"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 4 agosto 2021

Notiziedalbelpaese. 24 «Continuiamo a non capire che noi su questo pianeta siamo il sasso, non l’acquario».

Ha scritto Leonardo Caffo in “Dopo il Covid-19” – “nottetempo” editrice (2020) -: La società umana maggioritaria, avendo ignorato il. tema della fragilità sotto ogni suo aspetto, si trova ora a contrastare un virus: un confronto che potrebbe perdere se si agirà solo contro gli effetti (virus) e non contro le cause (le condizioni di possibilità del virus). Questo tipo di società potrà sopravvivere, magari trovando nel giro di qualche mese un vaccino a richiamo periodico o cambiando radicalmente le regole della socialità (per esempio con quarantene cicliche), oppure crollare definitivamente: l’ovvietà è che sopravvivere o crollare sono due movimenti molto simili, allo stato attuale delle cose. Se sopravvive adesso, crollerà alla prossima epidemia o crisi ecologica, se crolla subito potrà invece intavolare immediatamente un nuovo paradigma di costruzione della convivenza tra l’Homo Sapiens e il pianeta. Tratto da “Spenti gli incendi, non andrà tutto bene” di Michela Murgia, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del primo di agosto 2021: Nei giorni terribili degli incendi sardi, tra le cronache della devastazione paesaggistica e i tentativi di dare un senso al dolo dei piromani, ha trovato posto anche una polemica, apparentemente minima, scaturita da un’intervista di Concita De Gregorio al capo della protezione civile Curcio. Durante la trasmissione “In onda” la giornalista ha posto tra le altre una questione che a moltə è sembrata indelicata: «C’è un pericolo concreto per le persone che sono o si apprestano ad andare in villeggiatura in Sardegna?». Al di là dell’ovvietà del fatto che i turisti, esattamente come i sardi, non sono ignifughi, la domanda era giornalisticamente dovuta: se una famiglia lombarda ha risparmiato tutto l’anno per godere di dieci giorni di vacanza in Sardegna dopo quasi due anni di paralisi da pandemia, sapere se può andarci o meno è senza dubbio una notizia, per quanto possa sembrare cinico preoccuparsene proprio mentre sull’isola si contano migliaia di sfollatə dal fuoco e danni al paesaggio che richiederanno decenni per risanarsi. La riflessione da fare però va oltre l’apparente brutalità della domanda e include anche la risposta del capo della protezione civile Curcio, se possibile ancora più rivelatoria: «Migliaia di ettari di una terra bellissima sono bruciati, ma io non credo che quello che è successo debba assolutamente influire con il turismo». Il ragionamento che sta sotto questo scambio è tutto lì, in quella frasetta semplice che, se collocata in una prospettiva più ampia, si adatta a spiegare il nostro atteggiamento di specie davanti a tutto quello che di catastrofico è accaduto negli ultimi anni, dalle alluvioni al Covid-19, dal riscaldamento globale all’inquinamento da microplastiche: nessunə di noi vuole credere che quello che è successo debba assolutamente influire sulle nostre vite. La domanda posta da De Gregorio in fondo è di natura darwiniana, perché cercare la risposta è quel che per millenni ci ha permesso di evolvere come specie: in che modo possiamo continuare a vivere come abbiamo sempre vissuto e fare le cose che abbiamo sempre fatto, nonostante questi mutamenti radicali? Quanto dobbiamo cambiare e quanto invece possiamo non farlo, fregandocene del resto? Peccato che la risposta udita in trasmissione, dal punto di vista darwiniano, non fosse per niente evolutiva. Se infatti è vero che sopravvive solo la specie che meglio si adatta al cambiamento, suggerire che per gli esseri umani la risposta giusta sia non cambiare affatto è quanto di più suicida ci si possa proporre. Eppure ci stiamo credendo. Siamo davvero convintə che possiamo non cambiare nulla. Proprio mentre in Sardegna sparivano in fumo ettari di ulivi centenari, morivano migliaia di animali innocenti e interi paesi andavano a fuoco, a Napoli falliva l’ennesima conferenza internazionale sul clima, dove i ministri dell’energia e dell’ambiente dei Paesi più ricchi del mondo non sono riusciti a trovare un accordo sui due punti più importanti della tabella di marcia per invertire la distruzione dell’ecosistema. Molti Paesi si sono infatti rifiutati di firmare per la decarbonizzazione entro il 2025 e per il contenimento del riscaldamento globale sotto 1,5 gradi centigradi. Possiamo criticare la loro miopia e gli interessi economici che protegge, ma non è diversa da quella che davanti alle restrizioni da Covid-19 ci fa dire cose come “quando tutto tornerà come prima”, “appena la situazione sarà normale” etc. Come se la vita di prima fosse normale. Come se potessimo ignorare tutto il resto e pensare solo a risolvere il fastidio diretto che ognuna di queste catastrofi causa al nostro micromondo personale. I viaggi. Il lavoro. Il pranzo. Comprare gli oggetti senza chiederci da dove vengono e come sono stati prodotti. Mettere in bocca il cibo continuando a ignorare i processi con cui ci è arrivato sulla tavola. Progettare ogni comportamento senza curarci del suo impatto. Qualcunə si ostina a chiamare questa rigidità “resilienza”, abusando di un termine che in psicologia indica la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico. In quella prospettiva “andrà tutto bene” diventa un mantra per dire “andrà tutto come prima”. Ma in ecologia la resilienza è la velocità con cui una comunità vitale interconnessa ritrova un equilibro dopo una perturbazione, come un acquario che ha i suoi tempi per tornare limpido dopo che qualcunə ha fatto cadere un sasso sul suo fondo limaccioso. Il dramma è che continuiamo a non capire che noi su questo pianeta siamo il sasso, non l’acquario.

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