Tratto
da “Discutere è un'arte. Marziale”,
colloquio tra la giornalista Simonetta Fiori e lo scrittore – ed ex magistrato
– Gianrico Carofiglio pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del
28 di agosto 2020: (…). Processo ai talk show da parte d’un ex giudice che non li
disdegna? «In realtà non sono tutti eguali (…). Talvolta l’obiettivo dichiarato
è scatenare la zuffa con disprezzo totale della verità. In altri casi prevale
il tentativo di approfondire anche se l’esito non è sempre felice. Ma quel che
è interessante è il sentimento con cui in molti partecipano, che è poi lo
Zeitgeist contemporaneo, lo spirito del tempo: l’idea che la comunicazione
politica sia soprattutto manipolazione, contraffazione, imbroglio. Di fronte a questa grave stortura sono
possibili due strade. Uno potrebbe anche decidere: non ci vado e non vedo i
programmi. Ma è una soluzione? Io ho scelto di accettare questa ineluttabile
conflittualità e di scommettere sulle infinite possibilità dell’intelligenza».
Cita una frase attribuita a Bertrand Russell: il problema di questo mondo è che le persone intelligenti sono piene di dubbi e i cretini sono pieni di certezze. «Io confido in un cambiamento. E che il raziocinio prevalga sulla baruffa dissennata».
La neolingua denunciata (…) evoca espressivamente il
bagaglio retorico del populismo contemporaneo, che dalla semplificazione
aggressiva trae la sua ideologia e la sua forza. (…). Un armamentario oliato da
tempi televisivi sempre più veloci e frenetici. «Ma è per questo che bisogna
imparare a replicare in modo efficace, etico e pertinente. Nel mio catalogo
cerco di offrire suggerimenti non tanto in merito alle scelte – i contenuti
restano essenziali! – ma al metodo, al come fare. E a cosa non fare. Regole che
pratico ogni volta che vado in tv».
Fallacie. Così le chiamano gli studiosi della teoria
dell’argomentazione. Sono gli errori nella costruzione del discorso che – il
più delle volte deliberatamente – rendono inutile la conversazione. La
interrompono impedendole di progredire logicamente. «Una delle più insidiose è
quella dell’argomento-fantoccio che consiste nella scorretta rappresentazione
della tesi che si vuole contrastare. Tale tesi viene esagerata, a volte
ritratta in modo caricaturale e all’avversario vengono attribuite parole che
non ha pronunciato o concetti che non ha mai espresso».
Il risultato è che l’asse centrale della discussione
si sposta altrove e il manipolato finisce nell’angolo. «In questi casi bisogna
evitare la reazione più istintiva, che è quella difensiva. Mai giustificarsi
con un “ma io non ho mai sostenuto questo!”, perché nel momento in cui lo dici
hai già perso. Ciò che resta instillato nella memoria dei telespettatori non è
tutta la sequenza razionale ma solo frammenti di informazione».
Lei allora cosa suggerisce? «Si chiama “tecnica del
sandwich”: innanzitutto ripeti quello che hai veramente detto, poi mostri il
trucco a cui è ricorso l’avversario, alla fine ripeti la tua verità». (…).
È inevitabile domandare a Carofiglio se sia stata
un’esperienza televisiva sgradevole a indurlo a vergare il suo manuale di
autodifesa. «Ero in uno studio della Rai quando un volto molto noto si mise a
mostrare alle telecamere cartelloni irridenti mentre gli altri ospiti
prendevano la parola. Confesso che provai un’irritazione profonda, ma sarei
un’ipocrita se dicessi di essere stato colto alla sprovvista. Se stai andando a
fare a botte, non puoi sentirti a disagio se l’altro tira un pugno o fa cose
scorrette. Lo sai e ti regoli di conseguenza».
Con quale possibilità di successo? «Talvolta ha funzionato. Mi è capitato con
qualche giornalista più attrezzato che, sentendosi scoperto nelle sue tecniche
manipolatorie, ha provato a ragionare: alla fine s’era come ripristinato un
principio di verità».
La cura delle parole è un pilastro dell’etica
democratica. Da Goethe a Gramsci, da don Milani a Bob Dylan, da Wittgenstein a
De Mauro, sono innumerevoli i poeti, i filosofi, gli intellettuali militanti
che hanno cercato di restituire senso alle parole. Negli anni Ottanta del
secolo scorso, fu Italo Calvino a denunziare una nuova pestilenza della lingua,
un’epidemia di grigiore e opacità che nel decennio successivo si sarebbe
degradata in una patologia ancora più allarmante, quella che Carofiglio in
un’opera precedente definisce «la conversione del linguaggio all’ideologia
dominante».
Non a caso La manomissione delle parole – questo il
titolo del suo saggio del 2010 – usciva sul finire dell’evo berlusconiano,
segnato dall’impossessamento e dalla contraffazione di alcuni vocaboli del
lessico politico come “democrazia”, “libertà”, “popolo”, “giustizia”. Le parole
apparivano come scippate del loro significato, perché «consumate, estenuate,
svuotate da un uso eccessivo e irresponsabile». «Nella storia d’Italia (…) Berlusconi
ha rappresentato l’evento atipico e catastrofico in accezione classica, che ha
accelerato il processo regressivo del lessico politico». Un’involuzione che non
ha trovato un argine culturale a sinistra, nella gauche politica, spesso
all’inseguimento retorico dell’avversario. «Abbiamo assistito alla resa totale
rispetto all’uso di certe parole. Prendiamo la locuzione: “mettere le mani
nelle tasche degli italiani”, slogan della destra populista. Quante volte oggi
la sentiamo ripetere nell’area progressista?».
Sul terreno dei luoghi comuni, si sa, vincono i
semplificatori. «Ho tentato di dirlo a qualche cattivo retore del mio stesso
schieramento, ma è stato inutile».
Sullo sfondo di questo ormai trentennale impoverimento
linguistico resta l’enorme problema dell’analfabetismo di ritorno degli
italiani, una ferita democratica denunciata da pochi studiosi come De Mauro
rimasti inascoltati: meno del trenta per cento della popolazione è capace di
capire oltre al senso compiuto della proposizione principale anche quello delle
sue subordinate. «Questa è una parte del problema. Ed è il motivo per il quale
scrivo manuali di autodifesa: l’idea è proprio quella di dare strumenti critici
a una platea sempre più vasta».
Carofiglio è polemico nei confronti di un ceto
pensante che reagisce al decadimento dell’evo contemporaneo sollevando il ponte
levatoio. «Noi in Italia abbiamo una classe intellettuale incline a parlarsi
addosso, con una lingua che capiscono in pochi. Ma questo è un modo per
sottrarsi a una funzione civile essenziale, che è la trasmissione dei saperi
alla comunità».
Come realizzare questa trasmissione è la grande
scommessa di oggi: la tv non sempre accoglie ragionamenti complessi. E quella
digitale è una strada ancora da costruire. «L’errore è di pensare di parlare
alla platea televisiva come da una cattedra universitaria» dice lo scrittore. «L’oscurità
non è un destino ineludibile».
Colpisce che nel suo breviario Carofiglio recuperi la
qualità della “gentilezza”, categoria altamente politica che non è resa
all’avversario ma al contrario disponibilità al conflitto con l’intento di
neutralizzare la forza distruttiva dell’altro. E non importa che questa forma
di garbo civile, mutuata dalle arti marziali orientali, sia distinta dalla
mitezza “impolitica” di Norberto Bobbio, a cui invece dieci anni fa Marco
Revelli diede un significato profondamente attivo e militante. Al di là delle
sfumature semantiche, “gentilezza” e “mitezza” sono entrambe un potente
antidoto all’arroganza e alla sopraffazione del potere. Non è singolare che un
Paese da decenni invochi la mitezza senza trovarla? «Non è una specificità
italiana (…), ma certo segnala la persistenza di una ferita nel discorso
pubblico. E va messa in relazione con la crescita delle diseguaglianze e quindi
dell’infelicità delle persone. Il populismo cavalca il rancore e la rabbia
alzando i toni. E a noi non resta che scommettere sulla gentilezza, che implica
anche una buona dose di humour».
Se non vuoi essere deriso, diceva Benjamin Franklin,
sii il primo a ridere di te stesso. Vale per i talk show ma anche per la vita
quotidiana. È l’ultima regola dell’inventario. Ora siamo pronti per salire sul
ring.
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