"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 5 ottobre 2019

Cosedaleggere. 07 «Sono state le pre-existing conditions a determinare il voto americano».


Tratto da “In viaggio con Steinbeck nell'America di Trump” di Enrico Deaglio, pubblicato sul settimanale "il Venerdì" del quotidiano la Repubblica del 16 di novembre dell’anno 2018: L’idea era quella di vedere che cosa restava di quel grande libro, The Grapes of Wrath, tradotto in Italia con Furore; di verificare se quel capolavoro della letteratura di denuncia sociale era ancora attuale, nell’America buia di Trump come nella California ricca e democratica. Vedere che traccia hanno lasciato quel mezzo milione di pezzenti bianchi che negli anni Trenta, scacciati dall’Oklahoma a causa di una spaventosa nuvola di polvere – un mutamento climatico provocato dall’uomo – che aveva reso sterile la terra, e sfrattati dalle banche che requisirono le loro case e poi le rasero al suolo perché non pagavano il mutuo, migrarono fino alla terra promessa della California per scoprire la fame, la violenza, il razzismo.
Furono salvati da un presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, che stava dalla loro parte. E fu quello scrittore, in quel libro, a trattare quei pezzenti, per la prima volta, come esseri umani. Sentite Steinbeck, nella classica traduzione di Carlo Coardi (1940): “I latifondisti arrivavano sul posto, o più spesso i loro rappresentanti. Arrivavano in macchina, e saggiavano con le dita la terra arida, e qualche volta facevano eseguire dei sondaggi in profondità. I mezzadri, sulle aie assolate, stavano inquieti a seguire con gli occhi le vetture fare il giro degli appezzamenti. E finito il giro i latifondisti, o i loro rappresentanti, venivano sull’aia e senza scendere dalle vetture parlavano ai mezzadri attraverso il finestrino. Per qualche tempo i mezzadri restavano in piedi al fianco delle vetture, poi s’accoccolavano per terra, e cercavano dei fuscelli per disegnare figure nella polvere. Sulle soglie dei casolari le donne s’affacciavano a guardare, e dietro di loro i bambini: teste bionde, occhi dilatati, piedi nudi l’uno accavallato sull’altro, le dita nervosamente agitate dalla curiosità. Donne e bambini guardavano il capofamiglia conferire col latifondista. Immobili, silenziosi.Taluno dei rappresentanti si mostrava umano perché odiava la parte ch’era costretto a recitare, e taluno era irritato di dover mostrarsi disumano, e taluno si mostrava freddo e insensibile perché da tempo aveva imparato che il padrone, per essere tale, deve necessariamente mostrarsi insensibile. E nel loro intimo tutti quanti si riconoscevano, a malincuore, strumenti d’una forza inesorabile”. Quanto è cambiato da allora? Tutto e niente. I migranti, le spaventose siccità e  le terribili alluvioni, le banche che dieci anni fa portarono alla recessione proprio sui mutui delle case, sono parte del nostro desolato paesaggio umano. Alla Casa Bianca siede un uomo bullo e razzista che odia i poveri in generale, ma soprattutto quelli che vogliono arrivare nella “sua” America; in giro per il mondo crescono i suoi emuli. Quando Steinbeck scrisse il libro, si era  – ma non lo si sapeva – alla vigilia di una guerra mondiale. Anche oggi è così? Prima delle recenti elezioni di midterm, da molti definite quasi un’ultima spiaggia per la democrazia, il presidente Donald Trump si è scagliato contro la carovana di migranti centroamericani che sta attraversando – a piedi – il Messico (sono in tutto alcune migliaia di uomini, donne e bambini). Ha detto che preparano un’”invasione” del Grande Paese. Ha detto che tra loro ci sono terroristi, delinquenti, stupratori, ha dato ordine di schierare sul confine 15.000 (!) soldati – più di quanti ce ne siano oggi in Afghanistan – ma soprattutto ha chiamato la sua base ad andare a votare per difendersi dal nemico. Uno spot a sua firma è stato considerato talmente razzista che i grandi canali televisivi si sono rifiutati di trasmetterlo. Persino Fox Tv, che è praticamente sua.  Però, però... Gli analisti dicono che quelle immagini di uomini scamiciati, dalla pelle più scura della nostra, così poveri da fare paura, hanno portato molte persone alle urne a votare repubblicano. Sentite Steinbeck sui migranti degli Anni Trenta: “Si tratta di ricominciare. California, paese ricco, dove la frutta cresce da sé; si tratta di ricominciare. Ma alla nostra età? Un bimbo può ma noi? Io e te, vedi, siamo quel ch’è stato: non potremo mai essere quel che sarà. Siamo le scene che abbiam vissute: siamo questa terra, questa terra rossa: siamo gli anni d’inondazione e gli anni di polvere creata dal vento e gli anni di siccità. Noi non si può ricominciare. Lo strozzino s’è preso con la roba anche le nostre maledizioni, ma l’amarezza ce l’ha lasciata dentro, l’amarezza che continuerà a roderci per tutta la vita. Dovunque si vada, in California o in inferno o in paradiso, ciascuno di noi è un tamburmaggiore alla testa d’un corteo di torti e di ingiustizie. E tutti questi cortei un giorno s’incontreranno, s’uniranno, e dalla loro unione nascerà il terrore”. Me ne stavo alla stazione MacArthur della metropolitana di Oakland, dove avevo appuntamento con amici per andare a dare una mano nell’ultima domenica prima delle elezioni. Mancavano due giorni, e tutti parlavano della paura dei migranti. Saremmo andati a fare il “porta a porta” per il Partito democratico nel distretto n.10, intorno alla città di Modesto, antica zona agricola e vecchio feudo repubblicano, dove però un giovane democratico aveva sfidato il deputato in carica.  Aspettando, seduto su una panchina, me ne stavo a leggere dei brani di Furore sull’iPhone, quando un’ombra mi si fa davanti, mi dà uno schiaffo sulle mani e l’iPhone rotola per terra. Alzo gli occhi, è un ragazzo nero con la felpa, che se ne va tranquillamente per i fatti suoi. Non ha detto niente, non mi ha nemmeno guardato, non ha fatto uno scippo, né uno sfregio. Ha visto solo un vecchio bianco con il suo stupido telefonino e glielo ha fatto cadere per terra. Lo raccolgo, non si è nemmeno rotto. Forse ha ragione il ragazzo, passiamo troppo tempo con questi aggeggi. Millennials. Chissà cosa pensano della vita, chissà se votano. Il Decimo Distretto è a cento miglia da Oakland, nella Central Valley che fornisce più della metà delle verdure che gli americani consumano. Era la terra promessa per gli Okies, i pezzenti raccontati da Steinbeck. Quando arrivarono qui, un’ottantina di anni fa, i locali – guidati dalla potente Associazione degli agricoltori – li presero a bastonate e fucilate. Erano troppi. Non piacevano neanche ai sindacati, perché lavoravano per poco e niente. La famiglia di Tom Joad era arrivata, stremata, a bordo di un furgone Hudson Super Six, che aveva attraversato 1550 miglia lungo la Route 66. Era uno dei veicoli più popolari degli Anni Venti, Tom Joad l’aveva comprato dodici anni prima, quando la campagna ancora rendeva. Poi venne la “nuvola di polvere” che galleggiava sul cielo e si poteva vedere in tutto il Sud (il signor Albert Paxton, gentiluomo del Sud novantenne e mio suocero, me la descrisse come l’evento più incredibile della sua vita: «Copriva il cielo come un lenzuolo funebre, non andava mai via, per mesi e mesi. La terra era buia e morta»). Per allontanare la morte, la famiglia Joad partì, con l’automobile. Ora quell’automobile campeggia nel Museo di storia moderna di Oakland, è riprodotta nelle gigantografie dei locali alla moda; modelli simili sono in vendita all’asta sulla base di 50 mila dollari. In Furore, intorno a quella macchina e ai suoi guai meccanici sono raccontate le più toccanti tragedie sociali del Novecento. È diventata un’icona, proprio ora che la California sta dando l’addio al motore a scoppio e ha sposato l’elettricità. Oggi i migranti non arrivano più in macchina, in America; e nemmeno sui vagoni dei treni merci. Arrivano a piedi, morsicati dai serpenti e controllati dagli ultimi ritrovati dell’intelligenza artificiale; arrestati e separati, con i bambini messi in enormi campi di concentramento. E se Trump vincerà, moriranno mitragliati mentre cercheranno di scalare il suo Muro? Nella Fortezza Europa, invece, muoiono a migliaia sulle barche e sui gommoni. Sì, i tempi di Furore erano più gentili. Forse anche più umani, se bastò un libro a risvegliare le coscienze degli indifferenti. Quando arriviamo al Decimo Distretto, alla sede del comitato elettorale del candidato Democratico Josh Harder, ci accoglie una vera sorpresa. Siamo più di mille, venuti a dare una mano per eleggere questo simpatico ragazzo, la cui famiglia da cinque generazioni coltiva le pesche. Lui ha studiato economia a Stanford con una borsa di studio del Rotary Club, ed è tornato al paese per dire che tutti dovrebbero avere l’assistenza sanitaria gratuita, che la vendita delle armi dovrebbe essere controllata (ma lui stesso ci tiene a dire che porta i suoi figli al poligono, perché è giusto che imparino come si tiene in mano un fucile) e l’acqua per i campi dovrebbe essere distribuita equamente. Il suo avversario, il repubblicano Jeff Denham, un vecchio arnese conservatore, ha un’azienda di tubi di plastica per l’irrigazione, trova che il cibo biologico sia roba da fighetti di città, ed è abituato a regnare sul collegio senza oppositori; Jeff chiama Josh «quel  ragazzo di San Francisco che non ha i nostri valori», ma lo teme. Ci hanno dato un’app e l’abbiamo messa sull’iPhone. Ognuno ha un centinaio di porte cui bussare. Scrive il risultato della visita (“ha già votato”, “non vota”, “ha bisogno di aiuto per compilare la scheda...”). La zona assegnata, in mezzo a viali alberati, rotonde e piazzole con roseti, è di case tutte uguali, solide e ben fatte, a un piano, con tre camere da letto, garage e giardinetto. Costano 250 mila dollari, molti dei proprietari sono pendolari verso la Silicon Valley o la Bay Area, dove la stessa casa costerebbe un milione e mezzo. C’è un po’ di ansia, in chi viene alla porta. Con il cane tenuto stretto. Con la vestaglia. Con il pigiama. Ci sono molti nomi latini, e questi votano per Josh (il 40 per cento della popolazione di Modesto è latina). Ci sono quelli che non votano proprio, un ragazzo nero mi ha detto: «Io non mi siedo a quella tavola, non mi vogliono». Ci sono quelli che temono sia la polizia. I pronipoti degli Okies, che hanno messo su carne rispetto al loro prototipo – il fantastico Henry Fonda giovane del film – trafficano intorno ai loro pickup e controllano i carburatori. Gli assiri – sì, qui in zona ci sono diciottomila assiri, proprio quelli del Tigri e dell’Eufrate – sono tornati dalla messa. Vennero qui a ondate, scacciati da genocidi, e poi da guerre, e poi da Saddam, e poi da Khomeini. Hanno le loro diocesi, i loro vescovi, le loro barbe da veri hipster, i fianchi stretti e l’alta statura dei guerrieri dei bassorilievi di Persepoli. Votano per il partito democratico. Si narra che all’inizio non erano ben visti, le banche non gli volevano dare credito. Poi due ragazze svedesi si innamorarono di due ragazzi assiri, e il ghiaccio si ruppe. La California, alla fine, ha accolto tutti. «Todos americanos», come amava dire Obama, ai suoi bei tempi. Oggi Trump dice «Bad hombres», ne vorrebbe espellere dieci milioni. La California è democratica, è ricchissima, ma le sue città traboccano di homeless. Tende, accampamenti sotto i ponti, giacigli. Dicono che sono 130 mila, dominano il centro di San Francisco e interi quartieri di Los Angeles, sono lo scandalo moderno. Il nuovo governatore della California – Gavin Newsom, trionfalmente eletto, bello come un attore del cinema, di sinistra come più non si può – ha promesso di costruire tre milioni e mezzo di appartamenti in otto anni. Ha promesso che nessun clandestino sarà mai cacciato. Ha promesso che la California darà a tutti un’assistenza sanitaria. E a tutti i bambini una scuola. E a volte penso: e perché non dovrebbe farcela? E perché deve farcela invece quel vecchio immobiliarista di New York esperto in fallimenti e riciclaggi, incapace di trattenere il suo odio per i poveri? Le ultime pagine di Furore sono eccezionali. L’acqua dell’inondazione sale nel tugurio, nessuno ha da mangiare né i centesimi per comprare un po’ di latte. Il bambino di Rosa è nato morto, il vecchio nonno sta morendo d’inedia, e l’unico che lo può tenere in vita è il latte nelle mammelle di Rosa. Che si china sulla bocca del vecchio, lo nutre. “And she smiled mysteriously” sono le ultime parole del libro. Leggo, a commento delle elezioni, che sono state le pre-existing conditions a determinare il voto americano. Cosa sono? Le condizioni (di salute) preesistenti sono le malattie che hai accumulato nella vita, quando stipuli l’assicurazione sanitaria. Più malattie hai avuto, più paghi il premio di assicurazione, perché le assicurazioni, così come le banche, vogliono garanzie che tenerti in vita non gli costi troppo. Poco è cambiato dai tempi di Tom Joad. I repubblicani stanno dalla parte delle assicurazioni, i democratici vogliono che l’assistenza sanitaria sia uguale per tutti, gratuita per i poveri ed estesa agli immigrati senza documenti. L’attualità di Furore nell’America di oggi sta tutta qua: su quanto costa vivere, su come si muore. Ma la California, almeno lei, misteriosamente sorride.

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