Tratto da “Italia
2019, il lavoro sparito” di Marco Ruffolo, pubblicato sul settimanale
A&F del 7 di ottobre 2019: (…). Ogni volta che si incrociano i dati
Istat sulla disoccupazione con i risultati delle indagini Excelsior-Unioncamere
sui posti che restano scoperti, si viene catapultati in una specie di teatro dell’assurdo,
in un paradosso a dir poco sconcertante. Questo accade soprattutto al Nord dove
ogni cento disoccupati restano scoperti 84 posti di lavoro. Cifra che si
dimezza al Centro (43 su 100) e si riduce a 18 su 100 nelle regioni del
Mezzogiorno, nelle quali il problema principale non è tanto quello
dell’incrocio tra domanda e offerta quanto la mancanza stessa di lavoro. Diciamo
subito che non si tratta di un confronto tra grandezze del tutto omogenee,
perché da una parte abbiamo persone (i disoccupati Istat), e dall’altra
contratti di lavoro, quelli che le aziende hanno previsto di fare ma che non
vanno in porto per indisponibilità o inadeguata preparazione dei candidati. I
risultati, tuttavia, sono talmente eclatanti da dare un’idea sicuramente realistica
(anche se non precisa) del paradosso che attanaglia il mercato del lavoro in
Italia. La spiegazione La spiegazione di questo paradosso può essere riassunta
così: mancanza di competenze. Che a sua volta è il frutto avvelenato di una
formazione professionale più finta che vera e di un orientamento
post-scolastico del tutto assente.
Il risultato è sotto gli occhi di tutte le indagini economico-sociali, a cominciare da quelle dell’Ocse, secondo cui in Italia il 38% degli adulti ha competenze numeriche e linguistiche decisamente basse. Anche chi alla fine riesce a lavorare, si trova spesso con competenze e titoli diversi da quelli che sarebbero necessari per quel tipo di occupazione. Il 35% dei lavoratori è in realtà impiegato in settori che nulla hanno a che fare con lo studio svolto in precedenza. Un’incongruenza che si manifesta non solo tra gli adulti ma anche e soprattutto tra i giovani: solo un diplomato su tre nelle scuole tecniche dopo due anni fa un lavoro coerente con il proprio diploma. E tutti i giovani, nessuno escluso, escono da scuola totalmente disinformati sulle opportunità e sulle richieste del mercato. Tanto da sbagliare qualsiasi previsione sul proprio futuro. Confronto impari. Un confronto impari clamoroso, rivelato da Eurobarometro, è quello tra le aspettative lavorative dei ragazzi svedesi e le attese dei nostri. In Svezia il 40% degli adolescenti prevede di fare un lavoro manuale, e alla fine lo fa esattamente nella stessa percentuale. In Italia, solo il 5% si aspetta di svolgere attività manuali, ma poi il 48% (quasi la metà) è costretto a farlo. E deve ritenersi anche piuttosto fortunato, visto che molti altri restano invece senza un impiego. Che la situazione continui ad essere preoccupante, lo testimonia non solo l’elevato tasso di disoccupazione giovanile, che, nonostante la recente riduzione, è il doppio di quello medio dell’Eurozona (30% contro 15). Ma lo dimostra soprattutto la crescente percentuale di posti di lavoro previsti dalle imprese che restano scoperti: il 21% nel 2017, il 26 nel 2018 e il 29 tra gennaio e novembre di quest’anno, con un picco del 31% negli ultimi due mesi. In termini assoluti, passiamo dai circa 860 mila posti “vacanti” del 2017 al milione e 200 mila del 2018, confermati e anzi leggermente aumentati nel 2019. Il fenomeno, come si diceva, raggiunge picchi clamorosi soprattutto nel Nord. Qui il tasso di disoccupazione, sia pure contenuto, lascia senza lavoro quasi 870 mila persone. A fronte di queste, ci sono 730 mila contratti di lavoro (tra quelli previsti) che alla fine non vengono firmati: 84 su 100. Questo succede sia perché non si presentano candidati sia perché le aziende si rendono conto che non c’è da parte loro la preparazione adeguata a svolgere quel tipo di lavoro. Ci sono poi casi in cui il numero dei posti scoperti supera addirittura quello dei disoccupati, come nella provincia di Vicenza (110 su 100). Nel Mezzogiorno, come si diceva, il fenomeno è molto meno pronunciato: solo diciotto contratti scoperti ogni cento disoccupati. E tuttavia in termini assoluti è tutt’altro che marginale: ci sono infatti 251 mila “job vacancies”, che potrebbero essere coperte se si trovassero le giuste competenze. Che il problema sia soprattutto quelle delle competenze, lo si comprende facilmente scorrendo i mestieri e le professioni più snobbate. In termini assoluti troviamo che a restare più scoperte sono le professioni qualificate nel commercio e nei servizi, a cominciare da cuochi, baristi e camerieri (273 mila). Seguono gli operai specializzati (262 mila) e le professioni tecniche (225 mila). In percentuale sui posti previsti, il record delle “vacancies” spetta invece agli insegnanti di lingue e di altre discipline, con il 65 per cento, seguiti dagli analisti e progettisti di software con il 60,7, dagli specialisti di saldatura elettrica con il 60 e dai tecnici programmatori con il 56%. Insomma, più alto è il grado di competenza richiesto, più bassa è la copertura dei rispettivi posti. E tuttavia, negli ultimi tempi, si sono creati buchi imprevisti anche nei mestieri meno qualificati, come facchini, operatori ecologici, e addetti alle consegne. Tra questi ultimi, in particolare, resta insoddisfatta quasi la metà delle richieste aziendali. Ma è evidente che la maggior parte dei vuoti lavorativi si concentra nelle mansioni e qualifiche che richiedono qualità e competenza. Affrontare questo problema strutturale, che continua a “bruciare” intere generazioni di giovani, significa prendere di petto una volta per tutte i nodi della formazione professionale e dell’orientamento post-scolastico. Un decreto del 2015 ci aveva provato: prevedeva infatti un sistema informativo unitario delle politiche del lavoro e della formazione, nonché il fascicolo elettronico per ciascun lavoratore. Ma dava per scontato che sarebbe passata di lì a poco la riforma costituzionale, con il trasferimento allo Stato della competenza sul coordinamento della formazione. Competenza che invece, dopo la bocciatura referendaria, è rimasta esclusivamente in capo alle venti Regioni italiane. È caduto così l’obbligo di monitorare gli esiti occupazionali dei partecipanti ai corsi di formazione, che era ed è l’unico modo per valutare l’efficacia di quei corsi e quindi per verificare l’opportunità di finanziarli con soldi pubblici e comunitari. Il destino di quei corsi resta invece affidato –come ha recentemente spiegato il giuslavorista Pietro Ichino - alla “amplissima discrezionalità degli assessori regionali”. Di qui, l’autoreferenzialità del sistema della formazione, che finisce per essere interessato solo a garantire posti e risorse ai propri addetti. Su base volontaria. La bocciatura della riforma costituzionale e lo svuotamento del decreto del 2015, non impediscono, tuttavia, secondo lo stesso Ichino, che si possa tentare la stessa strada con le Regioni che intendono aderire su base volontaria. L’obiettivo è assicurare un “tasso di coerenza” tra formazione impartita e sbocchi occupazionali. In che modo? Creando un’anagrafe della formazione professionale e incrociando i dati di questa anagrafe con le comunicazioni obbligatorie dei contratti di lavoro fatte al ministero. Sapremmo così se ciascuno dei partecipanti ai corsi riesce poi a trovare lavoro, dopo quanto tempo, in quale settore e con quale mansione. E potremmo fare finalmente una selezione tra la formazione finta e quella vera, meritevole di essere finanziata perché in grado di coprire l’enorme fabbisogno di competenze del nostro Paese.
Il risultato è sotto gli occhi di tutte le indagini economico-sociali, a cominciare da quelle dell’Ocse, secondo cui in Italia il 38% degli adulti ha competenze numeriche e linguistiche decisamente basse. Anche chi alla fine riesce a lavorare, si trova spesso con competenze e titoli diversi da quelli che sarebbero necessari per quel tipo di occupazione. Il 35% dei lavoratori è in realtà impiegato in settori che nulla hanno a che fare con lo studio svolto in precedenza. Un’incongruenza che si manifesta non solo tra gli adulti ma anche e soprattutto tra i giovani: solo un diplomato su tre nelle scuole tecniche dopo due anni fa un lavoro coerente con il proprio diploma. E tutti i giovani, nessuno escluso, escono da scuola totalmente disinformati sulle opportunità e sulle richieste del mercato. Tanto da sbagliare qualsiasi previsione sul proprio futuro. Confronto impari. Un confronto impari clamoroso, rivelato da Eurobarometro, è quello tra le aspettative lavorative dei ragazzi svedesi e le attese dei nostri. In Svezia il 40% degli adolescenti prevede di fare un lavoro manuale, e alla fine lo fa esattamente nella stessa percentuale. In Italia, solo il 5% si aspetta di svolgere attività manuali, ma poi il 48% (quasi la metà) è costretto a farlo. E deve ritenersi anche piuttosto fortunato, visto che molti altri restano invece senza un impiego. Che la situazione continui ad essere preoccupante, lo testimonia non solo l’elevato tasso di disoccupazione giovanile, che, nonostante la recente riduzione, è il doppio di quello medio dell’Eurozona (30% contro 15). Ma lo dimostra soprattutto la crescente percentuale di posti di lavoro previsti dalle imprese che restano scoperti: il 21% nel 2017, il 26 nel 2018 e il 29 tra gennaio e novembre di quest’anno, con un picco del 31% negli ultimi due mesi. In termini assoluti, passiamo dai circa 860 mila posti “vacanti” del 2017 al milione e 200 mila del 2018, confermati e anzi leggermente aumentati nel 2019. Il fenomeno, come si diceva, raggiunge picchi clamorosi soprattutto nel Nord. Qui il tasso di disoccupazione, sia pure contenuto, lascia senza lavoro quasi 870 mila persone. A fronte di queste, ci sono 730 mila contratti di lavoro (tra quelli previsti) che alla fine non vengono firmati: 84 su 100. Questo succede sia perché non si presentano candidati sia perché le aziende si rendono conto che non c’è da parte loro la preparazione adeguata a svolgere quel tipo di lavoro. Ci sono poi casi in cui il numero dei posti scoperti supera addirittura quello dei disoccupati, come nella provincia di Vicenza (110 su 100). Nel Mezzogiorno, come si diceva, il fenomeno è molto meno pronunciato: solo diciotto contratti scoperti ogni cento disoccupati. E tuttavia in termini assoluti è tutt’altro che marginale: ci sono infatti 251 mila “job vacancies”, che potrebbero essere coperte se si trovassero le giuste competenze. Che il problema sia soprattutto quelle delle competenze, lo si comprende facilmente scorrendo i mestieri e le professioni più snobbate. In termini assoluti troviamo che a restare più scoperte sono le professioni qualificate nel commercio e nei servizi, a cominciare da cuochi, baristi e camerieri (273 mila). Seguono gli operai specializzati (262 mila) e le professioni tecniche (225 mila). In percentuale sui posti previsti, il record delle “vacancies” spetta invece agli insegnanti di lingue e di altre discipline, con il 65 per cento, seguiti dagli analisti e progettisti di software con il 60,7, dagli specialisti di saldatura elettrica con il 60 e dai tecnici programmatori con il 56%. Insomma, più alto è il grado di competenza richiesto, più bassa è la copertura dei rispettivi posti. E tuttavia, negli ultimi tempi, si sono creati buchi imprevisti anche nei mestieri meno qualificati, come facchini, operatori ecologici, e addetti alle consegne. Tra questi ultimi, in particolare, resta insoddisfatta quasi la metà delle richieste aziendali. Ma è evidente che la maggior parte dei vuoti lavorativi si concentra nelle mansioni e qualifiche che richiedono qualità e competenza. Affrontare questo problema strutturale, che continua a “bruciare” intere generazioni di giovani, significa prendere di petto una volta per tutte i nodi della formazione professionale e dell’orientamento post-scolastico. Un decreto del 2015 ci aveva provato: prevedeva infatti un sistema informativo unitario delle politiche del lavoro e della formazione, nonché il fascicolo elettronico per ciascun lavoratore. Ma dava per scontato che sarebbe passata di lì a poco la riforma costituzionale, con il trasferimento allo Stato della competenza sul coordinamento della formazione. Competenza che invece, dopo la bocciatura referendaria, è rimasta esclusivamente in capo alle venti Regioni italiane. È caduto così l’obbligo di monitorare gli esiti occupazionali dei partecipanti ai corsi di formazione, che era ed è l’unico modo per valutare l’efficacia di quei corsi e quindi per verificare l’opportunità di finanziarli con soldi pubblici e comunitari. Il destino di quei corsi resta invece affidato –come ha recentemente spiegato il giuslavorista Pietro Ichino - alla “amplissima discrezionalità degli assessori regionali”. Di qui, l’autoreferenzialità del sistema della formazione, che finisce per essere interessato solo a garantire posti e risorse ai propri addetti. Su base volontaria. La bocciatura della riforma costituzionale e lo svuotamento del decreto del 2015, non impediscono, tuttavia, secondo lo stesso Ichino, che si possa tentare la stessa strada con le Regioni che intendono aderire su base volontaria. L’obiettivo è assicurare un “tasso di coerenza” tra formazione impartita e sbocchi occupazionali. In che modo? Creando un’anagrafe della formazione professionale e incrociando i dati di questa anagrafe con le comunicazioni obbligatorie dei contratti di lavoro fatte al ministero. Sapremmo così se ciascuno dei partecipanti ai corsi riesce poi a trovare lavoro, dopo quanto tempo, in quale settore e con quale mansione. E potremmo fare finalmente una selezione tra la formazione finta e quella vera, meritevole di essere finanziata perché in grado di coprire l’enorme fabbisogno di competenze del nostro Paese.
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