Tratto da “Crescita,
ma i salari arrancano ecco chi paga il conto della crisi” di Marco Ruffolo,
pubblicato sul settimanale “A&F” del quotidiano la Repubblica del 23 di
ottobre dell’anno 2017: La ripresa gonfia i portafogli delle
famiglie? O li lascia malinconicamente leggeri? In che misura tutti quei “più”
che leggiamo davanti a grandezze come Pil, produzione, fatturato, occupazione,
si stanno effettivamente traducendo in buste paga più pesanti, in redditi meno
magri? Insomma, quando la famiglia italiana media si fa i conti in tasca, può
dire di essersi lasciata alle spalle la più grave recessione che abbia mai
conosciuto dal dopoguerra ad oggi? Se lasciarsela alle spalle significa tornare
ai livelli pre-crisi, a quelli di dieci anni fa, la risposta è certamente
negativa. Il potere d’acquisto delle famiglie, dice l’Istat, si è ridotto
dell’8 per cento. Dietro questo calo, tuttavia, scopriamo andamenti molto
diversi tra loro: un vero e proprio tonfo per il reddito da lavoro autonomo
(meno 15%), e una risicata tenuta per salari e stipendi (meno 1,1). Ma anche
quest’ultimo dato, come vedremo, nasconde tragitti assai differenti, persino
opposti. Al netto dell’inflazione, ci dice l’Istat, la retribuzione media dei
dipendenti è scesa dai 29.738 euro del 2007 ai 29.419 del 2016. E le cose non
sono cambiate un gran che quest’anno. In sostanza, rispetto a dieci anni fa, il
dipendente medio italiano con la sua paga si trova a dover rinunciare a beni e
servizi per 319 euro. Dunque, prima conclusione: nei tre anni di crescita del
Pil non siamo stati capaci di riprendere la corsa interrotta un decennio fa. Come
dieci anni fa. Nel migliore dei casi, siamo tornati ai blocchi di partenza. E
non è poco, visto il crollo subito da tutte le grandezze economiche durante la
crisi. Ora però ci si chiede se vi siano margini per far ripartire la corsa
delle retribuzioni. Ad auspicarlo questa volta sono le stesse autorità
monetarie che in passato predicavano la moderazione salariale: la Banca
d’Italia di Ignazio Visco, e soprattutto la Bce di Mario Draghi. Visco e Draghi
sanno che il fenomeno dei bassi salari non è solo italiano. “In molte economie
avanzate, a cominciare dall’Europa – si legge nel nuovo World Economic Outlook del
Fondo monetario internazionale – la crescita dei salari nominali resta
marcatamente sotto i livelli precedenti la grande recessione del 2008-2009”. E
questo frena sia l’inflazione (che nell’eurozona non riesce ad avvicinarsi
all’obiettivo del 2%) sia la ripresa, a causa dell’evidente debolezza dei
consumi. Ma quali ostacoli si frappongono in Italia a una crescita dei redditi
familiari? Per capirlo bisogna fare un salto indietro. Tra i segni più evidenti
lasciati dalla lunga crisi economica, c’è una frattura profonda che ha diviso
il mondo del lavoro dipendente. Da una parte il ciclone della crisi si è
abbattuto sull’industria manifatturiera, che ha conosciuto una delle più
massicce perdite di manodopera. Dall’altra è cresciuto un terziario poco produttivo
e di bassa qualità, che ha assorbito una parte di quella manodopera e che
continua tuttora a creare nuovi posti, anche se poveri. I
"sopravvissuti". Anni terribili quelli tra il 2008 e il 2014 per i
lavoratori dell’industria e delle costruzioni: 900 mila occupati in meno, dice
l’Istat, con una perdita del 13%, che arriva al 20% se il calcolo si fa sui
dipendenti tra il 2007 e il 2016. Eppure qui, nonostante la crisi, salari e
stipendi reggono e anzi aumentano. La contrattazione nazionale continua a funzionare.
E così nell’ultimo decennio le retribuzioni nominali nell’industria salgono del
24%, e quelle reali (al netto dell’inflazione) dell’8,5, in controtendenza
rispetto all’andamento nazionale. Insomma, chi è riuscito a restare a bordo,
chi ha conservato a fatica il posto in fabbrica e nei cantieri ha visto il
proprio potere di acquisto aumentare, e non di poco. A partire dal 2014,
tuttavia, le industrie sopravvissute, e alleggerite dalla grande emorragia di
posti, hanno cominciato a contenere l’aumento dei salari per reggere alla
concorrenza estera. Certo, teoricamente avrebbero potuto puntare sulla
produttività invece che tenere bassi gli stipendi, ma uscivano da una
recessione che aveva impedito loro di investire, di sostituire macchinari
obsoleti. E la moderazione salariale ai loro occhi rappresentava l’unica via
d’uscita per restare sull’unico mercato che tirava: quello estero. La povertà
del terziario. Alberghi e ristoranti, servizi alle famiglie e alle imprese: è
stato soprattutto questo terziario a fare in qualche misura da ammortizzatore
della grande emorragia di lavoratori. Fino al 2014, almeno una piccola parte di
quei 900 mila occupati rimasti senza lavoro nell’industria e nelle costruzioni,
lo ritrova proprio in quei servizi: poco più di 100 mila. Poi, negli anni
successivi, con la ripresa economica, le assunzioni nel terziario accelerano a
un ritmo del tutto imprevisto: un altro mezzo milione entro il 2016. Il
risultato è che da qualche mese, soprattutto grazie ai servizi, gli occupati
complessivi in Italia sono tornati per la prima volta ai livelli pre-crisi,
ossia sopra i 23 milioni. In questo forte recupero, giocano un ruolo
fondamentale gli sgravi contributivi alle assunzioni stabili, utilizzati dalle
imprese nel 2015 e 2016. È proprio grazie ad essi se dalla fine della crisi ad
oggi più della metà delle assunzioni è stata a tempo indeterminato. C’è però un
rovescio della medaglia in questa ondata di ritorno del lavoro: la maggior
parte dei nuovi impieghi è di bassa qualità e mal pagata. Tra il 2007 e il
2016, ci dice l’ultimo rapporto annuale dell’Istat, il già basso stipendio
reale dei dipendenti di alberghi e ristoranti (25.046 euro lordi) si è ridotto
a 24.402 euro: il 2,6% in meno. E cali anche maggiori hanno riguardano il
potere di acquisto di chi lavora nella sanità e nell’assistenza (meno 8%),
nell’istruzione (meno 10,4), nel pubblico impiego (meno 7,9%), nelle attività
finanziarie e assicurative (meno 9,5), tra facchini, imballatori e addetti alle
consegne (meno 4,5). Si tratta proprio di quei mestieri che hanno visto
crescere i posti di lavoro. Insomma, più occupazione povera in cambio di minori
salari. Come testimonia anche una recente relazione della Commissione Lavoro
del Senato. Gli effetti finali Il risultato di questa sconvolgente
ricomposizione del lavoro, ce lo dà di nuovo l’Istat: durante gli anni della
crisi, fino al 2014, l’occupazione a basso reddito è cresciuta dell’8%, quella
di media retribuzione è crollata del 12%, mentre quella a reddito elevato
(dirigenti, imprenditori e professionisti) è rimasta stabile.
Il problema è che anche con la ripresa, il grosso degli aumenti di posti ha riguardato lavori mal pagati. Ovviamente, imprese del terziario poco produttive che assumono lavoratori con bassi livelli di competenze e di specializzazione, tendono a firmare con loro contratti di lavoro per lo più instabili. O in alternativa a sfruttare il lavoro di finte partite Iva, lasciandole senza garanzie assicurative. Certo, gli sgravi contributivi e il Jobs Act hanno avuto l’effetto di stabilizzare molti di quei contratti e di crearne di nuovi. Ma questo non ha impedito che crescesse anche il numero dei contratti a termine e del part time, soprattutto involontario, raddoppiato in dieci anni. E proprio la precarietà del lavoro viene indicata dal Fondo monetario come il principale ostacolo – non solo in Italia ma in molte altre economie avanzate – alla crescita dei salari. Ostacolo ingigantito per altro dalla globalizzazione del lavoro. Il caso produttività. Tiriamo ora le fila di questo doppio percorso dei lavoratori italiani. Da una parte abbiamo un’industria manifatturiera che per restare sui mercati esteri, non potendo più contare sulla svalutazione monetaria, contiene i propri salari. Dall’altra, abbiamo un terziario povero che giocando sulla precarietà e sul serbatoio ancora forte di disoccupazione, offre retribuzioni ancora più basse. È ovvio che in queste condizioni, i margini per appesantire le buste paga delle famiglie siano quasi nulli. A meno che in entrambi i settori non risalga la produttività, stagnante in Italia da almeno un quarto di secolo. Impresa titanica, che dipende tra l’altro da fattori esterni alle imprese (burocrazia, fisco, infrastrutture), dalla dimensione e dall’organizzazione delle aziende, dal loro tasso innovativo e tecnologico e dalle competenze dei lavoratori. Il tutto richiede forti investimenti privati e pubblici. I primi hanno cominciato a vedersi con il pacchetto di sgravi di industria 4.0. I secondi ancora no. E questo è un serio problema, non solo perché non si fanno infrastrutture, ma perché per convincere le imprese a investire non basta ridurne i costi, bisogna anche assicurare che ci sarà qualcuno che comprerà i loro prodotti, una volta fatti gli investimenti. Insomma ci vogliono i consumi delle famiglie, i quali, visti gli attuali salari, difficilmente possono ripartire senza opportuni investimenti pubblici e senza una detassazione dell’Irpef, oggi fuori discussione.
Il problema è che anche con la ripresa, il grosso degli aumenti di posti ha riguardato lavori mal pagati. Ovviamente, imprese del terziario poco produttive che assumono lavoratori con bassi livelli di competenze e di specializzazione, tendono a firmare con loro contratti di lavoro per lo più instabili. O in alternativa a sfruttare il lavoro di finte partite Iva, lasciandole senza garanzie assicurative. Certo, gli sgravi contributivi e il Jobs Act hanno avuto l’effetto di stabilizzare molti di quei contratti e di crearne di nuovi. Ma questo non ha impedito che crescesse anche il numero dei contratti a termine e del part time, soprattutto involontario, raddoppiato in dieci anni. E proprio la precarietà del lavoro viene indicata dal Fondo monetario come il principale ostacolo – non solo in Italia ma in molte altre economie avanzate – alla crescita dei salari. Ostacolo ingigantito per altro dalla globalizzazione del lavoro. Il caso produttività. Tiriamo ora le fila di questo doppio percorso dei lavoratori italiani. Da una parte abbiamo un’industria manifatturiera che per restare sui mercati esteri, non potendo più contare sulla svalutazione monetaria, contiene i propri salari. Dall’altra, abbiamo un terziario povero che giocando sulla precarietà e sul serbatoio ancora forte di disoccupazione, offre retribuzioni ancora più basse. È ovvio che in queste condizioni, i margini per appesantire le buste paga delle famiglie siano quasi nulli. A meno che in entrambi i settori non risalga la produttività, stagnante in Italia da almeno un quarto di secolo. Impresa titanica, che dipende tra l’altro da fattori esterni alle imprese (burocrazia, fisco, infrastrutture), dalla dimensione e dall’organizzazione delle aziende, dal loro tasso innovativo e tecnologico e dalle competenze dei lavoratori. Il tutto richiede forti investimenti privati e pubblici. I primi hanno cominciato a vedersi con il pacchetto di sgravi di industria 4.0. I secondi ancora no. E questo è un serio problema, non solo perché non si fanno infrastrutture, ma perché per convincere le imprese a investire non basta ridurne i costi, bisogna anche assicurare che ci sarà qualcuno che comprerà i loro prodotti, una volta fatti gli investimenti. Insomma ci vogliono i consumi delle famiglie, i quali, visti gli attuali salari, difficilmente possono ripartire senza opportuni investimenti pubblici e senza una detassazione dell’Irpef, oggi fuori discussione.
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