"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 4 febbraio 2022

Paginedaleggere. 86 «Così parlò Zarathustra: "Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza!"».

 

Ha scritto Enzo Bianchi in “La dignità del corpo” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 12 di luglio dell’anno 2021: (…). Il corpo è il nostro modo di essere al mondo, di prenderne parte, di rispondere ai suoi molteplici richiami e alle sollecitazioni che ci chiedono di accogliere gioia e piacere, dolore e fatica, apertura a comunicare e chiusura che come un muro crea un'invalicabile barriera. Sì, proprio questo nostro corpo, costruito da noi ogni giorno, ma anche plasmato dagli altri e dagli eventi della vita, sovente è ridotto a un'immagine, anzi a diverse immagini che la società veicola e ci offre. Soprattutto i mezzi di comunicazione presentano visioni e immagini privilegiate di corpi esenti dal dolore, non deformati dalla malattia, non intaccati dalla bruttezza. Siamo così istigati all'esaltazione del corpo prestante, a un'idolatria della giovinezza, a un'esibizione di ciò che può provocare piacere. Corpo seducente, sempre sano, la cui bellezza ci sveglia e ci ferisce, eppure un corpo muto, non eloquente, senza profondità, omologato ai canoni estetici dominanti, sovente parcellizzato e cosificato. Nessuna possibilità di scorgere la simbolicità del corpo, che in realtà è sempre un appello, una vocazione a essere un ponte o un muro, capace di accogliere o di respingere. C'è dunque l'esigenza di riprendere in mano il rapporto con il proprio corpo e con il corpo dell'altro non attraverso immagini idealizzate del corpo, bensì a partire dall'aspetto meno piacevole, quello della sofferenza. È quel che non vogliamo vedere, nel corpo dei carcerati picchiati e torturati, nel corpo di donne violentate, nel corpo degli scarti della società che non possiamo non incontrare. (…). Il corpo, non dimentichiamolo, permane il "luogo" della nostra iscrizione nel "senso" della vita. Nel corpo che mi accomuna a ogni umano e che da ogni umano mi differenzia e mi personalizza è incisa la mia unicità e la mia chiamata a esistere con e grazie agli altri. Il corpo, non scelto, resta però un compito da realizzare e questo rappresenta una grande sfida che richiede libertà, responsabilità e accoglienza da parte degli altri. Così parlò Zarathustra: "Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza!". Della “dolorante”, mortificante conflittualità con il proprio corpo ne ha scritto Claudia de Lillo – in arte Elasti – in “Ho passato più tempo a guardarmi in cagnesco che a godermi ciò che il mio corpo mi ha consentito di fare”, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 16 di ottobre dell’anno 2021: Mio figlio minore, detto Sneddu per motivi che si perdono nelle origini del lessico familiare, ha undici anni, il corpo di burro dell'infanzia, piedi prensili capaci di scrocchiare a comando, un colore ambrato tutto l'anno e un neo sulla guancia con cui ha fatto pace solo di recente. Per quanto io lo veda bellissimo, è un ragazzino come tanti, un abitante di quel territorio al limitare dell'infanzia, dove le madri si struggono e i figli scalpitano. L'altro giorno eravamo sul lettone, uno vicino all'altra. Lui, compiaciuto, sventolava in aria le sue enormi estremità e mi mostrava i suoi superpoteri («Guarda, mamma, come so allargare le dita dei piedi, come riesco a piegare all'indietro quelle delle mani, come mi tocco il naso con l'alluce, come inarco la schiena e gonfio la pancia, come intreccio le gambe, come devi essere fiera del fenomeno che sono») e io mi beavo in quell'intimità complice e sbruffona, destinata a sfumare sull'altare della prossima, irsuta adolescenza. Guardavo lui così fiero e a suo agio nel suo corpo in fieri e mi domandavo se continuerà, negli anni a venire, ad accettarlo e ad accettarsi così com'è, a volergli bene. Prima di avere tre figli maschi, ero convinta che le paturnie, le insicurezze, l'attenzione, l'autocritica feroce, l'ambivalenza nei confronti della propria fisicità, fossero tormenti squisitamente femminili. E invece sono angustie trasversali e democratiche in grado di colpirci in età acerba e di camminare al nostro fianco una vita intera. Io all'età di Sneddu non avevo i piedi prensili ma le prime mestruazioni e troppi peli superflui. Fu allora che la mia testa prese le distanze dal mio corpo e cominciò a giudicarlo e talvolta persino a punirlo per l'unica colpa di esistere. Nell'età che mia madre chiamava ingrata ebbe inizio quella feroce dissociazione tra pensiero e carne, troppo spesso innescata da commenti improvvidi. «Non hai tette», mi schernì un ragazzino che, scoprii troppo tardi, voleva fare colpo (ma perché i maschi sono così stupidi ogni tanto?). «Certo che ti è venuto un bel sederotto», commentò mio padre al settimo mese della mia prima gravidanza, ignaro delle conseguenze. «Queste si chiamano culatte del cheval, dovresti farle andare via», mi consigliò un'amica soppesando i miei cuscinetti sulle cosce. Pensava di essere d'aiuto e invece io smisi di mangiare. Ho passato più tempo a guardarmi in cagnesco che a godermi tutto ciò che il mio corpo mi ha consentito di fare. E ho capito che l'unico modo per far pace con lui era riconoscerne i meriti e trasformare la diffidenza in gratitudine. Me lo hanno insegnato la nutrizionista, la maestra di yoga e il desiderio di diventare grande. Sneddu e i suoi undici anni sono grati ai piedi che afferrano gli oggetti, al suo neo da quando ha scoperto che Robert De Niro ne ha uno uguale, ai suoi undici decimi che lo rendono imbattibile a Fortnite. Dovrei imparare da lui e apprezzare un corpo che avrà anche poche tette e altre mille imperfezioni ma mi ha consentito di fare tre figli, mi permette di svegliarmi alle 4 del mattino per andare a lavorare senza schiantarmi, di stare a testa in giù e di fare il ponte, di digerire i panzerotti fritti, di andare in bicicletta sulla circonvallazione, di essere felice. Non so se ci riuscirò ma ho promesso a me stessa e a Sneddu di impegnarmi perché anche lui ha diritto, nella sua prossima adolescenza, a una madre adulta.

1 commento:

  1. "L'uomo esteriore è abitato da un uomo interiore. Dietro il corpo si cela l'anima".(Josè Ortega y Gasset). "Comincia a vederti come un'anima con un corpo, piuttosto che un corpo con un'anima".(Wayne Dyer). "L'anima è la forma del corpo". (Aristotele). "Sono un'anima che ha una parte visibile chiamata corpo". (Paulo Coelho). "Invecchiare è una catastrofe del corpo che la nostra codardia trasforma in catastrofe dell'anima".(Nicolas Gomez Davila). "Il corpo è terra, ma l'anima è fuoco". (Ennio). "La verità più difficile a far intendere è che noi abbiamo un'anima più preziosa del nostro corpo". (Fenelon). "Frate corpo è la nostra cella, e l'anima è l'eremita che vi dimora".(Francesco d'Assisi). "L'uomo non è né mero intelletto, né un grossolano corpo animale, né cuore o anima soltanto. Per comporre l'uomo nella sua interezza è necessaria una giusta e armoniosa combinazione di tutte e tre le cose". (Mohandas Gandhi). In conclusione questa dualità di corpo e anima è abbastanza artificiosa, perché in realtà tutti i vari aspetti si fondono l'uno nell'altro. Ma stupenda è quest'ultima citazione che voglio condividere:"Come corpo ognuno è singolo, come anima mai".(Hermann Hesse). Grazie per questa nuova perla di questo blog, che è stata per me un'ottima opportunità di riflessione. Buona continuazione.

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