “Memoria corta. Gli anni di Tangentopoli nell’oblio di un Paese che non
ricorda più” pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi, lunedì 21 di
febbraio 2022: Ci stanno portando via la memoria. E una copertina dell’Internazionale
ha rilanciato l’allarme analogo della scienza: ci stanno portando via
l’attenzione. Viviamo in un mondo che ci sommerge di impulsi a sapere, a
controllare, a decidere, oltre le possibilità di governo del cervello umano.
Perciò non ci concentriamo, perciò non sappiamo. Ma è sempre così? È sempre
colpa della società che cambia o c’entra, al contrario, qualcosa che riguarda
la nostra pigrizia intellettuale? (…). …ho cercato di ricostruire i fatti, i
fermenti, le culture, i sentimenti, che portarono a quella data (il 17
di febbraio dell’anno 1992 n.d.r.) fatidica. A partire dall’indimenticabile
apologo sull’onestà di Italo Calvino, marzo 1980. Ho provato a ripercorrere,
dotandolo di senso, ciò che portò alla fine a sgretolare le mura di un edificio
che i suoi padroni ritenevano eterno, ricavandone per sé una sensazione di
onnipotenza. Tanto da non capire, in quel 1992, da dove gli arrivassero addosso
le ondate che li stavano sommergendo. I referendum elettorali o il movimento
per l’elezione diretta dei sindaci, la Lega nata nelle valli del Nord, e la
Rete nata per reagire alla mattanza mafiosa in Sicilia. Il circolo milanese di
“Società Civile” o la rivista I Siciliani di Giuseppe Fava a Catania. La
critica di Norberto Bobbio, annoverato da Craxi tra gli “intellettuali dei miei
stivali”, e quella dei gesuiti, il cardinal Martini a Milano e padre Sorge o
padre Pintacuda a Palermo. Fino al film d’epoca, Il portaborse di Nanni Moretti
e Silvio Orlando, o al successo strepitoso di Cuore, il settimanale satirico
che inventò il titolo anch’esso d’epoca: “Torna l’ora legale, panico tra i
socialisti”. E tante altre cose che la memoria nazionale ha messo in un armadio
tutte insieme, salvo ripescarne isolatamente qualcuna ogni tanto. Ecco, questo
mi colpisce nelle rievocazioni. La estrema brevità di quella stagione, il suo
incistamento in una parentesi di nemmeno due anni, in cui – sembra di capire –
tutto accadde, svuotando di senso il pensiero, l’azione e le fatiche di
centinaia di migliaia di persone, alle quali una informazione controllata dai
partiti e priva della rete quasi non diede voce per un decennio. Perciò la tesi
del “golpe giudiziario” così cara ai socialisti è semplicemente antistorica,
anche se dà conto del dispetto degli stessi socialisti davanti alla storia,
allo scoprirsi vulnerabili proprio quando la caduta del Muro avrebbe dovuto
regalare loro, con la fine del comunismo, la supremazia sul partito che in
Italia era stato comunista fino a un anno prima. Ma è antistorica anche la
rappresentazione di un pugno di magistrati onesti che manda a picco una
Repubblica, pur se in superficie apparve effettivamente così. (…). Mi colpisce
la memoria senza memoria. Alla quale a ogni occasione si torna, per parlare di
due anni che alla fine ci risultano incomprensibili nelle loro premesse e nei
loro esiti. (…). Di seguito, “Com’era
Mani Pulite tradita dai partiti” di Massimo Fini, pubblicato su “il Fatto
quotidiano” del 20 di febbraio 2022: (…). Fine febbraio 1992. Io lavoravo
all’Indipendente di Feltri, ma in quei giorni ero in vacanza nella casa di
proprietà dei genitori della mia fidanzata. Una sera il padre di lei, che come
tutti gli anziani passava ore davanti al piccolo schermo, mi venne a cercare e
mi disse: “Vieni a vedere la tv, c’è una trasmissione interessante, curiosa”.
Andai e vidi qualcosa che allora aveva dell’incredibile. Un noto politico
democristiano alla sbarra, messo sotto il torchio da un tipo massiccio,
atticciato, dall’aria contadina, il Pubblico ministero. Era Antonio Di Pietro.
Fu una trovata geniale quella di Francesco Saverio Borrelli, che dirigeva la
Procura di Milano e il gruppo di magistrati che sarebbe stato poi chiamato “il
Pool di Mani Pulite” – che allora comprendeva solo Gerardo D’Ambrosio, Gherardo
Colombo e Antonio Di Pietro (Ilda Boccassini, Davigo, Greco si aggiunsero dopo)
–, di affidare gli interrogatori in aula, tutti quelli che potemmo vedere in
tv, proprio a Di Pietro. Agli indagati che cercavano di difendersi col solito,
fumoso, politichese, Di Pietro opponeva il suo buonsenso contadino e a quel
politichese totalmente fuori dalla materia del contendere replicava col suo
famoso: “che c’azzecca”? Vedemmo sfilare una serie di intoccabili con tutta la
loro miseria. A me colpì molto l’interrogatorio di Claudio Martelli, uscito
dalla casa di Carlo Sama con 500 milioni in contanti nascosti in un giornale.
Claudio era stato mio compagno di banco al liceo classico Carducci. Ma come,
dicevo fra me, noi siamo stati educati nei migliori licei di Milano per
diventare classe dirigente e tu sgattaioli con 500 milioni in tasca come un
malandrino qualunque. Ricordo lo sguardo di Martelli rivolto a Di Pietro. Era di
ghiaccio. Se avesse potuto ucciderlo, almeno col pensiero, l’avrebbe fatto.
Martelli aggravò la sua posizione affermando che pensava che quei 500 milioni
non fossero della Montedison ma personali di Sama. Martelli ne uscirà con un
“patteggiamento”, restituendo quei 500 milioni. Mani Pulite ebbe all’inizio un
grande consenso da parte della popolazione, stufa dell’arroganza impunita della
classe dirigente, e anche della grande stampa che aveva la coda di paglia per
aver taciuto e assecondato il regime. Ma ebbe anche un eco internazionale. Si
plaudiva all’Italia che aveva il coraggio di ripulire in pubblico i propri
panni sporchi. Certamente ci furono degli eccessi in quei due anni. Ma non da
parte della Magistratura. Bensì da parte di una popolazione inferocita presa
dalla sindrome ben descritta da Buzzati in Non aspettavano altro (le monetine
lanciate a Craxi davanti al Raphael, l’inseguimento del ministro degli Esteri
Gianni De Michelis fra le calli di Venezia). Per accanimento forcaiolo si
distinse proprio Feltri (diventerà “ipergarantista” quando passerà alla corte
di Berlusconi): la foto di Enzo Carra in manette sbattuta in prima pagina,
l’appellativo di “cinghialone” affibbiato a Bettino Craxi trasformando così una
legittima inchiesta della magistratura in una “caccia sadica”, il
coinvolgimento dei figli di Craxi. Toccò a me, sempre sull’Indipendente
difendere loro (“Caro direttore, ti sbagli su Stefania Craxi” – L’Indipendente,
11-5-1992) e in qualche modo lo stesso Craxi nel momento della sua caduta, quando
improvvisati fiocinatori, fra cui eccellevano alcuni suoi amici, si accanivano
sulla balena ferita a sangue (“Vi racconto il lato buono di Bettino” –
L’Indipendente, 17-12-1992). Uno dei tanti errori di Craxi fu definire Mario
Chiesa, il presidente del Pio Albergo Trivulzio, colto in flagrante il 17
febbraio 1992 mentre buttava una mazzetta nel cesso, un “mariuolo”, come se si
trattasse di una mela bacata in un cesto di mele immacolate. Se avesse fatto in
quel momento la chiamata di correità di tutti i partiti avrebbe avuto un
valore, farla in Parlamento cinque mesi dopo nel luglio del 1992, quando era
stato pescato lui stesso con le mani sul tagliere, era troppo comodo. Passata
la prima buriana, la classe politica cercò di reagire, col famoso decreto “salvaladri”
del ministro della Giustizia Biondi (primo governo Berlusconi) che metteva in
libertà numerosi detenuti di Tangentopoli. Ma era troppo presto. Il decreto fu
ritirato per la reazione popolare e perché i quattro magistrati Di Pietro,
Davigo, Colombo, Greco si presentarono in tv affermando che se le cose stavano
così avrebbero chiesto di essere assegnati ad altro incarico. Il più astuto a
cercare di approfittare della situazione fu Berlusconi. Prima cercò di lisciare
il pelo ai magistrati offrendo a Di Pietro, che la rifiutò, la carica di
ministro degli Interni nel suo governo (Di Pietro diverrà poi nel linguaggio
berlusconiano “un uomo che mi fa orrore”) poi, inquisito a sua volta,
innescherà la reazione attaccando senza soste i magistrati di Mani Pulite e la
Magistratura in generale, suonando la grancassa dell’anticomunismo perché a
essere spazzati via dalle inchieste furono la Dc, il Psi, il Pli, il Pri,
mentre il Pci si era in qualche modo salvato, perché il compagno Primo Greganti
arrestato si rifiutò, in perfetto e coerente stile vecchio Pci, di fare
qualsiasi nome, di imprenditori e tantomeno di uomini del suo partito. Durante
gli anni della reazione berlusconiana il fuoco di fila si concentrò soprattutto
su Antonio Di Pietro, messo sette volte sotto processo e sette volte assolto.
Perché fu possibile Mani Pulite? I suoi presupposti vengono da lontano. Col
collasso dell’Urss era venuta meno la paura dell’“orso russo” e quindi anche il
detto di Montanelli secondo il quale era necessario votare la Dc (“turatevi il
naso”). Nel frattempo era nata la Lega di Umberto Bossi, il primo, vero,
partito d’opposizione dopo anni di consociativismo, perché il Pci era stato
appunto associato al potere. Se quindi prima era possibile innocuizzare i
magistrati che cercavano di ficcare il naso nella corruzione
politico-imprenditoriale senza che nessuno osasse alzare una voce, adesso
questa voce c’era e si chiamava Lega. E al Nord, che era particolarmente
colpito dalla corruzione, la Lega prendeva il 40 per cento dei consensi, non
solo provenienti dalla Dc, e non si poteva ignorarla. Prima della nascita della
Lega, il sistema per paralizzare le inchieste era quello di farle finire alla
Procura di Roma, non a caso chiamata “il porto delle nebbie”, che regolarmente
le insabbiava. Oggi, a trent’anni di distanza, si cerca di capovolgere
completamente la storia di Mani Pulite. S’inventano tesi molto fantasiose come
quella che vede dietro Mani Pulite gli americani. Non si vede proprio perché
mai gli americani volessero la distruzione di partiti atlantisti a favore
dell’unico partito che atlantista non era, il Pci-Pds. E ci fermiamo qui perché
le fake in materia sono innumerevoli. È vero invece che Mani Pulite non ha
cambiato l’Italia in meglio, ma in peggio. Ma questa non è responsabilità dei
magistrati di Mani Pulite, ma della politica. Mani Pulite, che richiamava anche
la classe dirigente al rispetto di quella legge che noi tutti siamo tenuti ad
osservare, avrebbe potuto essere una lezione e un’occasione per questa stessa classe
dirigente per emendarsi dalla propria corruzione. E invece nel giro di pochi
anni, per la politica ma anche per i grandi giornali, i veri colpevoli
divennero i magistrati e i ladri le vittime e spesso giudici dei loro giudici.
Non c’è quindi da stupirsi se, con simili esempi, la corruzione discendendo giù
per li rami abbia finito per coinvolgere quasi tutti, anche cittadini che per
loro natura sarebbero onesti ma che non vogliono passare per “i più cretini del
bigoncio”, e insinuarsi in ogni ambito della nostra vita istituzionale e
sociale, compresa la stessa Magistratura. E così il cerchio si chiude.
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