"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 17 ottobre 2019

Letturedeigiornipassati. 57 «Dio, il dolore, l'amore».


Tratto da “Dio, il dolore, l'amore: tre modi per parlare di noi” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano la Repubblica del 17 di ottobre dell’anno 2015: Scriveva Heidegger: «Non sempre una domanda chiede una risposta. La risposta, infatti, è solo l'ultimissimo passo del domandare». Se dovessi stilare una classifica degli argomenti più gettonati (…), al primo posto c'è Dio, al secondo il dolore, al terzo l'amore. Fanno eccezione le lettere dei giovani che parlano con angoscia del loro futuro, raramente d'amore, quasi mai di Dio. E le lettere delle persone anziane che parlano del loro passato tendenzialmente per deplorare il presente, senza nessun accenno al futuro. I primi tre argomenti, i più gettonati, a me paiono tra loro molto connessi perché unico è il tema: la fatica di vivere, sia che si parli di Dio, di dolore o d'amore. Ma incominciamo dalla tematica religiosa. Gli atei che, (…), non si danno pace per il fatto che esistono persone che credono in Dio e che naturalmente considerano inferiori perché ancora non sono approdati all'uso della ragione, a mio parere sono religiosi quanto i credenti, perché comunque insistono sulla tematica di Dio, e rivendicano la loro identità nella semplice negazione della sua esistenza. Nietzsche questo lo aveva capito perfettamente e perciò fa annunciare la morte di Dio non dall'ateo, ma dal folle. Con quella morte, annuncia la fine della cultura occidentale che, senza Dio, ha perso il suo punto di riferimento e la gerarchia dei valori che ne discendono. Una lezione che non abbiamo ancora imparato. Poi ci sono gli agnostici che si limitano a non prendere posizione e, avvolti nella loro aria di superiorità, perché non vogliono confondersi né con gli uni né con gli altri, non hanno il coraggio di staccarsi da Dio nè di aderire alla sua rivelazione. Dante li avrebbe collocati nell'inferno tra gli ignavi. La loro ignavia sta nel fatto che non vogliono impegnarsi in nessun pensiero. Per loro è troppo faticoso pensare. Infine ci sono i credenti, e lo sono per mille ragioni. Alcuni per educazione, perché se fossero nati in un ambiente musulmano crederebbero in Allah; altri, dall'identità debole, perché hanno un gran bisogno di appartenenza e preferiscono la Chiesa Cattolica alla massoneria, al Rotary, alla bocciofila del paese; altri ancora perché non trovano un senso della vita se non affidandosi alla fede cristiana che lenisce il dolore e invita all'amore; altri infine perché rispondono all'esigenza incondizionata propria della natura umana che, non accontentandosi dell'esistente, vuole trascenderlo. Molte altre sono le motivazioni che spingono a credere, a mio parere tutte giustificabili, purché non intervenga l'intolleranza, la peggiore prerogativa delle religioni monoteiste quando si propongono come verità assolute. In questo caso, come opportunamente avverte Karl Jasper, non abbiamo più a che fare con un credente (Glaubende), ma con un militante della fede (Glaubenskämpfer), non dissimile dagli atei che, (…), «non si danno pace». Alla fede in Dio è connesso anche il secondo tema più gettonato: il dolore. E la ragione è che la religione sottrae il dolore alla sua insensatezza iscrivendolo in un senso, perché lo legge come espiazione della colpa e caparra per la vita futura.
Naturalmente non tutti quelli che soffrono aderiscono a questa visione, e però quasi tutti sono alla ricerca di un conforto e di una condivisione, soprattutto in una società dove ci si tiene lontani da chi soffre perché non si conoscono più le parole del conforto e della partecipazione. Parole che invece non mancano agli innamorati, che però non scrivono quando sono felici, ma quando gli amori si spengono perché crolla l'idealizzazione che li aveva affascinati, perché le eterne promesse sono logorate dal tempo, perché improvvisamente ci si sveglia da sogni ingannevoli. E siccome l'amore comporta un radicale sovvertimento di sé, più non ci si ritrova nella solitudine della propria soggettività che non sa che fare di se stessa. E allora, nel dolore come nell'amore, non vale il (…) consiglio «datevi pace», perché il conforto può venire solo da un fremito di trascendenza, il soffio di spiritualità alimenta la speranza che un giorno l'amore possa realizzarsi pienamente, sopprimendo il dolore che rode l'anima. (…).

1 commento:

  1. Carissimo Aldo, anche se con un po' di ritardo, non posso fare a meno di esprimere le riflessioni scaturite dalla lettura di questo meraviglioso post che conserverò come un gioiello prezioso. Dio, dolore e amore sono nell'uomo, anzi costituiscono l'essenza della sua parte migliore. Una scintilla di Dio abita nell'uomo, mi piace credere in un Dio immanente e sono molto attratta dall'Induismo e dalle religioni orientali. A questo proposito mi torna in mente un pensiero di Pablo Ducali:"Non esistono atei, ma uomini che credono di esserlo perché si rifiutano di dare un nome a quanto di divino portano in sé". Il dolore e l'amore, poi, sono strettamente legati e non possono prescindere l'uno dall'altro. Ritengo che tutti gli esseri umani, prima o poi, ne fanno esperienza, anche se ognuno in maniera diversa. Mi piace ricordare un pensiero del Professor Galimberti sul dolore:"Chi pretende di guarire dal dolore pretende di guarire dalla condizione umana". Quanto all'amore, invece, penso che "possa realizzarsi pienamente, sopprimendo il dolore che rode l'anima..." perché, come afferma Antoine de Saint-Exupery:"Il vero amore comincia, quando non ci si aspetta nulla in cambio". Quando, semplicemente il dare amore ci rende appagati e felici. Grazie e buona continuazione. Agnese A.

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