Si conclude così il “pezzo” di Roberto Saviano – che
ha per titolo “Viaggio nel web oscuro”
– scelto, proposto e pubblicato sul quotidiano la Repubblica di ieri 7 di
ottobre: «Come ricorda il formatore Andrew Lewis, "se non state pagando
qualcosa non siete un cliente: siete il prodotto che stanno vendendo"».
È questa la grande truffa del web, ovvero presentarsi come “indifferente” al danaro ma speculare sulla dabbenaggine del suo foltissimo, impreparatissimo pubblico. Un pubblico con pochissima impronta identitaria – se non nelle modalità esasperate descritte nel “pezzo” di Roberto Saviano che di seguito si riporta - che della truffaldina proposta del web non ha sentore alcuno. Leggevo sui quotidiani di qualche giorno addietro che importantissime “griffe” della moda per la modica spesa di € 30 offrono la opportunità di poter fare indossare alla propria immagine, destinata su Instagram, i capi più eleganti e prestigiosi di dei più famosi creatori di moda. È un mondo spaventevole, l’invadenza del quale sfugge ai più condizionandone gli infiniti loro aspetti del vivere. E non potrebbe essere altrimenti. Ha scritto Paolo Boccardelli - direttore della Luiss Business School - in “Nelle mani di un algoritmo che decide al posto nostro” pubblicato sul settimanale A&F del 2 di settembre 2019: Viviamo nell’era dei big data e dei social network: ogni minuto vengono effettuate 4,5 milioni di ricerche su Google, visti altrettanti video su Youtube, postate 280mila storie su Instagram. Ma questa massa di dati, cui ciascuno di noi contribuisce più o meno volontariamente quando cerca un’informazione o pubblica una foto che viene elaborata da intelligenze artificiali sempre più potenti, costituisce progresso, inteso come crescita del capitale umano e della cultura digitale? Aumenta il pluralismo dell’informazione e, in definitiva, potenzia la nostra capacità di scegliere consapevolmente? Questa domanda costituisce un nodo cruciale per la società contemporanea. (…). Oggi a dominare sono le piattaforme: tuttavia, più le usiamo più “nutriamo” gli algoritmi di machine learning al loro interno con dati su nostre abitudini, desideri, emozioni e comportamenti. Conoscendoci sempre meglio, gli algoritmi selezionano per noi un ventaglio sempre più ristretto di informazioni, riducendo sì lo sforzo richiesto per soddisfare i nostri bisogni, ma anche la capacità di analisi. Come dimostrato da un esperimento della World Wide Web Foundation, un solo like dato o non dato a un post fa divergere i feed di account sino a quel momento “gemelli”. Questo fenomeno, definito da Eli Pariser (e da allora noto come) filter bubble, è responsabile delle scelte che l’algoritmo effettua per noi ed è, purtroppo, alla base della dieta informativa forzata di una fetta crescente della società. Sono gli algoritmi a effettuare il prezioso lavoro “editoriale” di selezione delle informazioni per noi rilevanti. A questo si aggiungano gli specialisti in grado di sfruttare gli algoritmi per diffondere presso specifiche comunità di utenti una visione parziale di un fenomeno e di una realtà, enfatizzandone alcuni aspetti a scapito di altri, o addirittura una realtà falsa. Professionisti che, in casi estremi e distorti, disseminando i social con troll e utenti falsi, riescono a influenzare il dibattito e l’agenda della discussione, se non addirittura il consenso rispetto a certe posizioni. Non mancano leader politici che con grande disinvoltura comunicano a colpi di tweet, post e storie, né esempi di consultazioni democratiche in cui gli strumenti digitali hanno contribuito a generare consenso attorno a tesi o a specifici candidati. Il tema è rilevante anche oggi in Italia: la Democrazia Parlamentare sancita dalla Costituzione si confronta con quella diretta evocata da molte forze politiche per aumentare il consenso facendo leva proprio sulla disintermediazione resa possibile dalla comunicazione digitale. Non bisogna però dimenticare che le piattaforme digitali sfuggono alle normative sul pluralismo e sulla responsabilità editoriale, nonché ai controlli delle autorithy. Inoltre, la “selezione” operata dalla profilazione algoritmica diventa scarsamente percepibile dagli utenti, che ricevono le notizie selezionate sulla base del meccanismo del filter bubble e, pertanto, accedono solamente a una visione parziale della realtà senza rendersene conto. Questo fenomeno, infine, è particolarmente accentuato dall’utilizzo di tecniche di comunicazione che evocano e stimolano emozioni, creando news di facile e immediata condivisione e per loro natura virali, accentuando ulteriormente il fenomeno della profilazione. Tutto ciò pone due importanti temi. Il primo è la necessità di prevedere in capo alle Authorithy meccanismi di controllo e regolamentazione maggiormente efficaci per, fra l’altro, rendere più espliciti e trasparenti i meccanismi di profilazione e contrastare la diffusione delle fake news. Inoltre, poiché il fenomeno non è facilmente arginabile, è necessario imparare a conoscerlo, attrezzare la nostra società con gli strumenti adatti per vivere nella nuova era digitale in maniera consapevole. Occorre cioè imparare di nuovo a cercare le notizie e a discernere quelle vere da quelle false, quelle che mostrano una realtà parziale e non offrono una visione controfattuale da quelle che consentono di effettuare analisi obiettive. (…). È la “perfidia” del web che ama presentarsi “libero”, “egualitario” e per tutti ma consente a chi di esso vive di asservire un “popolo” sprovveduto determinandone gusti, scelte e modi (spesso perversi) di vivere. Roberto Saviano ha scritto: La tecnologia non è né buona né cattiva ma neanche neutrale: questa è la prima legge della tecnologia di Melvin Kranzberg. In questa frase c'è già tutto: la potenza dei motori di ricerca e dei social network è sempre lì a suggerirci che non prendono posizione, che non sono responsabili di quello che si scrive e possono solo dirigere il traffico. La prima grande bugia è considerare i motori di ricerca, le piattaforme di chat o i social network, luoghi neutrali. Organizzare i profitti, verso che direzione orientare i propri algoritmi, sono scelte precise, economiche e politiche, l'algoritmo non è neutrale, non è buono né cattivo. Quando decide di premiare la quantità indipendentemente dalla qualità, questa è una scelta profondamente politica perché va a impattare con quanto dice Roger McNamee: "Quando gli utenti sono arrabbiati, consumano e condividono più contenuti. Se rimangono calmi e imparziali hanno relativamente poco valore per Facebook che fa di tutto per attivare il cervello rettile". McNamee, che fu uno dei primi investitori in Facebook - e ne è oggi pericolosamente spaventato per il mondo che ha creato - descrive la dinamica della rabbia come capitale primo dei social network: se non sei arrabbiato non stai tutto il tempo attaccato al telefono, se aggredisci, senti con la pancia, rispondi nell'immediato, allora sei utile e aiuti a rendere virale il contenuto. Quello che i social network fanno ho provato a compararlo al mercato delle auto. Perché più dell'ottanta per cento delle auto sul mercato italiano ha motori in grado di arrivare (e superare) i duecento chilometri orari? In nessuna strada sei autorizzato a tale velocità. Eppure puoi comprare un'auto che corre oltre i limiti, puoi farlo sapendo che rischierai, oltre che di ammazzare e ammazzarti, il ritiro della patente. I social network fanno qualcosa di simile ma senza limiti. Autorizzano a spammare ogni sorta di contenuto, di insulto, di bugia, di manipolazione, violano sistematicamente la privacy raccogliendo ogni sorta di informazione su di te ma non solo ti autorizzano a farlo: ti garantiscono (e si garantiscono) impunità. Al massimo in qualche raro caso banneranno qualche insulto, e ci sarà qualche episodico processo su qualche violazione gravissima avvenuta all'interno dei loro spazi. Ma per il resto ogni secondo lasceranno che si condividano palesi bugie, propaganda di ogni tipo, attacchi personali, porcherie di ogni genere. Non solo produci motori che vanno oltre i limiti consentiti, ma dai l'impunità a correre il più possibile. Ovviamente non è solo questo il web, non sono solo questo i social network anzi, la loro ragione d'essere si fonda sulla diffusione del sapere, la connessione degli esseri umani, la creazione di nuove grammatiche emozionali. Questo in linea di principio ancora sopravvive in residuali spazi perché la trasformazione è ormai completamente avvenuta, come scrive Franco Berardi, "Bifo": "Innumerevoli tempeste di merda sommandosi hanno trasformato l'infosfera globale in uno tsunami di merda che ha disattivato l'universalismo della ragione, ridotto la sensibilità e distrutto i fondamenti del comportamento etico. Il risentimento identitario ha sostituito la solidarietà sociale, e la cultura dell'appartenenza ha sostituito la ragione universale". Esprimere i propri pensieri con un tono corretto ed educato viene percepito come inautentico, non utilizzare un registro sarcastico ti degrada immediatamente all'ambiguità: cosa nascondi se provi a convincere e non demolire, a ragionare e non vincere? Questo ha creato un riflesso automatico per cui nello spazio dei social il sentire comune crede solo a chi palesa il suo interesse chiaramente, a chi si sente chiaramente che difende se stesso, la sua parte, i suoi soldi, il suo successo, la sua razza. Insomma, sé e basta. Sé e quelli come sé, o in nome di quelli come sé. Siamo disposti a credere non solo esclusivamente a ciò che è governato da un interesse personale, ma peggio, che l'odio sia autentico e disinteressato e che la ricerca di empatia, di giustizia e la possibilità di essere buoni siano ambigue e segretamente mosse da oscuri profitti. Una persona che è abitata dalle sue contraddizioni, dai suoi errori, che per vivere lavora o vuole migliorare se stesso ma che oltre che guadagnare per sé e la sua famiglia prova a migliorare la società in cui vive, che prova a credere che il diritto alla felicità sia diritto dell'umanità, non solo è derisa e non creduta ma per sostenere questi suoi principi è sistematicamente sottoposta a una prova di stress, indagine e diffidenza estrema. Qualsiasi suo errore umano e contraddizione servirà a delegittimare la sua voglia di mutare in meglio il mondo come se gli fosse fatta tana. Ti abbiamo beccato! Al contrario se appartieni alla categoria degli insultatori, di coloro che si palesano autenticamente come avversari di qualsiasi moto solidale, ti è permessa ogni sorta di errore, ogni compromissione è tollerata. Insomma il bene sarebbe concesso nell'infosfera soltanto a esseri metafisici che non ricercano il loro benessere e che non errano. In una parola il bene è impossibile: persegui solo il tuo profitto e difendi la tua zolla, sentiti simile ai tuoi prossimi, leggi solo ciò che ti conferma il tuo sentire. Fine. Di questo odio si nutrono i social network, questo pensiero è alimentato dai filtri dei motori di ricerca che fingono di non esserne parte ma sono organizzatori di ciò che viene versato nell'oceano in cui poi su richiesta vanno a rassettare e ordinare informazioni su richiesta. (…).
È questa la grande truffa del web, ovvero presentarsi come “indifferente” al danaro ma speculare sulla dabbenaggine del suo foltissimo, impreparatissimo pubblico. Un pubblico con pochissima impronta identitaria – se non nelle modalità esasperate descritte nel “pezzo” di Roberto Saviano che di seguito si riporta - che della truffaldina proposta del web non ha sentore alcuno. Leggevo sui quotidiani di qualche giorno addietro che importantissime “griffe” della moda per la modica spesa di € 30 offrono la opportunità di poter fare indossare alla propria immagine, destinata su Instagram, i capi più eleganti e prestigiosi di dei più famosi creatori di moda. È un mondo spaventevole, l’invadenza del quale sfugge ai più condizionandone gli infiniti loro aspetti del vivere. E non potrebbe essere altrimenti. Ha scritto Paolo Boccardelli - direttore della Luiss Business School - in “Nelle mani di un algoritmo che decide al posto nostro” pubblicato sul settimanale A&F del 2 di settembre 2019: Viviamo nell’era dei big data e dei social network: ogni minuto vengono effettuate 4,5 milioni di ricerche su Google, visti altrettanti video su Youtube, postate 280mila storie su Instagram. Ma questa massa di dati, cui ciascuno di noi contribuisce più o meno volontariamente quando cerca un’informazione o pubblica una foto che viene elaborata da intelligenze artificiali sempre più potenti, costituisce progresso, inteso come crescita del capitale umano e della cultura digitale? Aumenta il pluralismo dell’informazione e, in definitiva, potenzia la nostra capacità di scegliere consapevolmente? Questa domanda costituisce un nodo cruciale per la società contemporanea. (…). Oggi a dominare sono le piattaforme: tuttavia, più le usiamo più “nutriamo” gli algoritmi di machine learning al loro interno con dati su nostre abitudini, desideri, emozioni e comportamenti. Conoscendoci sempre meglio, gli algoritmi selezionano per noi un ventaglio sempre più ristretto di informazioni, riducendo sì lo sforzo richiesto per soddisfare i nostri bisogni, ma anche la capacità di analisi. Come dimostrato da un esperimento della World Wide Web Foundation, un solo like dato o non dato a un post fa divergere i feed di account sino a quel momento “gemelli”. Questo fenomeno, definito da Eli Pariser (e da allora noto come) filter bubble, è responsabile delle scelte che l’algoritmo effettua per noi ed è, purtroppo, alla base della dieta informativa forzata di una fetta crescente della società. Sono gli algoritmi a effettuare il prezioso lavoro “editoriale” di selezione delle informazioni per noi rilevanti. A questo si aggiungano gli specialisti in grado di sfruttare gli algoritmi per diffondere presso specifiche comunità di utenti una visione parziale di un fenomeno e di una realtà, enfatizzandone alcuni aspetti a scapito di altri, o addirittura una realtà falsa. Professionisti che, in casi estremi e distorti, disseminando i social con troll e utenti falsi, riescono a influenzare il dibattito e l’agenda della discussione, se non addirittura il consenso rispetto a certe posizioni. Non mancano leader politici che con grande disinvoltura comunicano a colpi di tweet, post e storie, né esempi di consultazioni democratiche in cui gli strumenti digitali hanno contribuito a generare consenso attorno a tesi o a specifici candidati. Il tema è rilevante anche oggi in Italia: la Democrazia Parlamentare sancita dalla Costituzione si confronta con quella diretta evocata da molte forze politiche per aumentare il consenso facendo leva proprio sulla disintermediazione resa possibile dalla comunicazione digitale. Non bisogna però dimenticare che le piattaforme digitali sfuggono alle normative sul pluralismo e sulla responsabilità editoriale, nonché ai controlli delle autorithy. Inoltre, la “selezione” operata dalla profilazione algoritmica diventa scarsamente percepibile dagli utenti, che ricevono le notizie selezionate sulla base del meccanismo del filter bubble e, pertanto, accedono solamente a una visione parziale della realtà senza rendersene conto. Questo fenomeno, infine, è particolarmente accentuato dall’utilizzo di tecniche di comunicazione che evocano e stimolano emozioni, creando news di facile e immediata condivisione e per loro natura virali, accentuando ulteriormente il fenomeno della profilazione. Tutto ciò pone due importanti temi. Il primo è la necessità di prevedere in capo alle Authorithy meccanismi di controllo e regolamentazione maggiormente efficaci per, fra l’altro, rendere più espliciti e trasparenti i meccanismi di profilazione e contrastare la diffusione delle fake news. Inoltre, poiché il fenomeno non è facilmente arginabile, è necessario imparare a conoscerlo, attrezzare la nostra società con gli strumenti adatti per vivere nella nuova era digitale in maniera consapevole. Occorre cioè imparare di nuovo a cercare le notizie e a discernere quelle vere da quelle false, quelle che mostrano una realtà parziale e non offrono una visione controfattuale da quelle che consentono di effettuare analisi obiettive. (…). È la “perfidia” del web che ama presentarsi “libero”, “egualitario” e per tutti ma consente a chi di esso vive di asservire un “popolo” sprovveduto determinandone gusti, scelte e modi (spesso perversi) di vivere. Roberto Saviano ha scritto: La tecnologia non è né buona né cattiva ma neanche neutrale: questa è la prima legge della tecnologia di Melvin Kranzberg. In questa frase c'è già tutto: la potenza dei motori di ricerca e dei social network è sempre lì a suggerirci che non prendono posizione, che non sono responsabili di quello che si scrive e possono solo dirigere il traffico. La prima grande bugia è considerare i motori di ricerca, le piattaforme di chat o i social network, luoghi neutrali. Organizzare i profitti, verso che direzione orientare i propri algoritmi, sono scelte precise, economiche e politiche, l'algoritmo non è neutrale, non è buono né cattivo. Quando decide di premiare la quantità indipendentemente dalla qualità, questa è una scelta profondamente politica perché va a impattare con quanto dice Roger McNamee: "Quando gli utenti sono arrabbiati, consumano e condividono più contenuti. Se rimangono calmi e imparziali hanno relativamente poco valore per Facebook che fa di tutto per attivare il cervello rettile". McNamee, che fu uno dei primi investitori in Facebook - e ne è oggi pericolosamente spaventato per il mondo che ha creato - descrive la dinamica della rabbia come capitale primo dei social network: se non sei arrabbiato non stai tutto il tempo attaccato al telefono, se aggredisci, senti con la pancia, rispondi nell'immediato, allora sei utile e aiuti a rendere virale il contenuto. Quello che i social network fanno ho provato a compararlo al mercato delle auto. Perché più dell'ottanta per cento delle auto sul mercato italiano ha motori in grado di arrivare (e superare) i duecento chilometri orari? In nessuna strada sei autorizzato a tale velocità. Eppure puoi comprare un'auto che corre oltre i limiti, puoi farlo sapendo che rischierai, oltre che di ammazzare e ammazzarti, il ritiro della patente. I social network fanno qualcosa di simile ma senza limiti. Autorizzano a spammare ogni sorta di contenuto, di insulto, di bugia, di manipolazione, violano sistematicamente la privacy raccogliendo ogni sorta di informazione su di te ma non solo ti autorizzano a farlo: ti garantiscono (e si garantiscono) impunità. Al massimo in qualche raro caso banneranno qualche insulto, e ci sarà qualche episodico processo su qualche violazione gravissima avvenuta all'interno dei loro spazi. Ma per il resto ogni secondo lasceranno che si condividano palesi bugie, propaganda di ogni tipo, attacchi personali, porcherie di ogni genere. Non solo produci motori che vanno oltre i limiti consentiti, ma dai l'impunità a correre il più possibile. Ovviamente non è solo questo il web, non sono solo questo i social network anzi, la loro ragione d'essere si fonda sulla diffusione del sapere, la connessione degli esseri umani, la creazione di nuove grammatiche emozionali. Questo in linea di principio ancora sopravvive in residuali spazi perché la trasformazione è ormai completamente avvenuta, come scrive Franco Berardi, "Bifo": "Innumerevoli tempeste di merda sommandosi hanno trasformato l'infosfera globale in uno tsunami di merda che ha disattivato l'universalismo della ragione, ridotto la sensibilità e distrutto i fondamenti del comportamento etico. Il risentimento identitario ha sostituito la solidarietà sociale, e la cultura dell'appartenenza ha sostituito la ragione universale". Esprimere i propri pensieri con un tono corretto ed educato viene percepito come inautentico, non utilizzare un registro sarcastico ti degrada immediatamente all'ambiguità: cosa nascondi se provi a convincere e non demolire, a ragionare e non vincere? Questo ha creato un riflesso automatico per cui nello spazio dei social il sentire comune crede solo a chi palesa il suo interesse chiaramente, a chi si sente chiaramente che difende se stesso, la sua parte, i suoi soldi, il suo successo, la sua razza. Insomma, sé e basta. Sé e quelli come sé, o in nome di quelli come sé. Siamo disposti a credere non solo esclusivamente a ciò che è governato da un interesse personale, ma peggio, che l'odio sia autentico e disinteressato e che la ricerca di empatia, di giustizia e la possibilità di essere buoni siano ambigue e segretamente mosse da oscuri profitti. Una persona che è abitata dalle sue contraddizioni, dai suoi errori, che per vivere lavora o vuole migliorare se stesso ma che oltre che guadagnare per sé e la sua famiglia prova a migliorare la società in cui vive, che prova a credere che il diritto alla felicità sia diritto dell'umanità, non solo è derisa e non creduta ma per sostenere questi suoi principi è sistematicamente sottoposta a una prova di stress, indagine e diffidenza estrema. Qualsiasi suo errore umano e contraddizione servirà a delegittimare la sua voglia di mutare in meglio il mondo come se gli fosse fatta tana. Ti abbiamo beccato! Al contrario se appartieni alla categoria degli insultatori, di coloro che si palesano autenticamente come avversari di qualsiasi moto solidale, ti è permessa ogni sorta di errore, ogni compromissione è tollerata. Insomma il bene sarebbe concesso nell'infosfera soltanto a esseri metafisici che non ricercano il loro benessere e che non errano. In una parola il bene è impossibile: persegui solo il tuo profitto e difendi la tua zolla, sentiti simile ai tuoi prossimi, leggi solo ciò che ti conferma il tuo sentire. Fine. Di questo odio si nutrono i social network, questo pensiero è alimentato dai filtri dei motori di ricerca che fingono di non esserne parte ma sono organizzatori di ciò che viene versato nell'oceano in cui poi su richiesta vanno a rassettare e ordinare informazioni su richiesta. (…).
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