Tratto da “La
guerra oscena dei soldi mischiati a valori e sangue” di Barbara Spinelli, pubblicato
su «il Fatto Quotidiano» del 20 di agosto 2021: (…). È la più importante, (…).
Sapere perché la guerra d’invasione sia stata inutile oltre che nefasta, e come
abbia potuto durare 20 anni, mietere tanti morti, non produrre alla fine altro
che caos: rispondere a tali domande è cruciale, altrimenti non proveremo che
smarrimento di fronte a un conflitto che finisce in modo così catastrofico: ben
più catastrofico di quanto avvenne dopo la guerra di 9 anni condotta dall’Urss.
(…). Nessun dirigente europeo ha mostrato di voler imparare dalla disfatta, e
infatti la parola sconfitta è assente. Fa eccezione Angela Merkel, che ha
ammesso errori ma non ha specificato quali, né quando e perché furono commessi:
dunque le sue parole restano vacue. In Europa ci si preoccupa giustamente degli
afghani traditi, che fuggiranno dal proprio paese. O del peso esercitato dai
talebani sul narcotraffico (Roberto Saviano). O delle donne che potrebbero
patire persecuzioni. Ma il vero dramma è occultato: la fine di un’Alleanza
Atlantica creata per fronteggiare l’Urss ma che nel dopo Guerra fredda non ha
saputo far altro che provocare o indirettamente favorire ulteriori guerre,
tutte fallimentari: in Afghanistan, Siria, Iraq, Somalia, Libia, Sahel. L’appoggio
sistematico agli integralisti più radicali: contro l’Urss in Afghanistan,
contro Assad in Siria. L’incapacità di costruire un sistema di sicurezza
internazionale che oltrepassi il multilateralismo – la forma gentile
dell’atlantismo – e diventi infine multipolare, composto di potenze non
omologabili alle idee di civiltà di volta in volta dominanti in occidente. I
difensori dei diritti delle donne conducono giuste battaglie ma non sempre in
buona fede. Non solo perché la politica dei talebani è ancora incerta, ma
perché i diritti sono stati in questo ventennio una conquista nelle grandi
città, non nei villaggi. Perché sono migliaia le donne e i bambini morti sotto
le bombe Usa. Perché l’Afghanistan, come del resto l’Iraq, non ha mai
sopportato le aggressioni, anche liberatrici, dei forestieri. E chissà, forse i
talebani, o una parte di essi, hanno imparato dalle ultime guerre più cose di
noi. Forse daranno vita a governi più inclusivi delle varie etnie, e a forme di
pacificazione con i Paesi limitrofi che scongiurino devastanti guerre civili. La confusione delle nostre menti è rafforzata da ventennali
menzogne. Ed è una confusione che persiste perché buona parte delle
sinistre e dei commentatori sono figli più o meno consapevoli del pensiero
neo-conservatore, del suo falso umanitarismo, delle teorie sullo scontro fatale
tra culture. Tessono le lodi di Gino Strada, ma in cuor loro sperano che alle
guerre infinite facciano seguito guerre civili altrettanto infinite, che diano
diritti alle donne bombardandole. Riflettere sull’esperienza passata vuol dire
fare il punto sulle origini di una guerra che apparentemente fu una risposta
all’attentato dell’11 settembre 2001. Fu la prima finzione, subito seguita
dalle menzogne sulle armi di distruzione di massa detenute da Saddam in Iraq.
Gli attentatori dell’11 settembre trovarono rifugio in Afghanistan ma erano
legati all’Arabia Saudita, alleata di Washington. Un’altra bugia riguarda il
denaro “speso in Afghanistan”: oltre 3000 miliardi di dollari. Non sono stati
spesi “in Afghanistan”. Hanno arricchito rappresentanti dei governi fantoccio,
e in primo luogo le industrie delle armi in Usa ed Europa. Andrew Cockburn
spiega bene come il complesso militare-industriale esca non perdente ma
vincente dal conflitto, avendo accumulato profitti enormi dalla vendita di armi
spesso inutilizzabili («The Spectator», agosto 2021). Il caso più spettacolare:
la vendita degli aerei da trasporto italiani G-222, comprati dagli Usa per
questa guerra (500 milioni di dollari). John Sopko, l’Ispettore Generale per la
Ricostruzione Afghana nominato nel 2012 dal Congresso Usa ha rivelato: “I G-222
erano aerei del tutto inadeguati, inadatti alle altitudini e al clima”. I loro
relitti giacciono oggi nei pressi dell’aeroporto di Kabul. La sentenza di
Sopko: “La ricostruzione afghana è un villaggio Potemkin”. Una finzione. Biden
ha mantenuto la promessa del ritiro, anche se la gestisce male, ma quel che
dice sulla colpa del governo e dell’esercito di Kabul è in minima parte
verosimile (“Le truppe americane non dovrebbero combattere e morire in una
guerra che le forze afghane non sono disposte a combattere per conto proprio”).
Se gli afghani non erano “disposti” è colpa di quattro amministrazioni Usa che
li hanno male attrezzati e infine abbandonati. Dopo aver fatto il guaio, i
belligeranti temono ora i suoi effetti inevitabili: l’arrivo dei profughi.
Macron chiede di “irrobustire” i confini contro i “flussi migratori
irregolari”, come se i profughi avessero il tempo di verificare la “regolarità”
della loro fuga. La speranza è di mantenere, come se nulla fosse, gli accordi
sui respingimenti negoziati fra Ue e Kabul nell’ottobre 2016 (Joint Way Forward
on migration issues). La parola d’ordine è dunque: guardare avanti, non
attardarsi in autocritiche. Non imparare dagli errori, ma commetterne di nuovi
preservando strutture fallimentari come la Nato, proteggendo le lobby militari
che mischiano oscenamente “valori” e guerre, tuonando contro la Cina che
minaccia Taiwan. Il vuoto di riflessioni non promette niente di buono. La
spedizione in Afghanistan finisce ma già gli apparati militari-industriali
d’occidente si preparano a future guerre, dirette o per procura.
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