"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 14 settembre 2020

Capitalismoedemocrazia. 65 «Il moto perpetuo del capitale finanziario erode tutte le istituzioni».

Ha scritto Michele Serra in “La vera discriminazione” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di ieri domenica 13 di settembre: (…). Già, gli ultimi sono gli ultimi, e il cataclisma umano di Lesbo aiuta a rimettere un poco di ordine nella graduatoria della sofferenza e della discriminazione. Tra chi ha casa e chi no, chi ha cittadinanza e chi no, chi possiede cibo e vestiti e chi no, chi è libero di stare e di andare dove vuole e chi no, per dirla brutalmente tra i ricchi e i poveri del mondo, è lì che la disuguaglianza ha la forma e la forza di un'ascia che spacca in due l'umanità. I profughi sono femmine e maschi, vecchi e giovani, bambine e bambini, ma sono prima di tutto profughi: li unisce la sventura di non avere più niente, spesso neppure una meta verso la quale dirigersi. Noi possiamo concederci il lusso di azzuffarci più o meno su tutto il resto, ma con la pancia piena e il letto fatto. Meglio per noi, non si vive di solo pane. Basta non dimenticare che anche il pane, per molti, è un lusso. Ha scritto il sociologo professor Franco Cassano nel Suo lavoro editoriale “L’umiltà del male” - Laterza editore (2011), pagg. 94, € 14 - nella Sua analisi riportata sul quotidiano “la Repubblica” del 5 di novembre dell’anno 2011 col titolo “Il male minore”: “(…). Non può (…) destare meraviglia che in questo mondo di individui liberi il capitale finanziario divenga la forma universale di connessione sociale, il luogo di concentrazione di un potere capace di governare il destino di un´enorme massa di esseri umani. Individuo e capitale finanziario possono conoscere momenti di conflitto, ma, essendo, come si è detto, due facce della stessa medaglia, sono legati a filo doppio. Mentre l´individuo erode, dal basso, ogni legame non volontario, il moto perpetuo del capitale finanziario erode, dall´alto, tutte le istituzioni fondate su principi diversi da quello dell´incremento dei profitti. L´individuazione di questa connessione tra individualismo radicale e dominio del capitale finanziario, che sfugge a gran parte della cultura laica, ci fornisce un´indicazione anche se solo iniziale su come agire. Negli ultimi mesi e a partire dagli Stati Uniti, la necessità di riportare sotto un controllo comune il capitale finanziario sembra essersi fatta spazio nella coscienza dei movimenti giovanili. Ma il passaggio non sarà né facile né lineare: frenare il predominio globale del capitale finanziario sarà possibile solo se l´individuo saprà uscire dalla sua forma attuale ed imparerà a muoversi insieme agli altri individui, a costruire prospettive nuove e parametri alternativi rispetto a quelli dominati dalla connessione tra individuo e danaro, senza cadere in altre dismisure, nella trappola di comunità chiuse e contrapposte tra loro. È un processo lungo, impegnativo e difficile, che ci chiederà di guardare in modo diverso anche ciò che amiamo. Ma capire quanto intricato e doloroso sia il nodo che si vuole sciogliere è la premessa di ogni vero cambiamento”. La grande intuizione degli analisti e dei pensatori che la “crisi” intacchi nel profondo le strutture sociali e ne determini altri orizzonti trova una conferma laddove l’illustre Autore scrive che “il moto perpetuo del capitale finanziario erode, dall´alto, tutte le istituzioni fondate su principi diversi da quello dell´incremento dei profitti”. È il risultato tragico che si spiana sotto gli occhi di tutti noi. Sono crollate le idee e le ideologie e sono crollati i miti creati da quel legno storto che è l’uomo - «Da un legno così storto come quello di cui è fatto l’uomo, non si può costruire nulla di perfettamente dritto», per dirla con Kant - che hanno sorretto ed indirizzato il progresso delle società occidentali che si sono da sempre identificate nella triade “liberté, égalitè, fraternité”. Nulla è sembrato sopravvivere all’impetuoso avanzare del “profitto” a tutti i costi, non finalizzato alla produzione delle cose reali, ma alla sua auto-riproduzione senza limiti e senza fini sociali che siano e con una spinta selvaggia e senza freni verso una trasformazione antropologica che ha fatto dei “cittadini” preconizzati dalla rivoluzione dell’89 i “consumatori avvertiti” dell’oggi, capaci di “scegliere tra cinque operatori telefonici” sì, ma senza per questo essere “dei cittadini responsabili”. “Dov’è finita l’egalité” è il titolo di una interessantissima intervista a Pierre Rosanvallon, professore presso il “Collèg de France”, di Fabio Gambaro per il quotidiano “la Repubblica” dell’8 di novembre dell’anno 2011. “Capitalismoedemocrazia” è il tentativo di “ascolto-lettura-condivisione” di tutte quelle “voci”, lontane dal coro, che si alzino ad avvertire dell’evidente disfacimento di un capitalismo fine a sé stesso, privo di qualsivoglia “etica”. Anticipa, quell’intervista, ben nove anni addietro, quali sarebbero stati quegli sviluppi che sono tutt’oggi sotto gli occhi di tutti noi. Di seguito trascrivo, in parte, quell’interessante intervista: (…). «Gli indignados sono solo la punta dell´iceberg di un protesta sociale diffusa che denuncia la deriva intollerabile delle disuguaglianze. Una deriva che, oltre ad essere un disastro morale, favorisce la «decostruzione sociale», (…). Purtroppo però l´indignazione non si traduce quasi mai in scelte concrete di riforma. Anzi, mentre ci si indigna, le fratture sociali aumentano. La coscienza politica cresce, ma la coesione sociale arretra».
Come se lo spiega? «La società condanna dei fatti prodotti da meccanismi che però vengono parzialmente accettati. Ad esempio, si denunciano le retribuzioni scandalose dei trader ma non ci si stupisce di fronte ai compensi spesso superiori dei calciatori o degli artisti. Oppure si accetta senza troppi problemi l´idea che il merito possa produrre differenze economiche enormi. Tutto ciò è un segno dello scollamento tra la democrazia come regime politico e la democrazia come forma sociale. Sul piano politico le democrazie sono oggi globalmente più forti e critiche di trent´anni fa, possono contare su contropoteri più organizzati e una maggiore informazione. Ma la democrazia come legame sociale fondato sull´uguaglianza sta pericolosamente declinando».
In passato la dimensione sociale della democrazia contava di più? «Certamente. Per le rivoluzioni americana e francese, più che il regime politico contava l´idea di una società senza privilegi e differenze sociali. Per questo la parola uguaglianza era tanto importante, come aveva colto subito Tocqueville. Oggi, essa arretra dappertutto. Ma una democrazia non può certo continuare a progredire se tra gli individui viene a mancare il senso di appartenenza a una società comune e condivisa. Nella frattura sociale rischia d´insinuarsi il populismo, vale a dire la patologia della democrazia-regime che sfrutta la decostruzione della democrazia-società. Di fronte alla crisi del senso di appartenenza, il populismo risponde con l´esaltazione di un sentimento di comunità fittizio, basato su un´ideologia nazionalista fatta di esclusione, xenofobia e illusoria omogeneità. Per rispondere al populismo, occorre quindi promuovere una società dove la parola uguaglianza abbia nuovamente un senso».
Perché negli ultimi vent´anni l´eguaglianza sociale è arretrata? «La società ha progressivamente abbandonato il modello redistributivo che per quasi tutto il secolo scorso ha progressivamente attenuato le disuguaglianze sociali. La scelta della redistribuzione era legata al ricordo delle grandi prove vissute collettivamente, soprattutto le due guerre mondiali, e alla paura del comunismo che ha spinto anche i regimi più conservatori verso le riforme sociali. Oggi il vissuto collettivo e il riformismo della paura non agiscono più, contribuendo così a rendere molto più fragile la spinta alla solidarietà».
Quanto ha pesato il trionfo dell´individualismo? «È stato un fattore strutturale determinante, per altro favorito dall´avvento del nuovo capitalismo d´innovazione, il quale valorizza la produttività e la creatività individuali. Dagli anni ottanta in poi la meritocrazia e l´uguaglianza di opportunità sono diventate sempre più importanti, sostenute da una trasformazione quasi antropologica dell´individualismo».
In che direzione? «Agli albori della democrazia, l´individualismo era universalizzante. Essere un individuo significava innanzitutto essere come gli altri, con gli stessi diritti e la stessa libertà. Da qui l´idea di una società d´individui simili e uguali. Oggi invece prevale la domanda di singolarità, l´individualismo che ci distingue dagli altri, il bisogno di sentirsi unici che trova un terreno d´elezione nella società dei consumi. Abbiamo l´impressione di avere un potere supplementare sulla nostra vita solo perché ci consideriamo consumatori avvertiti, ma scegliere tra cinque operatori telefonici non fa di noi dei cittadini responsabili. La vera singolarità è costruire la propria vita come individui autonomi, esistere come persone. Il neoliberalismo, invece, ha risposto al bisogno di singolarità sacralizzando il consumatore e indicando come ideale della società quello della concorrenza generalizzata».
Come fare per rimettere l´uguaglianza al centro della società? «Insistere sul merito e sull´eguaglianza di opportunità non basta, occorre elaborare una vera e propria filosofia dell´uguaglianza, che naturalmente non vuol dire egualitarismo. Dall´eguaglianza come metodo di redistribuzione occorre passare all´eguaglianza come relazione, che deve diventare la struttura portante di una società d´eguali, articolandola però con il bisogno di singolarità. Oggi infatti non si può più pensare all´uguaglianza come omogeneità e livellamento, occorre dare a ciascuno i mezzi della propria singolarità, senza discriminazioni. (…).

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