Tratto da “E
Caino diede inizio alla realtà” di Massimo Recalcati – psicoterapeuta di scuola
lacaniana -, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 12 di settembre dell’anno
2019:
La colpa di Caino apre la narrazione biblica dell’entrata dell’uomo nella storia. Il primo gesto dell’uomo fuori dal giardino dell’Eden è quello della violenza fratricida. Lo affermava anche Freud: all’origine della vita non c’è l’amore, ma l’odio. La violenza non è solo un modo dell’agire ma è soprattutto una tentazione. Mentre il pensiero si struttura sullo sfondo del riconoscimento dell’impossibilità di governare pienamente l’inquietudine della vita, l’illusione della violenza è quella di raggiungere in un sol colpo la realizzazione dei nostri desideri. Accade nei rapporti intersoggettivi come nei rapporti tra Stati o tra gruppi etnici. La soluzione della violenza assomiglia a quella dell’allucinazione; è una negazione del carattere doloroso e insopportabile della realtà quando essa non coincide con le nostre aspettative: si tratta allora di eliminare l’ostacolo, il nemico, l’intruso, il difforme. Il gesto di Caino insegna che la violenza non è affatto l’esito di una regressione dell’umano al regno animale. Non esiste, infatti, tentazione della violenza nel mondo animale perché in quel mondo la violenza non è in rapporto al desiderio, ma all’istinto. Non esiste, a rigore, possibilità di crimine nel mondo animale. Quel mondo è regolato solo dalla forza affermativa dell’istinto di vita che non conosce la tentazione della violenza ma solo il suo uso necessario. Il crimine viene invece alla luce solo con l’uomo. È il carattere originario che il logos biblico attribuisce al gesto di Caino. Questo gesto porta con sé un profondo mistero. Siamo infatti abituati a pensare che la violenza sia un riparo di fronte alla presenza del nemico, che essa sorga dalla nostra spinta originaria a confondere – come direbbe Freud – «lo straniero con l’ostile». L’odio è, in questo senso, sempre più antico dell’amore perché incarnerebbe la prima reazione dell’uomo nei confronti dell’Altro che perturba o minaccia i confini della sua identità. Il racconto biblico sembra però sconcertare questo schema. Quella di Caino non è una violenza che colpisce lo straniero, ma chi ha il nostro stesso sangue. Non è violenza verso l’invasore o il nemico giurato, ma verso il fratello. E il punto più scabroso del racconto biblico: Caino (l’assassino) ha lo stesso sangue di Abele (l’assassinato). Siamo allora obbligati a introdurre un altro volto dello straniero; non lo straniero che viene da luoghi lontani, che abita al di là delle nostre frontiere, ma quello che abita la nostra stessa casa. Uno straniero che non è fuori, ma dentro di noi. Perché Caino colpisce a morte il fratello? Nel testo biblico si racconta che egli non poteva sopportare l’amore che Dio mostra verso il fratello, non poteva sopportare di non essere l’unico. Il suo gesto rivela la matrice invidiosa e narcisistica della violenza umana. La violenza che si scatena sul più prossimo e non sull’estraneo, sul fratello e non sul nemico, porta con sé il marchio indelebile dell’invidia poiché l’invidiato non è mai lo sconosciuto, ma quello che vorremmo essere senza riuscirvi, il nostro ideale irraggiungibile. L’invidia, infatti, è sempre rivolta a chi è come noi ma ha o è più di noi; è sempre invidia per il simile e non per il diverso; l’invidiato incarna l’ideale inconfessato dell’invidioso. Ed è proprio questo odio invidioso ad armare la mano di Caino. Egli non sopporta che Dio abbia rifiutato i suoi doni per preferire quelli di Abele; non sopporta la vita del fratello che appare più viva e più riconosciuta della sua. Il gesto di Caino rivela che la fratellanza non è mai – come, del resto, il processo stesso della filiazione – un evento di sangue. Non esiste fratellanza biologica. Il che significa che non esiste fratellanza senza riconoscimento della nostra responsabilità verso il fratello. Dopo aver ucciso Abele, Caino si trova confrontato alla domanda perentoria del Signore: «Caino, dov’è Abele, tuo fratello?». Il fratricida rigetta inizialmente ogni responsabilità: «sono forse io il custode di mio fratello?». È questo il punto: senza l’assunzione soggettiva della responsabilità verso il fratello, non si dà alcun sentimento di fratellanza. Siamo obbligati allora a capovolgere il presupposto naturalistico della fratellanza per affermare che Caino può davvero acquisire il titolo di “fratello” solo dopo il suo crimine e l’ammissione della sua imperdonabile colpa, ovvero solo dopo l’assunzione della responsabilità del proprio atto. È questa responsabilità a portare la fratellanza nella storia sottraendola all’illusione del suolo e del sangue. È per questa ragione che Dio mette fine agli inganni di una fratellanza fondata sull’invidia narcisistica proteggendo Caino da chi lo vorrebbe morto. Dove esiste comunità umana la natura speculare della violenza fratricida deve essere interrotta. Il segno che Dio pone su Caino impedisce all’assassino di essere assassinato in una ripetizione senza fine della violenza fratricida per indicare l’orizzonte di una fratellanza non fondata sull’invidia narcisistica, ma sulla condivisione della responsabilità.
La colpa di Caino apre la narrazione biblica dell’entrata dell’uomo nella storia. Il primo gesto dell’uomo fuori dal giardino dell’Eden è quello della violenza fratricida. Lo affermava anche Freud: all’origine della vita non c’è l’amore, ma l’odio. La violenza non è solo un modo dell’agire ma è soprattutto una tentazione. Mentre il pensiero si struttura sullo sfondo del riconoscimento dell’impossibilità di governare pienamente l’inquietudine della vita, l’illusione della violenza è quella di raggiungere in un sol colpo la realizzazione dei nostri desideri. Accade nei rapporti intersoggettivi come nei rapporti tra Stati o tra gruppi etnici. La soluzione della violenza assomiglia a quella dell’allucinazione; è una negazione del carattere doloroso e insopportabile della realtà quando essa non coincide con le nostre aspettative: si tratta allora di eliminare l’ostacolo, il nemico, l’intruso, il difforme. Il gesto di Caino insegna che la violenza non è affatto l’esito di una regressione dell’umano al regno animale. Non esiste, infatti, tentazione della violenza nel mondo animale perché in quel mondo la violenza non è in rapporto al desiderio, ma all’istinto. Non esiste, a rigore, possibilità di crimine nel mondo animale. Quel mondo è regolato solo dalla forza affermativa dell’istinto di vita che non conosce la tentazione della violenza ma solo il suo uso necessario. Il crimine viene invece alla luce solo con l’uomo. È il carattere originario che il logos biblico attribuisce al gesto di Caino. Questo gesto porta con sé un profondo mistero. Siamo infatti abituati a pensare che la violenza sia un riparo di fronte alla presenza del nemico, che essa sorga dalla nostra spinta originaria a confondere – come direbbe Freud – «lo straniero con l’ostile». L’odio è, in questo senso, sempre più antico dell’amore perché incarnerebbe la prima reazione dell’uomo nei confronti dell’Altro che perturba o minaccia i confini della sua identità. Il racconto biblico sembra però sconcertare questo schema. Quella di Caino non è una violenza che colpisce lo straniero, ma chi ha il nostro stesso sangue. Non è violenza verso l’invasore o il nemico giurato, ma verso il fratello. E il punto più scabroso del racconto biblico: Caino (l’assassino) ha lo stesso sangue di Abele (l’assassinato). Siamo allora obbligati a introdurre un altro volto dello straniero; non lo straniero che viene da luoghi lontani, che abita al di là delle nostre frontiere, ma quello che abita la nostra stessa casa. Uno straniero che non è fuori, ma dentro di noi. Perché Caino colpisce a morte il fratello? Nel testo biblico si racconta che egli non poteva sopportare l’amore che Dio mostra verso il fratello, non poteva sopportare di non essere l’unico. Il suo gesto rivela la matrice invidiosa e narcisistica della violenza umana. La violenza che si scatena sul più prossimo e non sull’estraneo, sul fratello e non sul nemico, porta con sé il marchio indelebile dell’invidia poiché l’invidiato non è mai lo sconosciuto, ma quello che vorremmo essere senza riuscirvi, il nostro ideale irraggiungibile. L’invidia, infatti, è sempre rivolta a chi è come noi ma ha o è più di noi; è sempre invidia per il simile e non per il diverso; l’invidiato incarna l’ideale inconfessato dell’invidioso. Ed è proprio questo odio invidioso ad armare la mano di Caino. Egli non sopporta che Dio abbia rifiutato i suoi doni per preferire quelli di Abele; non sopporta la vita del fratello che appare più viva e più riconosciuta della sua. Il gesto di Caino rivela che la fratellanza non è mai – come, del resto, il processo stesso della filiazione – un evento di sangue. Non esiste fratellanza biologica. Il che significa che non esiste fratellanza senza riconoscimento della nostra responsabilità verso il fratello. Dopo aver ucciso Abele, Caino si trova confrontato alla domanda perentoria del Signore: «Caino, dov’è Abele, tuo fratello?». Il fratricida rigetta inizialmente ogni responsabilità: «sono forse io il custode di mio fratello?». È questo il punto: senza l’assunzione soggettiva della responsabilità verso il fratello, non si dà alcun sentimento di fratellanza. Siamo obbligati allora a capovolgere il presupposto naturalistico della fratellanza per affermare che Caino può davvero acquisire il titolo di “fratello” solo dopo il suo crimine e l’ammissione della sua imperdonabile colpa, ovvero solo dopo l’assunzione della responsabilità del proprio atto. È questa responsabilità a portare la fratellanza nella storia sottraendola all’illusione del suolo e del sangue. È per questa ragione che Dio mette fine agli inganni di una fratellanza fondata sull’invidia narcisistica proteggendo Caino da chi lo vorrebbe morto. Dove esiste comunità umana la natura speculare della violenza fratricida deve essere interrotta. Il segno che Dio pone su Caino impedisce all’assassino di essere assassinato in una ripetizione senza fine della violenza fratricida per indicare l’orizzonte di una fratellanza non fondata sull’invidia narcisistica, ma sulla condivisione della responsabilità.
"Tra invidia e superbia c'è una sottile parentela dovuta al fatto che il superbo, se da un lato tende a superare gli altri, quando a sua volta viene superato non si rassegna, e l'effetto di questa non riassegnazione è l'invidia".(U.Galimberti). "Non vi lasciate entrare in corpo il serpe dell'invidia:è un serpe che rode il cervello e corrompe il cuore".(Edmondo De Amicis). "L'invidia è il sintomo della mancanza di apprezzamento del proprio valore di unicità e di autostima. Ognuno di noi ha qualcosa da dare che nessun altro ha".(Elizabeth O'Connor). Grazie per la condivisione di questo stimolante post e buona continuazione.
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