Ha scritto Leonardo Caffo in “Dopo il Covid-19” – “nottetempo”
editrice (2020) -: La società umana maggioritaria, avendo ignorato il. tema della
fragilità sotto ogni suo aspetto, si trova ora a contrastare un virus: un
confronto che potrebbe perdere se si agirà solo contro gli effetti (virus) e
non contro le cause (le condizioni di possibilità del virus). Questo tipo di
società potrà sopravvivere, magari trovando nel giro di qualche mese un vaccino
a richiamo periodico o cambiando radicalmente le regole della socialità (per
esempio con quarantene cicliche), oppure crollare definitivamente: l’ovvietà è
che sopravvivere o crollare sono due movimenti molto simili, allo stato attuale
delle cose. Se sopravvive adesso, crollerà alla prossima epidemia o crisi ecologica,
se crolla subito potrà invece intavolare immediatamente un nuovo paradigma di costruzione
della convivenza tra l’Homo Sapiens e il pianeta. Tratto da “Spenti gli incendi, non andrà tutto bene”
di Michela Murgia, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del primo di agosto
2021: Nei giorni terribili degli incendi sardi, tra le cronache della devastazione
paesaggistica e i tentativi di dare un senso al dolo dei piromani, ha trovato
posto anche una polemica, apparentemente minima, scaturita da un’intervista di
Concita De Gregorio al capo della protezione civile Curcio. Durante la
trasmissione “In onda” la giornalista ha posto tra le altre una questione che a
moltə è sembrata indelicata: «C’è un pericolo concreto per le persone che sono
o si apprestano ad andare in villeggiatura in Sardegna?». Al di là dell’ovvietà
del fatto che i turisti, esattamente come i sardi, non sono ignifughi, la
domanda era giornalisticamente dovuta: se una famiglia lombarda ha risparmiato
tutto l’anno per godere di dieci giorni di vacanza in Sardegna dopo quasi due
anni di paralisi da pandemia, sapere se può andarci o meno è senza dubbio una
notizia, per quanto possa sembrare cinico preoccuparsene proprio mentre
sull’isola si contano migliaia di sfollatə dal fuoco e danni al paesaggio che
richiederanno decenni per risanarsi. La riflessione da fare però va oltre
l’apparente brutalità della domanda e include anche la risposta del capo della
protezione civile Curcio, se possibile ancora più rivelatoria: «Migliaia di
ettari di una terra bellissima sono bruciati, ma io non credo che quello che è
successo debba assolutamente influire con il turismo». Il ragionamento che sta
sotto questo scambio è tutto lì, in quella frasetta semplice che, se collocata
in una prospettiva più ampia, si adatta a spiegare il nostro atteggiamento di
specie davanti a tutto quello che di catastrofico è accaduto negli ultimi anni,
dalle alluvioni al Covid-19, dal riscaldamento globale all’inquinamento da
microplastiche: nessunə di noi vuole credere che quello che è successo debba
assolutamente influire sulle nostre vite. La domanda posta da De Gregorio in
fondo è di natura darwiniana, perché cercare la risposta è quel che per
millenni ci ha permesso di evolvere come specie: in che modo possiamo
continuare a vivere come abbiamo sempre vissuto e fare le cose che abbiamo
sempre fatto, nonostante questi mutamenti radicali? Quanto dobbiamo cambiare e
quanto invece possiamo non farlo, fregandocene del resto? Peccato che la
risposta udita in trasmissione, dal punto di vista darwiniano, non fosse per
niente evolutiva. Se infatti è vero che sopravvive solo la specie che meglio si
adatta al cambiamento, suggerire che per gli esseri umani la risposta giusta
sia non cambiare affatto è quanto di più suicida ci si possa proporre. Eppure
ci stiamo credendo. Siamo davvero convintə che possiamo non cambiare nulla.
Proprio mentre in Sardegna sparivano in fumo ettari di ulivi centenari,
morivano migliaia di animali innocenti e interi paesi andavano a fuoco, a
Napoli falliva l’ennesima conferenza internazionale sul clima, dove i ministri
dell’energia e dell’ambiente dei Paesi più ricchi del mondo non sono riusciti a
trovare un accordo sui due punti più importanti della tabella di marcia per
invertire la distruzione dell’ecosistema. Molti Paesi si sono infatti rifiutati
di firmare per la decarbonizzazione entro il 2025 e per il contenimento del
riscaldamento globale sotto 1,5 gradi centigradi. Possiamo criticare la loro
miopia e gli interessi economici che protegge, ma non è diversa da quella che
davanti alle restrizioni da Covid-19 ci fa dire cose come “quando tutto tornerà
come prima”, “appena la situazione sarà normale” etc. Come se la vita di prima
fosse normale. Come se potessimo ignorare tutto il resto e pensare solo a
risolvere il fastidio diretto che ognuna di queste catastrofi causa al nostro
micromondo personale. I viaggi. Il lavoro. Il pranzo. Comprare gli oggetti
senza chiederci da dove vengono e come sono stati prodotti. Mettere in bocca il
cibo continuando a ignorare i processi con cui ci è arrivato sulla tavola.
Progettare ogni comportamento senza curarci del suo impatto. Qualcunə si ostina
a chiamare questa rigidità “resilienza”, abusando di un termine che in
psicologia indica la capacità di un individuo di affrontare e superare un
evento traumatico. In quella prospettiva “andrà tutto bene” diventa un mantra
per dire “andrà tutto come prima”. Ma in ecologia la resilienza è la velocità
con cui una comunità vitale interconnessa ritrova un equilibro dopo una
perturbazione, come un acquario che ha i suoi tempi per tornare limpido dopo
che qualcunə ha fatto cadere un sasso sul suo fondo limaccioso. Il dramma è che
continuiamo a non capire che noi su questo pianeta siamo il sasso, non
l’acquario.
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