Ha scritto Michele Serra in “La vera discriminazione” pubblicato
sul quotidiano “la Repubblica” di ieri domenica 13 di settembre: (…). Già,
gli ultimi sono gli ultimi, e il cataclisma umano di Lesbo aiuta a rimettere un
poco di ordine nella graduatoria della sofferenza e della discriminazione. Tra
chi ha casa e chi no, chi ha cittadinanza e chi no, chi possiede cibo e vestiti
e chi no, chi è libero di stare e di andare dove vuole e chi no, per dirla
brutalmente tra i ricchi e i poveri del mondo, è lì che la disuguaglianza ha la
forma e la forza di un'ascia che spacca in due l'umanità. I profughi sono
femmine e maschi, vecchi e giovani, bambine e bambini, ma sono prima di tutto
profughi: li unisce la sventura di non avere più niente, spesso neppure una
meta verso la quale dirigersi. Noi possiamo concederci il lusso di azzuffarci
più o meno su tutto il resto, ma con la pancia piena e il letto fatto. Meglio
per noi, non si vive di solo pane. Basta non dimenticare che anche il pane, per
molti, è un lusso. Ha scritto il sociologo professor Franco Cassano nel
Suo lavoro editoriale “L’umiltà del
male” - Laterza editore (2011), pagg. 94, € 14 - nella Sua analisi
riportata sul quotidiano “la Repubblica” del 5 di novembre dell’anno 2011 col titolo “Il male minore”:
“(…).
Non può (…) destare meraviglia che in questo mondo di individui liberi il
capitale finanziario divenga la forma universale di connessione sociale, il
luogo di concentrazione di un potere capace di governare il destino di
un´enorme massa di esseri umani. Individuo e capitale finanziario possono
conoscere momenti di conflitto, ma, essendo, come si è detto, due facce della
stessa medaglia, sono legati a filo doppio. Mentre l´individuo erode, dal
basso, ogni legame non volontario, il moto perpetuo del
capitale finanziario erode, dall´alto, tutte le istituzioni fondate su principi
diversi da quello dell´incremento dei profitti. L´individuazione di questa
connessione tra individualismo radicale e dominio del capitale finanziario, che
sfugge a gran parte della cultura laica, ci fornisce un´indicazione anche se
solo iniziale su come agire. Negli ultimi mesi e a partire dagli Stati Uniti,
la necessità di riportare sotto un controllo comune il capitale finanziario
sembra essersi fatta spazio nella coscienza dei movimenti giovanili. Ma il
passaggio non sarà né facile né lineare: frenare il predominio globale del
capitale finanziario sarà possibile solo se l´individuo saprà uscire dalla sua
forma attuale ed imparerà a muoversi insieme agli altri individui, a costruire
prospettive nuove e parametri alternativi rispetto a quelli dominati dalla
connessione tra individuo e danaro, senza cadere in altre dismisure, nella
trappola di comunità chiuse e contrapposte tra loro. È un processo lungo,
impegnativo e difficile, che ci chiederà di guardare in modo diverso anche ciò
che amiamo. Ma capire quanto intricato e doloroso sia il nodo che si vuole
sciogliere è la premessa di ogni vero cambiamento”. La grande
intuizione degli analisti e dei pensatori che la “crisi” intacchi nel
profondo le strutture sociali e ne determini altri orizzonti trova una conferma
laddove l’illustre Autore scrive che “il moto perpetuo del capitale finanziario
erode, dall´alto, tutte le istituzioni fondate su principi diversi da quello
dell´incremento dei profitti”. È il risultato tragico che si spiana
sotto gli occhi di tutti noi. Sono crollate le idee e le ideologie e sono
crollati i miti creati da quel legno storto che è l’uomo - «Da un legno così storto come
quello di cui è fatto l’uomo, non si può costruire nulla di perfettamente
dritto», per dirla con Kant - che hanno sorretto ed indirizzato il
progresso delle società occidentali che si sono da sempre identificate nella
triade “liberté, égalitè, fraternité”. Nulla è sembrato sopravvivere
all’impetuoso avanzare del “profitto” a tutti i costi, non
finalizzato alla produzione delle cose reali, ma alla sua auto-riproduzione
senza limiti e senza fini sociali che siano e con una spinta selvaggia e senza
freni verso una trasformazione antropologica che ha fatto dei “cittadini”
preconizzati dalla rivoluzione dell’89 i “consumatori avvertiti” dell’oggi,
capaci di “scegliere tra cinque operatori telefonici” sì, ma senza per
questo essere “dei cittadini responsabili”. “Dov’è finita l’egalité” è il titolo di una interessantissima
intervista a Pierre Rosanvallon, professore presso il “Collèg de France”, di
Fabio Gambaro per il quotidiano “la Repubblica” dell’8 di novembre dell’anno 2011.
“Capitalismoedemocrazia”
è il tentativo di “ascolto-lettura-condivisione” di tutte quelle “voci”,
lontane dal coro, che si alzino ad avvertire dell’evidente disfacimento di un
capitalismo fine a sé stesso, privo di qualsivoglia “etica”. Anticipa, quell’intervista,
ben nove anni addietro, quali sarebbero stati quegli sviluppi che sono
tutt’oggi sotto gli occhi di tutti noi. Di seguito trascrivo, in parte, quell’interessante
intervista: (…). «Gli indignados sono solo la punta dell´iceberg di un protesta
sociale diffusa che denuncia la deriva intollerabile delle disuguaglianze. Una
deriva che, oltre ad essere un disastro morale, favorisce la «decostruzione
sociale», (…). Purtroppo però l´indignazione non si traduce quasi mai in scelte
concrete di riforma. Anzi, mentre ci si indigna, le fratture sociali aumentano.
La coscienza politica cresce, ma la coesione sociale arretra».
Come se lo spiega? «La società
condanna dei fatti prodotti da meccanismi che però vengono parzialmente
accettati. Ad esempio, si denunciano le retribuzioni scandalose dei trader ma
non ci si stupisce di fronte ai compensi spesso superiori dei calciatori o
degli artisti. Oppure si accetta senza troppi problemi l´idea che il merito
possa produrre differenze economiche enormi. Tutto ciò è un segno dello
scollamento tra la democrazia come regime politico e la democrazia come forma
sociale. Sul piano politico le democrazie sono oggi globalmente più forti e critiche
di trent´anni fa, possono contare su contropoteri più organizzati e una
maggiore informazione. Ma la democrazia come legame sociale fondato
sull´uguaglianza sta pericolosamente declinando».
In passato la dimensione sociale
della democrazia contava di più? «Certamente. Per le rivoluzioni americana e
francese, più che il regime politico contava l´idea di una società senza
privilegi e differenze sociali. Per questo la parola uguaglianza era tanto
importante, come aveva colto subito Tocqueville. Oggi, essa arretra
dappertutto. Ma una democrazia non può certo continuare a progredire se tra gli
individui viene a mancare il senso di appartenenza a una società comune e
condivisa. Nella frattura sociale rischia d´insinuarsi il populismo, vale a
dire la patologia della democrazia-regime che sfrutta la decostruzione della
democrazia-società. Di fronte alla crisi del senso di appartenenza, il
populismo risponde con l´esaltazione di un sentimento di comunità fittizio,
basato su un´ideologia nazionalista fatta di esclusione, xenofobia e illusoria
omogeneità. Per rispondere al populismo, occorre quindi promuovere una società
dove la parola uguaglianza abbia nuovamente un senso».
Perché negli ultimi vent´anni
l´eguaglianza sociale è arretrata? «La società ha progressivamente abbandonato
il modello redistributivo che per quasi tutto il secolo scorso ha
progressivamente attenuato le disuguaglianze sociali. La scelta della
redistribuzione era legata al ricordo delle grandi prove vissute
collettivamente, soprattutto le due guerre mondiali, e alla paura del comunismo
che ha spinto anche i regimi più conservatori verso le riforme sociali. Oggi il
vissuto collettivo e il riformismo della paura non agiscono più, contribuendo
così a rendere molto più fragile la spinta alla solidarietà».
Quanto ha pesato il trionfo
dell´individualismo? «È stato un fattore strutturale determinante, per altro
favorito dall´avvento del nuovo capitalismo d´innovazione, il quale valorizza
la produttività e la creatività individuali. Dagli anni ottanta in poi la
meritocrazia e l´uguaglianza di opportunità sono diventate sempre più
importanti, sostenute da una trasformazione quasi antropologica
dell´individualismo».
In che direzione? «Agli albori
della democrazia, l´individualismo era universalizzante. Essere un individuo
significava innanzitutto essere come gli altri, con gli stessi diritti e la
stessa libertà. Da qui l´idea di una società d´individui simili e uguali. Oggi
invece prevale la domanda di singolarità, l´individualismo che ci distingue
dagli altri, il bisogno di sentirsi unici che trova un terreno d´elezione nella
società dei consumi. Abbiamo l´impressione di avere un potere supplementare
sulla nostra vita solo perché ci consideriamo consumatori avvertiti, ma
scegliere tra cinque operatori telefonici non fa di noi dei cittadini
responsabili. La vera singolarità è costruire la propria vita come individui
autonomi, esistere come persone. Il neoliberalismo, invece, ha risposto al
bisogno di singolarità sacralizzando il consumatore e indicando come ideale
della società quello della concorrenza generalizzata».
Come fare per rimettere
l´uguaglianza al centro della società? «Insistere sul merito e sull´eguaglianza
di opportunità non basta, occorre elaborare una vera e propria filosofia
dell´uguaglianza, che naturalmente non vuol dire egualitarismo.
Dall´eguaglianza come metodo di redistribuzione occorre passare all´eguaglianza
come relazione, che deve diventare la struttura portante di una società
d´eguali, articolandola però con il bisogno di singolarità. Oggi infatti non si
può più pensare all´uguaglianza come omogeneità e livellamento, occorre dare a
ciascuno i mezzi della propria singolarità, senza discriminazioni. (…).
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