Si parla molto anche di populismo, in questo periodo. E non solo per Trump. Lei che cosa ne pensa? «Populismo non è una parola che mi piace usare. Nel caso di Trump e anche dei cosiddetti populismi europei, preferisco usare il termine “nativismo’”, che indica bene quanto accade nella politica in Occidente: dare la colpa agli altri di tutti i tuoi problemi, in un quotidiano schierarsi - basti pensare agli immigranti - “noi contro loro”. Ora gli europei nativisti sull’immigrazione se la prendono con l’Unione europea, che è un modo troppo facile per scaricare i propri problemi sugli outsider, su chi arriva da fuori, una forma di ostracismo che ha qualche germe di fascismo. Che vuole minare il progetto europeo e l’idea stessa di Europa. E lo dico io che non sono certo tenero con la Ue e con l’euro».
Appunto. Ci può spiegare il senso della sua critica alla moneta unica? «La diversità dell’Europa è la sua forza, ma per l’euro funzionare in un continente che ha grandi diversità economiche e politiche non è facile. La moneta unica comporta un tasso di interesse fisso, il che significa che i diversi paesi non possono gestire la propria valuta in base alle proprie esigenze. Avete bisogno di una varietà di istituzioni che aiutino le nazioni per le quali alcune politiche non sono adatte. L’Europa ha introdotto l’euro senza fornire tali strutture. E ora quei popoli si rivoltano contro».
Tornando agli Stati Uniti, cosa pensa dell’evoluzione e dei cambiamenti in corso tra i democratici? «Oggi i democratici hanno imparato molto sulle lacune della nostra democrazia, hanno capito l’importanza dell’inclusione. E la “progressive left” credo sia maggioranza dell’elettorato».
Alle primarie hanno avuto successo i candidati (e soprattutto le candidate) che si definiscono “socialisti”... «La cosa più interessante è che il termine “socialista” non ha oggi assolutamente nulla a che vedere con l’eredità della Guerra fredda. Queste candidate sono quasi tutte giovani, ventenni, trentenni. La Guerra fredda è finita ormai da 30 anni, loro non hanno alcuna memoria di cosa è stata. Per loro “socialismo” significa qualcosa di totalmente differente dal marxismo, significa una società che lavora per la società stessa, per tutti. Vuol dire che la gente deve lavorare assieme per risolvere i problemi, contestano l’establishment del partito democratico perché ritengono che oggi occorrano radicali cambiamenti affinché la società funzioni in modo più egualitario, cercano nuovi modelli. Vogliono ripensare le relazioni sociali in America: questo è il “socialismo” di oggi. Comunque le prossime elezioni saranno decisive».
Lei sorride all’idea di Trump che difende gli interessi dell’America meno abbiente, di quella classe media che secondo la vulgata comune lo ha portato alla Casa Bianca. «La gente guarda solo l’immediato futuro, vede che la disoccupazione diminuisce, che Wall Street macina record, gli raccontano che sono state tagliate le tasse. A breve termine la riforma fiscale di Trump funziona, serve a stimolare l’economia, ma gli americani non vedono la big picture , quello che ci sarà dopo, nel giro di qualche anno. Quando la riforma fiscale sarà a regime il prodotto lordo degli Stati Uniti diminuirà, come pure i salari. Oggi stiamo vivendo quella che in economia è chiamata sugar high , ma riguarda i profitti delle imprese non i consumatori, i cittadini comuni. E il rischio di una nuova crisi è sempre dietro l’angolo».
Una prossima crisi? È possibile in tempi brevi? «Quello che so per certo è che non abbiamo risolto il problema che ha portato alla crisi di dieci anni fa. La domanda è: abbiamo fatto abbastanza per evitare un’altra crisi? La mia risposta è no. È difficile ipotizzare quando ci sarà un’altra crisi, quello che assolutamente si deve evitare è la mancanza di trasparenza, una delle cause principali della crisi del 2008. Su questo sono stati fatti solo leggeri passi avanti, che non sono sufficienti».
(…). Lei aveva previsto i danni della globalizzazione, con le nazioni ricche che hanno inglobato le economie emergenti senza rendersi conto di quanto questo avrebbero danneggiato la protezione sociale in Occidente. Oggi si dice molto preoccupato dalla diseguaglianza in America. Ha una ricetta? «Farei esattamente l’opposto di quanto fa Trump, perché quando noi impariamo ad essere più efficienti, nel produrre automobili o per avere un’energia migliore, tutto il mondo ne trae beneficio. Il problema di Trump è che lui vede il mondo come un posto da sfruttare, una economia a somma zero per un mondo a somma zero. Il mondo dell’innovazione e del commercio è invece a somma positiva. Quello che mi spaventa in questi suoi tentativi, in questa guerra delle tariffe che ha scatenato, è il fatto ripugnante che su acciaio e carbone lui alla fine farà del male proprio a quelli che in teoria vuole aiutare. Ferirà il suo elettorato e non aiuterà gli altri, tra l’altro sfidando le leggi internazionali e violando anche qualche legge degli Stati Uniti. Chi vorrà mai più fare un accordo con chi cambia o non rispetta le regole del gioco? L’America intera verrà considerata come non affidabile. Il 2008 ci ha dimostrato come non ci si poteva fidare delle grandi istituzioni finanziarie. La fiducia è la vera grande questione di oggi».
Come in politica, così in economia c’è però anche l’altra America. Quella che guarda al futuro, all’innovazione tecnologica... «L’Intelligenza Artificiale è il futuro del mondo, ma può anche essere pericolosa. È in grado di migliorare enormemente la vita, pensiamo alla medicina, alle auto che guideranno da sole, ma quello che dobbiamo sapere è che con l’intelligenza artificiale andiamo verso un mondo sempre più diviso. Che si perderanno molti posti di lavoro. E sarà molto importante che i giganti del digitale, che la controllano, siano adeguatamente regolati».
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