Dalla terza di copertina del volume “Racconti contagiosi” di Siegmund
Ginzberg – Feltrinelli editore (2020), pagg. 329, euro 18 -: Uscita
dal lockdown, la signora Dalloway di Virginia Woolf è presa da una voglia
incontenibile di shopping. Il Decameron di Boccaccio si svolge attorno a un
distanziamento sociale volontario nei giorni della peste. Romeo e Giulietta di
Shakespeare muoiono a causa di un eccesso di polizia sanitaria. Il cardinale
Borromeo di Manzoni aveva inventato la messa cantata dai balconi. La
fantascienza aveva anticipato virus più perfidi del corona. È stata l'Italia a
inventare nel Trecento le prime misure per fermare il contagio. Aveva i
migliori medici, fu lodata e imitata nel resto d'Europa. Ma non bastò a
impedire una decadenza di parecchi secoli. Quarantena, distanziamento sociale,
stop ai teatri, alle taverne e alle feste sono sempre stati molto impopolari.
Pesti, epidemie, contagi ce li raccontiamo da sempre. Probabilmente da millenni
prima che si cominciasse a scriverne. I racconti si somigliano. E soprattutto
somigliano alle cronache dei nostri giorni. Boccaccio copia Tucidide, Lucrezio
e Ovidio, London aveva copiato da Poe e da Mary Shelley. Camus usa la Peste
inventata per parlare dell'invasione nazista. Il male non viene chiamato allo
stesso modo. Non sappiamo nemmeno se si tratti delle stesse malattie. A un
secolo di distanza sappiamo poco della Spagnola. E non abbastanza del Covid.
C'è qualcosa di profondamente umano che accomuna tutte le narrazioni: la paura,
l'orrore, la ricerca del colpevole, le fake news e i rimedi bislacchi, ma
talvolta efficaci. Per un paio di secoli dopo il Decameron i testi medici
indicavano il raccontarsi storie e lo stare allegri come profilassi contro il
contagio. Ci sono molte sorprese nelle strade dell'immaginario (…). Talvolta la
fantasia l'azzecca più della scienza. I cronisti antichi più dei contemporanei.
Tutti quanti, però, hanno in comune una strategia per convivere con l'epidemia:
disinnescarla con gli strumenti potentissimi della narrazione. Di seguito,
“Quanto sarà Long il Covid” di Alex
Saragosa, pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 18 di
febbraio 2022: Francesca, 40 anni, è bloccata da una stanchezza devastante, Luca, 55
anni, ha forti mal di testa e la mente confusa, Gianni, 32 anni, soffre di
dolori articolari, Alice, 28 anni, è preda di una grave depressione, Roberta,
41 anni, è tormentata da continui disturbi gastrointestinali, Laura, 18 anni,
può mangiare solo con le finestre aperte perché l'odore del cibo la disgusta,
mentre Mara, 61 anni, sta sviluppando una psicosi con manie di persecuzione. Sembra
impossibile, ma questo assortito campionario di sofferenze ha un'unica causa:
il Covid-19 (nelle varianti precedenti alla Omicron, sulla quale ancora non si
hanno dati). Parliamo di pazienti che non hanno mostrato questi sintomi durante
l'infezione, ma che hanno cominciato a soffrirne settimane dopo l'essere
tornati negativi, e che, in molti casi, continuano ad esserne affetti anche a
più di un anno di distanza. È il Long Covid, una bomba a orologeria che sta
lentamente innescandosi dietro le centinaia di milioni di contagiati, e che,
secondo la ministra della Salute finlandese Krista Kiuru, si configura come la
più grande minaccia alla salute pubblica dei prossimi anni. La ragione
dell'allarme è che il Long Covid colpisce almeno il 10 per cento dei pazienti:
il britannico Office for National Statistics ha censito a dicembre 2021 1,3
milioni di malati di Long Covid su 12 milioni di infezioni. Il che suggerisce
che anche in Italia dovremmo avere circa un milione di persone con questa
sindrome. Il "veleno in coda" del coronavirus è l'argomento di Il
lungo Covid (Utet, pp. 240, euro 18), saggio della giornalista scientifica di
formazione farmacologica Agnese Codignola. "Di Long Covid si è cominciato
a parlare fin dai primi mesi della pandemia, quando ci si accorse che molti
pazienti, anche dopo la scomparsa del virus, continuavano a stare male a causa
di una incredibile varietà di sintomi: uno studio uscito su Nature riguardante
73 mila veterani Usa, reduci dall'infezione, ne ha contati 379 diversi"
spiega Codignola. "Inizialmente, però, non erano presi sul serio: i medici
pensavano si trattasse di suggestione o delle conseguenze del trauma
psicologico della malattia. Tanto più che questa sindrome colpisce soprattutto
le donne, il che non ha mancato di produrre vergognose allusioni al fattore
'isterismo'". Altro comune equivoco è quello di confondere il Long Covid
con le conseguenze dei danni diretti della malattia grave e dei lunghi
ricoveri. "Tutte le lungodegenze, soprattutto se in terapia intensiva,
richiedono poi mesi per riprendersi, ma il Long Covid è un'altra cosa: chi ne
soffre ha spesso avuto l'infezione in forma lieve o asintomatica, tanto che si
sospetta che molti casi non siano neppure riconosciuti come tali, perché la
persona non si è neanche accorta di aver incontrato il virus". Nonostante
l'infezione possa essere lieve, le conseguenze di ciò che accade dopo spesso
sono devastanti. Secondo il documento Oms Post Covid Condition, il sintomo più
tipico è la fatigue, una spossatezza invincibile, che, soprattutto se si somma
ad altri sintomi comuni, come dolori alle articolazioni e al petto, affanno e
brain fog, cioè nebbia mentale, impossibilità di pensare chiaramente,
trasformano improvvisamente persone giovani e attive in invalidi da accudire. In
questo quadro non sorprende che anche la depressione vi sia spesso associata.
"Ma attenzione, questa può certo essere dovuta alle sofferenze e alla
mancanza di cure, ma il Long Covid è caratterizzato da una forte infiammazione
in vari organi, fra cui il cervello. I danni al sistema nervoso causano quindi
sintomi cognitivi e neurologici, fra cui la stessa depressione, ma anche
manifestazioni drammatiche, come psicosi o demenze, o molto strane, come le
parosmie, alterazioni dell'olfatto, che fanno percepire come gradevoli odori
disgustosi e come insopportabili quelli un tempo graditi, rendendo i rapporti sociali
e l'alimentazione molto complicati". Che cosa sia a provocare questa
infiammazione sistemica è ancora un mistero: alcuni pensano sia un risultato
della violenta risposta immunitaria a un patogeno sconosciuto come il
Sars-CoV-2, altri che derivi dalla persistenza del virus, nascosto in certi
organi. C'è poi chi ipotizza che sia in realtà diretta contro virus dormienti
negli esseri umani, come il citomegalovirus o l'Epstein-Barr (mononucleosi),
risvegliati dal Covid-19, e c'è infine chi ritiene che l'attacco contro
Sars-CoV-2 degeneri in autoimmunità, cioè nella produzione di anticorpi diretti
contro proteine dell'organismo, simili a certe del virus, innescando così
infiammazione e danni diffusi. Il ruolo positivo del vaccino. "Quest'ultima ipotesi è la più seguita,
sia perché in chi soffre di Long Covid si registrano spesso livelli molto alti
di autoanticorpi, sia perché questa sindrome colpisce soprattutto le donne, più
soggette a malattie autoimmuni. Inoltre un recente studio condotto
dall'epidemiologo Michael Edelstein, dell'israeliana Bar-Ilan University,
segnala che la vaccinazione contro Sars-CoV-2 rende meno probabile il Long
Covid in chi si infetta, mentre ci sono segnalazioni di persone che lo hanno
superato dopo essersi vaccinate. Questo potrebbe voler dire che il vaccino
previene o ripara la disfunzione immunitaria alla base del Long Covid. Ma è
probabile che più cause si intreccino in ogni paziente, creando un insieme
variabile di sintomi, di gravità e di durata della sindrome". In effetti
una ricerca condotta da un gruppo di ricercatori diretti da Yapeng Su del
Cancer Research Center di Seattle ha scoperto quattro fattori predisponenti: il
diabete di tipo 2, la presenza di altri virus silenti, un eccesso di
autoanticorpi e un'alta carica di Sars-CoV-2 al momento dell'infezione, una
conferma che sono all'opera cause molto diverse. Successe anche a fine '800. "Questo
non è comunque il primo caso in cui una malattia virale provoca in tanti un
lungo strascico di sintomi. Per esempio successe con l'"influenza
russa", causata forse da un altro coronavirus, che colpì l'Europa nel
1889-95: anche in quel caso, oltre a un milione di morti, si ebbero migliaia di
"guariti" affetti da disturbi simili a quelli del Long Covid. E anche
altre strane e più recenti sindromi, come quella della "fatica
cronica", si sospetta derivino da precedenti infezioni virali. In questo,
almeno, il Long Covid sarà utile: attraverso il suo studio, si arriverà a
trovare non solo cause e cure di malattie che erano rimaste finora
"orfane" perché poco comuni, ma si arriverà anche a comprendere
meglio il nostro complicatissimo sistema immunitario" dice Codignola. Intanto,
però, occorrerà trovare terapie per il Long Covid stesso, compito arduo, vista
la sua variabilità. Ne sa qualcosa il pediatra Danilo Buonsenso, dell'Ospedale
Gemelli di Roma, fra gli autori di uno studio che ha indicato come il 3-4 per
cento dei 630 bambini lì ricoverati per Covid abbia poi sviluppato la sindrome.
"In generale stimiamo che il Long Covid si manifesti in circa l'1 per
cento dei bambini, ma è grave perché ostacola attività fisica, studio e
socializzazione nel periodo critico della crescita. Purtroppo ci sono ancora
medici che non lo riconoscono. Per questo molti genitori ci chiamano da tutta
Europa: noi li prendiamo sul serio, e già l'ascolto e la comprensione sono
l'inizio della cura. Procediamo poi con analisi sui pazienti, per escludere
altre patologie, e, con un approccio multidisciplinare, costruiamo percorsi di
cura personali per tenere i sintomi sotto controllo e far tornare i bambini a
una vita quasi normale, in attesa che la sindrome si risolva". Il futuro:
ambulatori diffusi. Il che, per fortuna, avviene spesso: solo il 6 per cento
circa dei bambini con Long Covid ha ancora sintomi dopo un anno.
"L'approccio multidisciplinare sarà la risposta migliore" conclude Codignola.
"Applicarlo a milioni di casi è una sfida per i sistemi sanitari, e
potrebbe anche portare a quella rivoluzione nelle cure mediche, da tutti
invocata, che mette al centro le esigenze del paziente, facendolo interagire
con più specialisti all'interno di ambulatori diffusi sul territorio, volti non
tanto a curare le malattie, quanto a prevenirle". (…).
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