Tratto dalla introduzione al volume “La politica non serve a niente” –
pagg. 210, euro 17, Rizzoli editore (2015) con sottotitolo “Perché non sarà il palazzo a salvarci” - di Stefano Feltri,
riportato su “il Fatto Quotidiano” del 3 di settembre dell’anno 2015: Dalla
grande recessione che ha travolto l’Italia e l’Europa nel 2009, tutti abbiamo
potuto misurare nella vita quotidiana la portata delle sfide che le nostre
società devono affrontare. Risalire la china in cui è sprofondata la nostra
economia. Accogliere migliaia di profughi che arrivano da Paesi vicini. Dalla
caduta del muro di Berlino a oggi mai si era avvertito tanto un bisogno di
politica, di leadership, nazionale e globale. Di idee, di visioni, di scelte,
di qualcuno che si prenda la responsabilità di decidere. Invece ci troviamo di
fronte sempre più spesso al vuoto. Di contenuti, di decisioni, di potere. Gli
slogan della politica nazionale si accumulano nei titoli dei giornali, fanno
discutere in qualche talk show e poi svaniscono, privi di conseguenze. In
Italia parliamo sempre delle stesse cose: la burocrazia che strozza la
crescita, l’assenza di meritocrazia, i costi della casta, è tutta colpa
dell’euro, le siringhe che al Sud costano dieci volte più che al Nord. Tutto
qua. E chiediamo a qualcuno – ai politici – di fare qualcosa. E loro non lo
fanno. Magari non ci provano, magari hanno altre meno nobili priorità, ma anche
quando ci provano non ci riescono. Sono quindi arrivato, per citare Altan, ad
avere pensieri che non condivido: la politica non serve a niente. O meglio, non
serve più a niente. Il politologo britannico Matthew Flinders sostiene che noi
detestiamo la politica perché ci siamo dimenticati che ha una natura “specifica
e limitata”, cioè che non può fare tutto. Vediamo tutti i giorni che le
decisioni dei nostri governi non sono più in grado di incidere sulle scelte di
fondo della nostra vita, eppure è sempre a loro che continuiamo a rivolgerci in
cerca di aiuto. Noi elettori chiediamo sempre di più ai nostri politici che si
sentono incentivati a promettere risultati mirabolanti, riforme radicali,
prosperità per tutti. Ci sono due sole soluzioni per ristabilire un rapporto
sostenibile tra cittadini e governi: o aumentare l’offerta, o ridurre la
domanda. I politici devono imparare a promettere meno, possibilmente soltanto
quello che possono realizzare, e i cittadini devono ridimensionare le loro
aspettative. Ma il mondo sembra andare in un’altra direzione, perché le domande
del pubblico sono insaziabili, i problemi della società sempre più complessi,
le risorse disponibili sono insufficienti e migliorare un po’ l’efficienza del
settore pubblico non basterà mai a sistemare tutto. Se la politica non serve a
niente, dobbiamo tutti rassegnarci al declino? È il caso di iniziare a
ragionare anche sull’ipotesi che la risposta a questa domanda sia
semplicemente: “Sì”. Ma all’orizzonte si vede una forza in grado di compensare
lo svaporamento di autorità dei governi: la tecnologia, portatrice di un
cambiamento epocale che sta sconvolgendo gli equilibri e spostando il potere
dai governi alle imprese. E alle persone. È la prima volta che i grandi
cambiamenti della società sfuggono così completamente alle scelte della
politica. Il processo decisionale è troppo lento per inseguire e indirizzare i
cambiamenti dell’innovazione, lo spazio in cui si crea il valore aggiunto
troppo impalpabile, i protagonisti del cambiamento troppo potenti e globali per
essere affrontati da piccoli Stati nazione. Ma il fatto che la politica sia
diventata inutile non è detto che sia una cattiva notizia.
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