La “memoria” di oggi risale al
mercoledì 7 di dicembre dell’anno 2011. Ci aveva pensato l’Europa a
disarcionare l’indomito “cavaliere d’Arcore”, ché la “brava gente” degli
italiani se lo sarebbe coccolato per un altro quindicennio ancora.
È pur vero che ebbe inizio una fase nuova con i “tecnici” al potere. Ancor oggi se ne scontano le grossolane imprevidenze – un pensiero per il destino delle migliaia e migliaia di “esodati” – e gli errori. La “lettera” di allora offre ancor oggi l’opportunità di capire di quali misfatti si siano macchiati gli uomini del “tecnicismo” prima, così come se ne siano macchiati gli uomini della “rottamazione” dopo. Scrivevo allora a due carissime, giovanissime mie conoscenze, che tutt’oggi mi stanno tanto a cuore: Carissimi Barbara ed Andrea, scrivete nel Vostro commento al post del 23 di novembre, con una evidente punta di sarcasmo: “le lacrime della fornero… che strazio…! quasi quasi chiedo di poter pagare il doppio delle tasse…”. Come non capirvi! Siete giovani, il “sole dell’avvenire” dovrebbe risplendere luminoso ed abbagliante per Voi, ma ho avuto modo di conoscere i Vostri problemi – che sono i problemi di tutti i giovani della globalizzazione - e di apprezzare, in pari tempo, tutto il Vostro coraggio e l’indistruttibile Vostra grande volontà di divenire “adulti” a tutti gli effetti. Colgo, in quella parte del Vostro commento, un che di delusione che non è ancora la rabbia degli sconfitti; e ciò Vi rende merito grande. Ed affinché possiate maturare pensieri “adulti” Vi propongo di seguito, in parte, lo straordinario scritto di una grandissima opinionista che risponde al nome di Barbara Spinelli. Titolo dello scritto: “Le lacrime e le parole”, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” il 6 di dicembre ultimo. Ove l’episodio, a tutti noto, assume un aspetto ed un valore intrinseco che solo la maestria della Spinelli riesce a fare emergere nella loro compiutezza, rendendoci per intero le “verità” che da un semplice superficiale “ascolto”, ovvero dalla sola distratta “visione” sui media, non si riesce di cogliere e che solo l’esercizio della lettura, che ora vi propongo, che coinvolge gli strati più profondi della mente, rende nella loro pienezza ed autorevolezza. E mi garba di sottolineare, alla Vostra cortese attenzione di giovani entusiasti per quanto delusi dal corso degli eventi, due passaggi fondamentali dello scritto di Barbara Spinelli laddove scrive: “Medicare le parole presuppone che si dica la verità ai cittadini, (…)”. Poiché non sarà sfuggito alla attenzione Vostra come da un certo tempo a questa parte non si sia detta “la verità ai cittadini” di questo singolare paese, poiché dire “la verità”, tutta “la verità” ritengo essere il primo dovere per tutti i reggitori della cosa pubblica di qualsivoglia colore politico. Le parole è come se avessero perso di forza e di significato e trovo straordinaria l’intuizione della Spinelli laddove parla, per l’appunto, di “medicare le parole”. Poiché in questo bel paese necessita che anche le parole tornino ad avere un significato preciso attorno al quale tutti ci si possa riconoscere in una identità statuale ed etnica. Ed ancora, dallo scritto dell’autorevolissima opinionista: “Ascoltare quello che effettivamente vien detto e fatto non ci apparteneva più”. è un altro passaggio di “spessore” dello scritto. Abbiamo attraversato tempi nei quali l’”ascolto” era come fosse stato bandito dalla vita pubblica del bel paese. L’”ascolto”, qualsiasi “ascolto”, presuppone una disposizione della mente alla ricezione pacata ed alla interiorizzazione profonda del “pronunciato”. Nei tempi che abbiamo vissuto, che avete vissuto, al “pronunciato” è subentrato lo stile perverso e furbesco del “proclamato”, che in certa misura supera e surclassa l’”ascolto” che è per sua natura più intimistico, svuotandolo di tutto, poiché esso, l’”ascolto”, abbisogna di concretezza del linguaggio e di parole “sane” – o “risanate” - e “certe” nel loro significato. E di questo, di tutto ciò, soprattutto i giovani, Voi giovani coraggiosi ed intraprendenti, ne siete stati colpevolmente privati, derubati, nel corso di questi oscuri, tribolati anni. Affettuosamente, Barbara ed Andrea, Vi lascio alla lettura ed alla riflessione di quanto ha scritto Barbara Spinelli: (…). Se il cuore di una persona trema, se quello del buon Samaritano addirittura si spacca alla vista del dolore altrui, vuol dire che alla radice delle emozioni forti, vere, c'è un sapere tecnico del mondo. (…). Perché dietro le lacrime e il non riuscire più a sillabare, c'è una persona che sa quello di cui parla: in pochi attimi, abbiamo visto come il tecnico abbia più cuore (sempre in senso biblico) di tanti politici che oggi faticano a rinnovarsi. Pascal avrebbe detto probabilmente: il ministro non ha solo lo spirito geometrico, che analizza scientificamente, ma anche lo spirito di finezza, che valuta le conseguenze esistenziali di calcoli razionalmente esatti. Balbettavano anche i profeti, per esprit de finesse. È significativo che il ministro si sia bloccato, (…), su una precisa parola: sacrificio. La diciamo spesso, la pronunciano tanti politici, quasi non accorgendosi che il vocabolo non ha nulla di anodino ma è colmo di gravità, possiede una forza atavica e terribile, è il fondamento stesso delle civiltà: l'atto sacrificale può esser sanguinoso, nei miti o nelle tragedie greche, oppure quando la comunità s'incivilisce è il piccolo sacrificio di sé cui ciascuno consente per ottenere una convivenza solidale tra diversi. Non saper proferire il verbo senza che il cuore ti si spacchi è come una rinascita, dopo un persistente disordine dei vocabolari. È come se il verbo si riprendesse lo spazio che era suo. Nella quarta sura del Corano è un peccato, “alterare le parole dai loro luoghi”. Credo che l'incessante alterazione di concetti come sacrificio, riforma, bene comune, etica pubblica, abbia impedito al ministro del Lavoro - un segno dei tempi, quasi - di compitare una locuzione sistematicamente banalizzata, ridivenuta d'un colpo pietra incandescente. Riformare le pensioni e colpire privilegi travestiti da diritti è giusto, ma fa soffrire pur sempre. Di qui forse la paralisi momentanea del verbo: al solo balenare della sacra parola, risorge la dimensione mitica del sacrificio, il terrore di vittimizzare qualcuno, la tragedia di dover - per salvare la pòlis - sgozzare il capro espiatorio, l'innocente. Medicare le parole presuppone che si dica la verità ai cittadini, (…). Riportare nel loro luogo le parole significa molto più che usare correttamente i dizionari: significa rimettere al centro concetti come il tempo lungo, il bene comune, il patto fra generazioni. Significa, non per ultimo: rendere evidente il doppio spazio - nazionale, europeo - che è oggi nostra cosmo-poli e più vasta res publica. (…). L'applauso, il peana ipnotico (meno male che Silvio c'è), le grida da linciaggio: da decenni ci inondavano. Era la lingua delle tv commerciali, del mondo liscio che esse pubblicizzavano, confondendo réclame e realtà: illudendo la povera gente, rassicurando la fortunata o ricca. Erano grida di linciaggio perché anch'esse hanno come dispositivo centrale il sacrificio: ma sacrificio tribale, che esige il capro espiatorio su cui vien trasferita la colpa della collettività. Erano capri gli immigrati, i fuggitivi che giungevano o morivano sui barconi. E anche, se si va più in profondità: erano i malati terminali che reclamano una morte senza interferenze dello Stato e di lobby religiose. La nostra scena pubblica è stata dominata, per decenni, dalla logica del sacrificio: solo che esso non coinvolgeva tutti, proprio perché nel lessico del potere svaniva l'idea di un bene disponibile per diversi interessi, credenze. Solo contava il diritto del più forte, che soppiantava la forza del diritto. Ascoltare quello che effettivamente vien detto e fatto non ci apparteneva più. (…).
È pur vero che ebbe inizio una fase nuova con i “tecnici” al potere. Ancor oggi se ne scontano le grossolane imprevidenze – un pensiero per il destino delle migliaia e migliaia di “esodati” – e gli errori. La “lettera” di allora offre ancor oggi l’opportunità di capire di quali misfatti si siano macchiati gli uomini del “tecnicismo” prima, così come se ne siano macchiati gli uomini della “rottamazione” dopo. Scrivevo allora a due carissime, giovanissime mie conoscenze, che tutt’oggi mi stanno tanto a cuore: Carissimi Barbara ed Andrea, scrivete nel Vostro commento al post del 23 di novembre, con una evidente punta di sarcasmo: “le lacrime della fornero… che strazio…! quasi quasi chiedo di poter pagare il doppio delle tasse…”. Come non capirvi! Siete giovani, il “sole dell’avvenire” dovrebbe risplendere luminoso ed abbagliante per Voi, ma ho avuto modo di conoscere i Vostri problemi – che sono i problemi di tutti i giovani della globalizzazione - e di apprezzare, in pari tempo, tutto il Vostro coraggio e l’indistruttibile Vostra grande volontà di divenire “adulti” a tutti gli effetti. Colgo, in quella parte del Vostro commento, un che di delusione che non è ancora la rabbia degli sconfitti; e ciò Vi rende merito grande. Ed affinché possiate maturare pensieri “adulti” Vi propongo di seguito, in parte, lo straordinario scritto di una grandissima opinionista che risponde al nome di Barbara Spinelli. Titolo dello scritto: “Le lacrime e le parole”, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” il 6 di dicembre ultimo. Ove l’episodio, a tutti noto, assume un aspetto ed un valore intrinseco che solo la maestria della Spinelli riesce a fare emergere nella loro compiutezza, rendendoci per intero le “verità” che da un semplice superficiale “ascolto”, ovvero dalla sola distratta “visione” sui media, non si riesce di cogliere e che solo l’esercizio della lettura, che ora vi propongo, che coinvolge gli strati più profondi della mente, rende nella loro pienezza ed autorevolezza. E mi garba di sottolineare, alla Vostra cortese attenzione di giovani entusiasti per quanto delusi dal corso degli eventi, due passaggi fondamentali dello scritto di Barbara Spinelli laddove scrive: “Medicare le parole presuppone che si dica la verità ai cittadini, (…)”. Poiché non sarà sfuggito alla attenzione Vostra come da un certo tempo a questa parte non si sia detta “la verità ai cittadini” di questo singolare paese, poiché dire “la verità”, tutta “la verità” ritengo essere il primo dovere per tutti i reggitori della cosa pubblica di qualsivoglia colore politico. Le parole è come se avessero perso di forza e di significato e trovo straordinaria l’intuizione della Spinelli laddove parla, per l’appunto, di “medicare le parole”. Poiché in questo bel paese necessita che anche le parole tornino ad avere un significato preciso attorno al quale tutti ci si possa riconoscere in una identità statuale ed etnica. Ed ancora, dallo scritto dell’autorevolissima opinionista: “Ascoltare quello che effettivamente vien detto e fatto non ci apparteneva più”. è un altro passaggio di “spessore” dello scritto. Abbiamo attraversato tempi nei quali l’”ascolto” era come fosse stato bandito dalla vita pubblica del bel paese. L’”ascolto”, qualsiasi “ascolto”, presuppone una disposizione della mente alla ricezione pacata ed alla interiorizzazione profonda del “pronunciato”. Nei tempi che abbiamo vissuto, che avete vissuto, al “pronunciato” è subentrato lo stile perverso e furbesco del “proclamato”, che in certa misura supera e surclassa l’”ascolto” che è per sua natura più intimistico, svuotandolo di tutto, poiché esso, l’”ascolto”, abbisogna di concretezza del linguaggio e di parole “sane” – o “risanate” - e “certe” nel loro significato. E di questo, di tutto ciò, soprattutto i giovani, Voi giovani coraggiosi ed intraprendenti, ne siete stati colpevolmente privati, derubati, nel corso di questi oscuri, tribolati anni. Affettuosamente, Barbara ed Andrea, Vi lascio alla lettura ed alla riflessione di quanto ha scritto Barbara Spinelli: (…). Se il cuore di una persona trema, se quello del buon Samaritano addirittura si spacca alla vista del dolore altrui, vuol dire che alla radice delle emozioni forti, vere, c'è un sapere tecnico del mondo. (…). Perché dietro le lacrime e il non riuscire più a sillabare, c'è una persona che sa quello di cui parla: in pochi attimi, abbiamo visto come il tecnico abbia più cuore (sempre in senso biblico) di tanti politici che oggi faticano a rinnovarsi. Pascal avrebbe detto probabilmente: il ministro non ha solo lo spirito geometrico, che analizza scientificamente, ma anche lo spirito di finezza, che valuta le conseguenze esistenziali di calcoli razionalmente esatti. Balbettavano anche i profeti, per esprit de finesse. È significativo che il ministro si sia bloccato, (…), su una precisa parola: sacrificio. La diciamo spesso, la pronunciano tanti politici, quasi non accorgendosi che il vocabolo non ha nulla di anodino ma è colmo di gravità, possiede una forza atavica e terribile, è il fondamento stesso delle civiltà: l'atto sacrificale può esser sanguinoso, nei miti o nelle tragedie greche, oppure quando la comunità s'incivilisce è il piccolo sacrificio di sé cui ciascuno consente per ottenere una convivenza solidale tra diversi. Non saper proferire il verbo senza che il cuore ti si spacchi è come una rinascita, dopo un persistente disordine dei vocabolari. È come se il verbo si riprendesse lo spazio che era suo. Nella quarta sura del Corano è un peccato, “alterare le parole dai loro luoghi”. Credo che l'incessante alterazione di concetti come sacrificio, riforma, bene comune, etica pubblica, abbia impedito al ministro del Lavoro - un segno dei tempi, quasi - di compitare una locuzione sistematicamente banalizzata, ridivenuta d'un colpo pietra incandescente. Riformare le pensioni e colpire privilegi travestiti da diritti è giusto, ma fa soffrire pur sempre. Di qui forse la paralisi momentanea del verbo: al solo balenare della sacra parola, risorge la dimensione mitica del sacrificio, il terrore di vittimizzare qualcuno, la tragedia di dover - per salvare la pòlis - sgozzare il capro espiatorio, l'innocente. Medicare le parole presuppone che si dica la verità ai cittadini, (…). Riportare nel loro luogo le parole significa molto più che usare correttamente i dizionari: significa rimettere al centro concetti come il tempo lungo, il bene comune, il patto fra generazioni. Significa, non per ultimo: rendere evidente il doppio spazio - nazionale, europeo - che è oggi nostra cosmo-poli e più vasta res publica. (…). L'applauso, il peana ipnotico (meno male che Silvio c'è), le grida da linciaggio: da decenni ci inondavano. Era la lingua delle tv commerciali, del mondo liscio che esse pubblicizzavano, confondendo réclame e realtà: illudendo la povera gente, rassicurando la fortunata o ricca. Erano grida di linciaggio perché anch'esse hanno come dispositivo centrale il sacrificio: ma sacrificio tribale, che esige il capro espiatorio su cui vien trasferita la colpa della collettività. Erano capri gli immigrati, i fuggitivi che giungevano o morivano sui barconi. E anche, se si va più in profondità: erano i malati terminali che reclamano una morte senza interferenze dello Stato e di lobby religiose. La nostra scena pubblica è stata dominata, per decenni, dalla logica del sacrificio: solo che esso non coinvolgeva tutti, proprio perché nel lessico del potere svaniva l'idea di un bene disponibile per diversi interessi, credenze. Solo contava il diritto del più forte, che soppiantava la forza del diritto. Ascoltare quello che effettivamente vien detto e fatto non ci apparteneva più. (…).
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