La “memoria” di seguito riportata
risale al 24 di settembre dell’anno 2008. Non si erano materializzati ancora sulla
scena politica del bel paese né il governo della “rottamazione” né tantomeno il
governo del “cambiamento”. La “memoria” principia con un brevissimo “incipit”
tratto dal quotidiano l’Unità del 12 di agosto di quell’anno, poiché il
glorioso quotidiano che fu creatura di Antonio Gramsci era solito riportare in
bella evidenza gli “incipit” interessanti – come per tantissime altre citazioni
– nella cosiddetta “striscia rossa”: Neri
Marcorè sulla “caccia al nero” nelle spiagge di Pedaso e Porto San Giorgio:
«È
come se l’intolleranza si fosse istituzionalizzata, chiunque si sente superiore
al senegalese, al somalo, al pakistano, e persino all’italiano che si ribella a
tutto ciò. Certi gesti indefinibili compiuti da ministri della Repubblica, che
non vengono deprecati, puniti, autorizzano i cittadini a comportarsi allo
stesso modo. Quando i comportamenti sono negativi i risultati sono
l’innalzamento della brutalità, della barbarie». A distanza di dieci
anni abbiamo rivissuto quanto l’attore denunciava in quel settembre 2008. Cosa concluderne?
Che in fondo quella “brava gente” degli italiani quel “vizietto” lì lo possiede
e ne fa uso e consumo nelle epoche storico-politiche più impensabili. In fondo
quel “capitano” lì conosce sin troppo bene l’indole di quella “brava gente”. Che
a tutt’oggi gli riconosce, con sonanti consensi, d’essere da quel “capitano”
ben rappresentati. Trascrivo il resto della “memoria”: Riporto di seguito l’intervista che Maria Serena Palieri ha raccolto
dal sociologo inglese Anthony Giddens e che è stata pubblicata sul quotidiano
l’Unità. L’intervista ha per titolo “Il pericolo siamo noi” e rappresenta una
riflessione a tutto campo da parte dell’illustre studioso. Con essa si
sottolinea come il ricorso alla paura collettiva sia stato uno strumento valido
in tutte le epoche per calamitare il consenso popolare, ed in pari tempo essa
ha rappresentato sempre e rappresenta tuttora uno specchietto per le allodole
al fine di deviare l’attenzione e la consapevolezza sociale da problemi molto
più pressanti e gravidi di tragiche conseguenze. Lo studioso inglese punta la
sua attenzione soprattutto sui drammatici problemi ecologici che sono giunti
oramai ad un punto di non ritorno, almeno per quanto riguarda lo sfruttamento
estremo delle risorse energetiche fossili. La sua onestà intellettuale lo
spinge ad accennare alle contrapposte scuole di pensiero nell’ambito delle infinite
discussioni sulle prospettive del pianeta Terra; e sembra non voler a spada
tratta schierarsi con uno dei due campi contrapposti, ricordando quanto sia
difficile definire e classificare la pericolosità o meno di quelle paure che
opportunisticamente vengono agitate dai potenti del mondo.
È netto il senso della paura che viene brandito nel bel paese ed attorno al quale si è costruito elettoralmente, in un momento di silenzio della politica alta, un consenso vastissimo; la paura del diverso, dello straniero, del diverso nella pelle, del diverso nella religione. Paura di colui il quale, nel secolo ventunesimo, sfida la sorte per sottrarsi ad un destino di fame e deprivazioni, o meglio ancora, di persecuzioni politiche o razziali raggiungendo con ogni mezzo le spiagge del paese Italia. Una sponda di speranza per tanti, spesso la dimora ultima ed eterna per i più sventurati per fame. M.S.P. La paura, dicono alcuni, è un’arma da sempre amata dal potere. Lei, sir Giddens, crede all’uso strumentale della paura da parte della politica? A.G. Certo non siamo la prima generazione a vivere in un clima di paura e ansia. Eric Fromm, il grande psicologo, parlava di un’età dell’ansia negli anni Sessanta. Legava questo concetto a una paura della libertà, che conduce la gente ad affidarsi a chi incarna l’autorità e, in circostanze estreme, a seguire i demagoghi. Non c’è dubbio che i leaders populisti nel corso della storia abbiano sfruttato il meccanismo dell’ansia così acutamente analizzato da Fromm. Molti leader di questo tipo, certo non tutti, erano di estrema destra. Alcuni leader di sinistra, come Stalin o Mao, non hanno esitato da parte loro a sfruttare le paure della gente se ciò li aiutava a consolidare il potere.
È netto il senso della paura che viene brandito nel bel paese ed attorno al quale si è costruito elettoralmente, in un momento di silenzio della politica alta, un consenso vastissimo; la paura del diverso, dello straniero, del diverso nella pelle, del diverso nella religione. Paura di colui il quale, nel secolo ventunesimo, sfida la sorte per sottrarsi ad un destino di fame e deprivazioni, o meglio ancora, di persecuzioni politiche o razziali raggiungendo con ogni mezzo le spiagge del paese Italia. Una sponda di speranza per tanti, spesso la dimora ultima ed eterna per i più sventurati per fame. M.S.P. La paura, dicono alcuni, è un’arma da sempre amata dal potere. Lei, sir Giddens, crede all’uso strumentale della paura da parte della politica? A.G. Certo non siamo la prima generazione a vivere in un clima di paura e ansia. Eric Fromm, il grande psicologo, parlava di un’età dell’ansia negli anni Sessanta. Legava questo concetto a una paura della libertà, che conduce la gente ad affidarsi a chi incarna l’autorità e, in circostanze estreme, a seguire i demagoghi. Non c’è dubbio che i leaders populisti nel corso della storia abbiano sfruttato il meccanismo dell’ansia così acutamente analizzato da Fromm. Molti leader di questo tipo, certo non tutti, erano di estrema destra. Alcuni leader di sinistra, come Stalin o Mao, non hanno esitato da parte loro a sfruttare le paure della gente se ciò li aiutava a consolidare il potere.
M.S.P. Durante la Guerra Fredda
l’equilibrio del pianeta era basato sulla paura della bomba atomica. Oggi,
secondo lei, c’è in giro più o meno paura che negli anni 50 e 60? A.G. Le
nostre ansie - basate su motivi razionali o immaginari - sono abbastanza
diverse da quelle diffuse mezzo secolo fa. Il confronto nucleare tra le due
superpotenze era all’epoca, per la gente, la fonte maggiore d’ansia. In
Occidente per molti l’Urss era il nemico; e per molti cittadini sovietici (e
anche per alcuni gruppi in Occidente) lo erano gli Stati Uniti. Le nostre ansie,
al confronto, sono più diversificate. Le ragioni sono svariate. Una è che dal
1989 abbiamo perso la possibilità di immaginare come il mondo potrebbe essere
diverso. La fine della storia sembra ci abbia lasciato con tutte le
preoccupazioni intatte, senza offrirci la speranza di un’alternativa. La
seconda ragione è che ora viviamo in un universo di rischi futuri, piuttosto
che in un mondo dove possiamo confrontarci direttamente coi nostri nemici.
Prenda il cambiamento climatico. Secondo ogni calcolo è una delle sfide più
grandi che l’umanità abbia mai affrontato. Ci sono ancora alcuni scettici,
tuttora convinti che il surriscaldamento globale non sia in corso, oppure che
esso non venga prodotto dalle attività umane. Sull’altra sponda, però, ci sono
scienziati che dicono che esso è più pericoloso, e le sue conseguenze più
prossime, di quanto siamo usi pensare. È un’idea che incute paura, ma nello
stesso tempo è anche astratta. I cittadini captano l’ansia, ma è difficile
collegare possibili future catastrofi con la banalità della vita quotidiana.
Quindi molte persone, semplicemente, ripongono la questione nel retrobottega
della mente, dove essa si apposta nelle vesti di un’ansia generalizzata.
M.S.P. Apocalittici e integrati:
la vecchia coppia concettuale di Umberto Eco si riaffaccia. Lei per quale idea
propende? A.G. Ci sono, appunto, due scuole di pensiero quanto ai rischi
attuali. Alcuni sostengono che il mondo che abbiamo creato è così pericoloso
che la nostra civiltà può non essere in grado di fronteggiarlo. Martin Rees,
eminente scienziato inglese, ha scritto un libro intitolato ‘Il nostro ultimo
secolo’. È una sveglia per i pericoli che abbiamo di fronte. Nel suo pensiero
essi vanno dal terrorismo internazionale al cambiamento di clima alle pandemie
causate da nuovi virus che possiamo aver sguinzagliato col nostro intervento
sulla natura. Sostiene, per esempio, che quasi certamente nei prossimi
vent’anni ci sarà un attacco terroristico a una città, con un milione di
persone uccise o ferite, probabilmente grazie all’impiego di qualche tipo di
arma nucleare. Altri però dicono che il mondo ora è salvo e più sicuro di
quanto sia mai stato. Le guerre diminuiscono, la gente in media vive di più e
molti paesi stanno uscendo dalla povertà e incamminandosi verso la prosperità.
Per questi ultimi i rischi posti, per esempio, dal terrorismo globale sono
stati esagerati, George W. Bush ha usato la minaccia del terrorismo per
perseguire un programma che legittimasse l’intervento armato in Iraq e
Afghanistan. Sono gli stessi che criticano i media perché suonano la grancassa
dei rischi e li dipingono molto più pericolosi di quanto siano realmente. Chi
ha ragione? Non possiamo saperlo davvero, perché questa è la natura stessa del
rischio. Se la minaccia del terrorismo recede, chiunque potrà dire che il
rischio era semplicemente gonfiato da leaders senza scrupoli. Io,
personalmente, penso che ci sia molta verità in quest’idea, sebbene ci sia una
possibilità remota che Rees abbia ragione, e quindi dovremmo continuare a
mantenere la vigilanza. Gli ottimisti, tuttavia, includono tra i rischi
esagerati il cambiamento di clima e questo mi sembra sbagliato. Il problema è
opposto: i cittadini hanno bisogno di essere persuasi di quanto sia pericoloso
l’incontrollato surriscaldamento globale. Inoltre, controllarlo non è un
compito che possa essere rimandato a più tardi. Le emissioni di gas serra
restano secoli nell’aria.
M.S.P. Un geniale comico
italiano, Antonio Albanese, debutta in questi giorni in tv col surreale
personaggio di «ministro della paura». La politica vera piuttosto cosa dovrebbe
fare? A.G. Tentare di guidare il pubblico tra le varie situazioni di rischio
esistenti e aiutare a distinguere i pericoli dubbi da quelli veri. I governi
hanno la responsabilità specifica di promuovere efficaci politiche per il
cambiamento climatico e convincere i cittadini della necessità di mutare il
comportamento quotidiano. In molti paesi c’è da percorrere ancora una lunga
strada e c’è troppa politica dell’apparenza: pii programmi non seguiti da
azioni concrete. Viviamo in una civiltà non sostenibile, non solo per il
cambiamento climatico, ma perché dipendiamo da fonti energetiche che presto o
tardi si esauriranno. I giacimenti di petrolio e gas, nel mondo, hanno
impiegato milioni di anni per formarsi, ma in soli due secoli noi li avremo
prosciugati. Questi sono pericoli davvero reali, se non agiamo subito.
Carissimo Aldo,la lettura di questo meraviglioso post mi ha indotto a riflettere sulla concezione e sul pensiero di Erich Fromm. Egli afferma che l'uomo moderno è estraniato dal mondo che egli stesso ha creato, alienato dagli altri uomini, dalle cose che usa e consuma, dal suo governo, da se stesso. "L'uomo crede di volere la libertà. In realtà ne ha una grande paura. Perché? Perché la libertà lo obbliga a prendere delle decisioni e le decisioni comportano rischi". L'uomo, quindi, scappa dalla libertà perché si sente insicuro. E ciò avviene perché non è capace di sviluppare un pensiero critico che gli consenta di far parte del sistema senza subirlo. L'alienazione caratterizza i rapporti dell'uomo con il lavoro, con gli altri uomini, con le cose, con se stesso. Solo l'uomo che si riconosce nel modello esistenziale dell'essere, e non in quello dell'avere, non è più alienato, è protagonista della propria vita e stabilisce rapporti di pace e di solidarietà con gli altri. Grazie e buona continuazione. Agnese A.
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