Andrea Camilleri avrebbe compiuto oggi, 6 di settembre, 95
anni. Il 14 di marzo dell’anno della “pandemia” è stata riportata sul
settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” una intervista “inedita” -
“La filosofia salverà il nostro mondo” –
ad Andrea Camilleri a firma di Francesco De Filippo –
scrittore, giornalista – e di Maria Frega – scrittrice e sociologa –. Il testo riportato
dal settimanale è stato estratto dal volume dei due Autori “Filosofia per i prossimi umani” - Giunti Editore, pagg. 264, euro
18 –: Maestro, il mondo sta cambiando radicalmente e a una velocità
inaspettata. Come si immagina la vita sulla Terra tra quindici, venti anni?
«Marx, Engels e un altro autore, forse Ferdinand Lassalle, pubblicarono un
libro per spiegare come la civiltà greca abbia conosciuto un grandissimo balzo
in avanti non solo nell’espressione artistica ma anche nel pensiero filosofico
grazie al fatto che i cittadini di quelle società avevano una grande cultura e
non erano costretti a lavorare, ad affrontare la fatica del lavoro materiale.
Per questo, gli uomini di cultura dell’epoca potevano dedicarsi a qualcosa di
assai semplice: a riflettere, a ragionare sulle cose. Avevano il tempo di
cadere in contraddizione e di risolvere le contraddizioni stesse».
Pensa che qualcosa del genere stia avvenendo anche oggi? «Dunque, alcuni giorni fa mi è capitato di sentire un intervento alla radio di un grande chirurgo torinese il quale annunciava che nel futuro prossimo i chirurghi non entreranno più in una sala operatoria ma si limiteranno a stare in una stanzetta accanto a comandare un robot in camice bianco che opererà con maggiore sicurezza e maggiore precisione del miglior chirurgo al mondo».
La presenza dell’uomo sarà comunque indispensabile?
«Certo, la presenza dell’uomo è indispensabile perché da solo il robot non
saprebbe fare un tubo. È il chirurgo che gli suggerisce quello che deve fare,
ma ciò che farà il robot dopo il suggerimento è superiore a quello che può fare
l’uomo».
Eravamo partiti dal mondo come lei lo immagina da qui
a venti anni... «Infatti. Secondo me ci troviamo in presenza di un evento
analogo a quella che fu la rivoluzione industriale inglese. Mi sembra proprio
un momento storico analogo, però stavolta con orizzonti più vasti e più
complessi».
Questo comporterebbe delle ripercussioni sociali
ancora più devastanti di quelle che causò la rivoluzione industriale inglese.
«In un primo periodo rappresenterà un problema sociale gravissimo, perché già
da ora si avvertono i primi segnali. Nelle industrie, nelle fabbriche, dove
vengono impiegate le macchine robotizzate, la macchina fa per dieci. Nove se ne
vanno a spasso e uno resta a controllare la macchina. Quindi bisogna riorganizzare
la società per tempo».
Anche perché speriamo tutti che non ci sia la
schiavitù come nell’antica Grecia. «Certo, credo sarà una vicenda diversa.
Tuttavia, devo riconoscere che questa prospettiva del futuro non mi spaventa.
Perché ritengo che domani uno Stato, lo dico ipotizzando, che abbia saputo
prepararsi a un evento come quello di cui stiamo parlando, potrebbe non avere
ripercussioni sociali così violente. Faccio un esempio: se uno Stato prevedesse
di installare venticinque robot nelle proprie industrie, immaginerà anche che
questo causerà la perdita del lavoro per — diciamo — 15mila occupati. Bene, il
robot non percepisce uno stipendio, ovviamente, dunque si può stabilire che i
15mila disoccupati se ne vadano a spasso ma vengano pagati lo stesso, come
quando lavoravano; una cifra equivalente. Qualcosa però dovranno fare per il
bene di tutti: queste persone avranno un compito di pensiero. Dal più semplice
al più complesso: da come si potranno piantare meglio i chiodi fino a
sviluppare nuove tecnologie per far viaggiare le astronavi più velocemente e
lontano».
Praticamente si ripeterebbe il miracolo dell’antica
Grecia. «Esattamente. Quello è il modello».
Viviamo, al contrario, in una società in cui si ha
l’impressione che le forze produttive abbiano fatto e continuino a fare di
tutto perché la gente sia quanto più omologata possibile e non abbia tempo,
appunto, di pensare, di riflettere. Secondo lei questa facoltà potrebbe invece
trovare nuovo spazio nella società futura che immagina? «Diventa inevitabile.
Non verrà imposta, diventerà inevitabile. Oggi le persone sono costrette a
pensare soltanto il sabato pomeriggio a ciò che faranno la domenica, non hai
spazio, tempo per riflettere. Come diceva Leonardo Sciascia: “Riflettere prima
di pensare”. Nonostante questo, qualcuno riesce a fare una riflessione, a
partorire una idea... ma deve proprio avere un grande desiderio di farlo, e non
essere troppo distrutto dal lavoro. La macchina ha anche un altro punto
positivo, oltre a quello di lavorare al nostro posto e meglio di quanto non
siamo in grado di fare noi umani: non c’è pericolo di sfruttamento, proprio
perché è una macchina. Dunque non ci si fa scrupoli a utilizzarla sempre, la si
sfrutta fin quando non si rompe l’ultimo bullone... anche perché quella macchina
sarà costata un’ira di Dio. Una volta ammortizzata, però, è tutto guadagno».
Con lo sviluppo delle neuroscienze oggi, si
schiuderanno domani nuovi scenari personali e collettivi. Un esempio per tutti:
è già praticamente possibile osservare come si forma il pensiero e in futuro
gli sviluppi di queste ricerche saranno ancora più approfonditi; sarà dunque
necessario riflettere, con più estesa cognizione di causa, sull’eventuale
esistenza del libero arbitrio, sulla presunta differenza tra mente e cervello, tra
cervello e coscienza. Concetti che nei secoli sono stati avvolti da misticismo,
religiosità e hanno affascinato i filosofi, i letterati. Il fatto di riuscire a
capire tutto o quasi dell’uomo, a decifrarne i meccanismi come se fosse una
macchina, ritiene che ci renderà o ci percepiremo, appunto, più simili proprio
a una macchina? «Io questo concetto lo contesto. Sono persuaso - però non ho le
cosiddette “pezze d’appoggio”, non saprei come dimostrarlo - che l’uomo,
nell’800 soprattutto, con l’avvento del Positivismo, abbia volontariamente
rifiutato una certa cultura orientale; abbia “chiuso” alcuni “sportelli” del
cervello, impedendo che entrasse, appunto, una certa forma di cultura
orientale. Non escludo, però, che una volta lasciato libero dal pensiero immediato
della produzione, il cervello umano riapra quelle porte chiuse a una certa
forma di conoscenza. Credo che ne guadagneremmo tutti dalle filosofie e dalle
pratiche orientali».
Secondo lei, domani ci sarà ancora bisogno di
filosofia? «Certo, certo che ci sarà ancora bisogno. Altrimenti cadi o nella
depressione o nella paura perché sei circondato da fenomeni inspiegabili. Se
invece la filosofia, la cultura sono in grado di spiegarteli, tu naturalmente
ti adegui piuttosto che richiuderti, sfuggire o tremare di paura. Io non credo
che l’avvento di una società diciamo così meccanizzata, digitalizzata, sia come
alcuni predicano, una sorta di disastro. Bisogna vedere come viene impiegata.
Perché, siccome l’uomo è volto al male, inevitabilmente, sono sicuro che fra
cento anni avremo un esercito spaventoso formato da robot, che per definizione
non hanno alcuna pietà, non hanno nemmeno paura di morire».
Abbiamo l’impressione che quei sistemi di trasmissione
del sapere che c’erano all’epoca siano stati progressivamente chiusi. Forse per
ragioni diverse, ma di filosofia non si parla mai in Tv ad esempio, tantomeno
sui social. Oggi, domani, queste discipline attraverso quali canali, quali
strade potrebbero permeare la società? «Questa domanda è difficile, non saprei
bene cosa rispondere. Però, se penso al messaggio politico, che diventa sempre
più semplice, banale, più simile a uno slogan che non a un pensiero politico,
mi viene in mente il fatto che proprio il messaggio politico rispecchia la
cultura di un Paese. Se in quel Paese c’è un certo livello di cultura, credo
che il messaggio politico si adegui. Oggi nel discorso politico non c’è
dialettica, al posto di questo si ricorre all’insulto, che non è un’arma
dialettica. In una società in cui tu sei totalmente libero di pensare e ne hai
il tempo, credo che il messaggio politico non possa essere lo stesso di quello
dei nostri giorni».
Pensa che lo sviluppo ulteriore delle grandi
techno-corporation come Facebook, Google - che ormai controllano o comunque
sanno tutto della nostra vita - e dunque un loro strapotere, come tutti si
attendono, possa rivelarsi positivo in futuro? «No. No. Io non temo le
invenzioni, la tecnologia e l’avanzare della scienza, perché è sempre un punto
di partenza, un dato positivo. La scienza inventa l’aereo, che è una
meraviglia, però inventa anche l’aereo bombardiere, contestualmente. Si è
inventato Internet, c’è cosa più bella della comunicazione? Eppure guarda cosa
sono riusciti a fare della rete: una fogna, o poco meno. Dunque il problema è la
gestione dell’invenzione».
Lei crede in una crescita della civiltà umana? «Certo.
Non è possibile che si sia fermato l’avanzamento della civiltà. Lo dimostra lo
stesso progresso scientifico. Allora, forse c’è troppo progresso scientifico
rispetto alla base sulla quale questo progresso dovrebbe fondarsi. Cioè base di
cultura, di filosofia ad esempio. Io credo che la famosa divisione tra le due
culture, tecnologia e filosofia, via via che procediamo avrà sempre meno
senso».
Però è diventata talmente forte la specializzazione...
la conoscenza dovrebbe essere vastissima e, qualora ci fossero le capacità, non
ci sarebbe comunque tempo per imparare tutto. «Credo che arriveremo a una
riunificazione. Ci arriveremo per necessità. Nel momento in cui aboliremo la scrittura
e comunicheremo chissà come, bisognerà che chi vuole comunicare — poeta,
filosofo, quel che è — impari una nuova tecnologia, e questo farà sì che il
filosofo a un certo punto si accorgerà di un dato tecnologico che non funziona.
E lo migliorerà e da quel momento la divisione, finta, tra tecnologi e
scienziati finirà».
Nessun commento:
Posta un commento