"In tutta franchezza, questo referendum
dal quale sembra dipendano le sorti del Governo, del Paese e forse del mondo
intero non è altro che la definitiva affermazione di un semplice principio: la
politica si occupa dell'inessenziale, poiché ha necessità di eludere la
complessità. Un tempo imbelle viviamo, popolato da questi 'supervivientes
profesionales' il cui unico obiettivo è esserci sempre, comunque e a ogni
costo. Che dire? 'Ma andate a cagare, voi e le vostre bugie". Non c’è
che dire sulla “finezza” del linguaggio e delle argomentazioni. E come il
Metastasio soleva dire “vóce del sén fuggita Pòi richiamàr non vale”.
Mi vien da dire che cotanto “senno” tradisce una approssimazione linguistica se
non concettuale. È come aver scoperto e mostrato al pubblico ludibrio l’”acqua
calda”, sol che avesse letto e riflettuto su quanto il 23 di agosto Gustavo
Zagrebelsky sul quotidiano “la Repubblica” ha scritto a proposito dell’imminente
referendum: “Alla fine si deciderà per ragioni che hanno poco a che fare con quelle
propriamente costituzionali: fare un favore a questo o un dispetto a quello;
rafforzare un partito rispetto ad altri; consolidare la maggioranza o
indebolirla; mettere in difficoltà una dirigenza di partito per indurla a
cambiare rotta e, magari, a cambiare governo o formula di governo”. Necessitava
il ricorso alla rozzezza di quel parlare? Ha scritto Tommaso Rodano in “Sua Castità difesa dagl’intrepidi zuavi di Papa Saviano” pubblicato
su “il Fatto Quotidiano” del 17 di settembre ultimo: “Questa mattina le truppe
italiane poste sotto il comando del generale Cadorna aprirono alle ore 5,30 il
fuoco contro le mura di Roma fra porta Pia e porta Salaria. Alle 10
antimeridiane le nostre truppe, dopo viva ma breve resistenza, entrarono nella
città”. Gazzetta ufficiale del Regno, 20 settembre 1870. È la breccia di Porta
Pia, l’ultimo miglio del Risorgimento e dell’unità nazionale: l’Italia è fatta,
il Papa si arrende alla fine dello Stato pontificio. Esattamente 150 anni più
tardi, c’è un’altra breccia che si prepara nel cammino dello Stato italiano. Le
dimensioni, ce ne rendiamo conto, sono infinitamente più modeste. Si tratta
stavolta di aprire un varco a Montecitorio e Palazzo Madama, i fortilizi della
“Casta” (sia letto con massima ironia). Ovvero di tagliare il numero degli
eletti nelle due Camere di 345 unità. Altre e più cruente battaglie si sono
combattute sull’integrità del Parlamento, eppure attorno a quest’ultima si
combatte una vera guerra di religione (per lo più, va detto, sui giornali). I
toni sono mistici, epocali: la sopravvivenza della democrazia italiana è legata
a un “No”, come il destino dello Stato pontificio all’improbabile tenuta
dell’esercito papale. L’ultimo numero della Civiltà cattolica racconta con
ampia dovizia documentale le ultime disperate resistenze di Pio IX a pochi
giorni dalla resa. Il pontefice, “fermo nello adempimento dei suoi sacri doveri
e confidando pienamente nella divina Provvidenza, respinse recisamente ogni
proposta” di accordo, convinto com’era che oltre alla volontà divina fosse
sostenuto da “20 milioni” di italiani sui 24 di allora. Giochiamo un po’. Oggi
il ruolo solenne di Pio IX può calzare all’aura un po’ sacrale e un po’ tragica
di Roberto Saviano, il più arcigno intellettuale che si è speso contro il
taglio dei parlamentari. Lo immaginiamo, in senso figurato, in abito bianco,
mentre dispensa pepite di verità rivelata contro gli “opportunisti” del Sì al
referendum. In questa strana battaglia l’esercito degli zuavi pontifici ha una
composizione bizzarra, c’è dentro un po’ di tutto. Il vecchio Carlo De
Benedetti, simbolo dell’establishment e del giornalismo italiano, che si è
consegnato tutto intero alla difesa dello status quo, potrebbe prendere la
divisa e le medaglie del generale Hermann Kanzler, Capo di Stato Maggiore delle
truppe papali. Sotto di lui, i direttori di Stampubblica Maurizio Molinari e
Massimo Giannini. Decisamente più in basso, un milite ignoto come la sardina
Mattia Santori. E poi soldati eccentrici come Vittorio Sgarbi e zuavi usurati
da mille battaglie in difesa della reputazione o della personale sopravvivenza
politica: Paolo Cirino Pomicino, Pier Ferdinando Casini, Ciriaco De Mita,
Clemente Mastella. C’è Carlo Calenda con Matteo Orfini, Emma Bonino con
Giancarlo Giorgetti. C’è il vate Sabino Cassese. Non poteva mancare tra i
“pontifici” una figura Celeste: Roberto Formigoni. E come uno spirito al di
sopra di questa truppa scombiccherata, il fantasma dell’uomo che in fondo ha
generato l’antipolitica, Bettino Craxi.Non meno improbabile a ben vedere è
l’esercito del Sì. La breccia del 1871 fu fatta da un gruppone misto di
garibaldini, mazziniani, democratici, liberali. Destra e sinistra. Fedeli al re
e tifosi della Repubblica. Oggi, similmente, “un’accozzaglia” (citazione
renziana d’antan) con Di Maio, Salvini, Zingaretti e altre schegge sparse. Se
c’è un generale Cadorna è Beppe Grillo: la breccia della Casta se l’è inventata
lui. Abbiamo l’impressione che il nuovo 20 settembre – proprio come quello di
150 anni fa – sarà una battaglia all’acqua di rose: Pio IX era pronto alla resa
“appena aperta la breccia”, oggi tra i sostenitori dell’integrità del
Parlamento c’è un’atmosfera grama. Come ha ricordato Paolo Mieli sul Corriere,
al successivo plebiscito sull’annessione di Roma allo Stato Italiano, il No
prese lo 0,1%.
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