Ha scritto Curzio Maltese in “Lezioni di italiano” pubblicato sul settimanale “il Venerdì di
Repubblica” del 18 di settembre ultimo: Il nostro Paese è pieno di gente orgogliosa
e civile, onesta e intelligente. È uno strano Paese, dove il conformismo ha
dominato per secoli, schiacciando ogni forma di critica, eppure non esiste
città o borgo dove non si contino migliaia di martiri della libertà, persone
che hanno combattuto per le più nobili cause, per quanto spesso disperate. In
un luogo dove essere orgogliosi e civili, onesti e intelligenti costa il prezzo
di un’enorme solitudine. È un’Italia che non viene mai raccontata in
televisione, poco sui giornali, raramente al cinema, ma è quella che ha fatto
la storia e la grandezza di questo Paese. È una patria paradossale, la nostra,
chi l’ha amata non ha potuto allo stesso tempo non detestarla. La grande
letteratura è in gran parte anti italiana: Dante e Petrarca, Machiavelli e
Guicciardini, Belli e Porta, Leopardi e Manzoni, Pisacane e Collodi, Svevo,
Gadda, fino a Calvino, Landolfi, Pasolini, una sfida secolare all’opportunismo
dell’intellettuale di corte. Hanno pagato quasi tutti con il carcere o
l’esilio, l’isolamento, la morte civile e qualche volta fisica. Questo
bisognerebbe insegnare nelle ore di italiano, invece di annoiare gli studenti
con cammei di poeti con la testa cinta di lauro. Prima che la scuola diventi
definitivamente il luogo dove si insegna a non leggere, a non scrivere e a non
pensare, che qualcuno si occupi di fare una solida riforma scolastica, magari
guardando i Paesi più efficienti in questo campo come quelli del Nord Europa.
L’amore per la parola scritta è molto precoce, basta osservare lo scaffale di
un bambino di tre anni che non sa nemmeno leggere. E allora che succede durante
il viaggio scolastico? Arrivato alle superiori, il ragazzo ha imparato a
detestare la letteratura e la tortura del tema ed è diventato un perfetto
ipocrita che cura soltanto le pubbliche relazioni con il corpo docente oppure
un rompicoglioni ribelle. All’università è ridotto a fare il portaborse del
barone e scrive in un metalinguaggio accademico lontanissimo dalla semplice
bellezza delle parole amate nell’infanzia. Per fortuna alcuni sopravvivono a
tutto questo e diventano dei grandi professionisti malgrado la nostra scuola.
Per elevare un Paese però occorre occuparsi di tutti gli altri e solo una
profonda riforma scolastica potrà sostenere i nostri ragazzi in modo da ridare
all’Italia il grande peso che merita inEuropa e nel mondo. Tratto
da “Virus e ripartenza, la battaglia
comune” di Michele Serra, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi
27 di settembre: (…). …la formazione degli italiani futuri è il classico investimento a
lungo termine, e la tragedia della politica dei nostri tempi, devastata dal
marketing elettorale, è avere lo sguardo corto e il respiro mozzo, come se
tutto quanto si fa, e non si fa, fosse da mettere a bilancio domattina. Non
oltre. Sta di fatto che questa domanda di scuola, nei lunghi mesi in cui gli
italiani si sono barricati in casa assediati dal Covid, si è fatta ancora più
forte. Per evidenti ragioni (anche di promiscuità forzata) la mancanza di quel
luogo "altro" rispetto alla famiglia e alle stanze di casa, e comune
a tutti i bambini e i ragazzi, è apparsa, di tutte le decurtazioni, la più
inaccettabile. Quella che, più di ogni altra, sembrava occludere la visione del
futuro. La didattica a distanza ha avuto una preziosa funzione d'emergenza ma
ha se possibile ingigantito lo sgomento per la chiusura delle aule, delle
palestre, dei cortili nei quali ognuno di noi è cresciuto e si è formato in
compagnia dei suoi coetanei. Molto è stato scritto su quella vera e propria
"seconda vita" che attecchisce nelle classi di scuola, nel rapporto
con i docenti e in quello, insostituibile, con i compagni. Proprio in quelle
settimane è nato "in Rete", su iniziativa di genitori e insegnanti in
febbrile discussione, il Comitato per la Priorità alla Scuola, libera
associazione via via ramificata in più di trenta città italiane, che a Roma ha
convocato una ambiziosa (relativamente alle ristrettezze sanitarie)
manifestazione nazionale per chiedere quanto dice, in modo diretto, la sigla
organizzatrice: priorità alla scuola, ovvero, ben oltre la faticosa ripresa
post-Covid, investimenti economici, politici, didattici che diano un corpo
"fisico", riconoscibile, concreto, alla nebulosa di generica simpatia
e affettuose promesse che la scuola pubblica italiana attende di verificare
anno dopo anno. Hanno aderito quasi cento associazioni (culturali, pedagogiche,
ambientaliste, antirazziste, femministe, di immigrati, di insegnanti, di
studenti, altre), a conferma di quanto importi, la scuola, a chiunque si occupi
di società, di diritti, di cultura. C'era poi, al completo, il quasi
incredibile stuolo di sigle sindacali degli insegnanti, forse per la prima volta
radunate nella stessa piazza. Era rappresentata la scuola nel suo insieme:
professori, maestri, personale scolastico, studenti, genitori. Poche ore prima
il presidente del Consiglio Conte aveva detto che "l'Italia riparte se
riparte la scuola", che non è un'ovvietà a patto che a un'enunciazione
così netta faccia poi seguito un lavoro politico commisurato all'ampiezza
dell'impresa: riparare le strutture e costruirne di nuove, adeguare gli
stipendi (bassi) dei docenti e migliorarne la formazione, aprire un mondo
ancora fondamentalmente analogico alla rivoluzione digitale, credere davvero
che ogni quattrino speso per l'educazione dei nuovi cittadini (per la loro
"elevazione sociale", avrebbe detto don Milani) sia bene investito.
Approfittando, ovviamente, della cornucopia dei fondi europei di emergenza, sui
quali comunque molti bisogni incombono. Importa aggiungere, per capire quanto
nevralgica sia la posta in palio, che la scuola è la sola esperienza sociale
ancora comune a tutti. Sepolta la leva militare e ancora molto esile l'idea
(magnifica) di un servizio civile di leva, la scuola dello Stato è il luogo,
fisico, emotivo, "politico", nel quale tutti devono passare e tutti
passano. Le differenze di strutture, di corpo docente, di indirizzo sono palesi,
ma non tali da vanificare il residuo, potentissimo significato nazionale e
pubblico della scuola di Stato. Potenziarla significa, né più né meno,
rafforzare la Repubblica come casa di tutti. Indebolirla vuol dire consegnare
al mercato anche l'istruzione, anche l'educazione di massa, come avviene negli
Stati Uniti dove a censo superiore corrisponde istruzione migliore. La scuola pubblica italiana è forse l'ultimo vero presidio
dell'uguaglianza, e anche per questo la piazza romana di ieri, 26 settembre
2020, merita ascolto, e risposte.
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