Quadro primo. “Una gallina un po’ incerta”. Una gallina un po’ incerta andava in giro per l’aia brontolando: - Chi
sono io? Chi sono io?- Le compagne si preoccuparono perché pensavano che fosse
diventata matta, finché un giorno una le rispose: - Una cogliona -. La gallina
un po’ incerta da quel giorno smise di vaneggiare. “
Quadro secondo. “Una gallina sapiente”. Una gallina sapiente voleva insegnare alle compagne a contare e a fare
le addizioni. Su un muro del pollaio scrisse i numeri da 1 a 9 e spiegò che mettendoli
insieme se ne potevano ricavare altri più grandi. Per insegnare le addizioni
scrisse su un altro muro: 1 + 1=11; 2 + 2=22; 3 + 3=33 e così via fino a 9 +
9=99. Le galline impararono le addizioni e le trovarono molto convenienti.
Quadro terzo. “Una gallina che non era mai contenta”. Dopo avere stabilito che anche le galline hanno l’anima, tutte le galline del pollaio decisero che doveva esserci il paradiso per quelle che se lo meritavano. Una gallina che non era mai contenta domandò se per caso ci fosse un posto migliore del paradiso.
Quadro quarto. “Le galline vennero a sapere”. Le galline vennero a sapere che il poeta Baudelaire aveva detto che la
campagna è quel posto dove le galline vanno in giro crude. Una gallina disse
allora per ripicca che la città è quel posto dove i poeti vanno in giro cotti.
Nei miei ricordi ritornano spesso
i tempi in cui da fanciullo, con la famiglia al completo, si trascorreva quel
periodo che va dal declinare dell’estate sino ai primi refoli freschi
dell’autunno, nelle ubertose campagne della Ciociaria. In campagna. E mi pare
di percepire ancora gli odori della vendemmia, con la ritualità sua propria, e l’allegrezza
di quel tempo felice assai. Allora la scuola aveva inizio al primo di ottobre.
Ma le galline soprattutto, nei miei ricordi, rappresentano a tutt’oggi quanto di
meglio quella campagna potesse offrire a quel benefico strappo dalla vita
cittadina. Ed era una fascinazione vederle razzolare con quell’andirivieni lento,
incessante ed instancabile dal mattino all’imbrunire allorquando, come ad un
segnale convenuto e che solo esse puntualmente percepivano, le vedevi rientrare
nella stia per occupare immancabilmente il posto sugli assi allo scopo
predisposti. Il loro incessante razzolare alla ricerca di semi, di vermi e di
quant’altro facesse loro gola era un richiamo inevitabile per la mia curiosità
di fanciullo. Ma il tutto pareva poi dissolversi nel nulla allorquando alto si
levava, nel cortile della casa che ci ospitava, il frenetico, modulato verso
della gallina che depone; e mi pare di udirlo tuttora, frammisto al frinire che
riempiva l’aria di quelle interminabili giornate della mia fanciullezza. E
subito accadeva che i ragazzi della campagna accorressero alla ricerca del prezioso
dono della gallina di turno, all’insaputa degli adulti ad altro dediti. E non
mi riesce di cancellare dai miei ricordi di allora la maestria di quei
ragazzetti che con abilità insospettata ed invidiata, praticando nel guscio
calcareo invisibili forellini, svuotavano il ricco contenuto di quel
meraviglioso dono della gallina. Invidiavo sì quella maestria, ma in confidenza
l’operazione mi faceva proprio ribrezzo; chi avrebbe mai avvicinato quell’uovo
così sozzo alla bocca, dopo tutto l’indottrinamento che ci veniva impartito in
casa, a scuola e dappertutto? Per un anno intiero e sino al ritorno nostro in
quelle verdi contrade? Ma il fatto inusuale in una città costituiva per il
fanciullo che ero motivo di un personale rincrescimento, come se l’azione di
quei ragazzetti avesse ben altri significati, volesse essere, o fosse, una
prova di una forza, di un coraggio che mi mancava, una “defaillance” del mio
essere, al confronto con i ragazzetti della campagna. Ma tanto è; passati
quegli anni mi piace concedermi questo riandare ad innocenti ricordi. Delle
galline semmai mi tocca prendere le cosiddette difese d’ufficio. Donde viene e
dove trova ragione il nostro sproloquiare a proposito del “cervello di gallina?”.
Siamo sicuri proprio che il cervello di tanti umani sia superiore a quello
delle galline? Non trovo giusto che si offendano le galline per stigmatizzare
un comportamento che di umano ha sempre ben poco. E del gallo, che dire? Come
al solito il maschilismo, o come oggi suol dirsi, il machismo, imperversa
nell’umano pensare; perché sempre e solo dovrebbe esistere un “cervello di
gallina” se non un “cervello di gallo”? Che il gallo non abbia cervello? Come
per l’appunto i galli umani? Desidero disvelare che le galline dei “quadri”
sono di Luigi Malerba, che le ha ben rappresentate nella sua raccolta “Le galline pensierose”. Viva le
galline!
Nessun commento:
Posta un commento