Una rappresentazione delle
condizioni della scuola pubblica – per come la ricordo ancora, dopo tanti
lustri che ne sono uscito - ce la rende Manara Valgimigli in “La mia scuola”, testo pubblicato nel
lontano 15 di gennaio dell’anno 1920:
(…). Nel primo anno del mio insegnamento, capitato in un ginnasio del Mezzogiorno, un collega anziano mi disse: - Collega, tieni in ordine il registro e poi "fottetinne". – Obbiettai, ingenuo: - Non sarebbe il caso piuttosto di invertire i termini - Collega, non farete carriera. – E una volta, alcuni anni fa, un ministro pedagogista, di questi registri ne inventò tre: uno, per ogni singolo insegnante, che recava i voti e la materia spiegata e le lezioni e i lavori assegnati; uno in comune per tutti gli insegnanti, che stava su la cattedra e dove gli insegnanti diversi, man mano che si succedevano, indicavano ciascuno la materia spiegata e le lezioni e i lavori assegnati; e finalmente, un terzo, il così detto diario, per gli scolari, ai quali ogni insegnante dettava quello stesso che egli aveva scritto nel proprio registro e nel registro collegiale. Con questi tre registri l'insegnante modello poteva ridurre di mezz'ora la propria lezione. - Collega, tieni in ordine il registro e poi "fottetinne". - Il precetto del collega anziano aveva ricevuto da Sua Eccellenza il Ministro pedagogista la consacrazione ufficiale. Tratto da “Evitiamo che i giovani si sentano stranieri nella propria vita” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano la Repubblica del 21 di ottobre dell’anno 2017: C'è un'enorme distanza tra le domande che gli studenti comprimono nel loro cuore e le risposte che la scuola, ignara, evita di dare. (…). Ne conviene anche un professore (l.vavala@me.com) che così mi scrive: «Le vie della frustrazione o della felicità, o della soddisfazione, o del sorriso, o del pianto, sono individuali. […] Ma è delittuoso gettare gli adolescenti nel meccanismo delle certificazioni, delle necessità produttive, delle frustrazioni costanti; sospinti in nuovi stati di minorità, bisognerebbe subito riportarli a un moderno illuminismo». Kant definiva l'illuminismo: «L'uscita dell'uomo da una condizione di minorità che consiste nell'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di altri». Ora, che i giovani che frequentano la scuola abbiano bisogno di guide culturali è fuori dubbio, purché queste guide non impediscano agli studenti l'uso del proprio intelletto, riducendoli in uno stato di passività come quando lo studente ripete quello che l'insegnante ha detto guardandosi bene dal metterci del suo. Scopo della scuola è addestrare al senso critico, alla non accettazione indiscussa dell'opinione corrente, all'esame dei pro e dei contro, alla discussione argomentata e non alla semplice ripetizione pedissequa di quel che l'insegnante ha spiegato. Solo così gli studenti si sentiranno nella classe soggetti attivi, impegnati in discussioni proficue, in cui sono costretti a praticare la parola in pubblico, curando vocabolario, grammatica e sintassi, in un clima che sia di reciproco e attento ascolto e partecipazione emotiva. L'apprendimento, infatti, non è frutto di "buona volontà" come sono soliti dire i professori in quegli inutili e sbiaditi colloqui con i genitori, perché tutti sappiamo che la buona volontà è promossa dall'interesse, e l'interesse non esiste separato da un legame emotivo. Ne consegue che se l'incuria dell'emotività o la sua cura a livelli sbrigativi diventa la costante che si riscontra nelle nostre classi, anche i contenuti culturali, quando la trasmissione riesce, restano contenuti della mente senza diventare spunti formativi del cuore. E questo accade soprattutto là dove il rapporto tra studenti e insegnanti è regolato da una reciproca diffidenza, quando non da una inspiegabile paura degli allievi nei confronti dei professori, o dei professori nei confronti degli allievi. Clima questo perfettamente adatto per far giungere agli studenti quanto di più lontano e astratto c'è in ordine alla loro vita, dove il sapere, per difetto di trasmissione, non riesce a diventare nutrimento della passione, senza la quale l'interesse per la cultura non nasce, e se mai per caso fosse nato, come sembra lasciar intendere il sogno di Ilia, inesorabilmente si estingue. Se la scuola deve rispondere non solo in termini di istruzione ma anche in termini di educazione, non può prescindere dalla cura dell'emotività in quella stagione, l'adolescenza, dove il cuore non sa se avere legami con l'ideale o col sesso, dove la rabbia non sa se scatenarsi su di sé o sugli altri, dove l'eccesso della vita travalica talvolta pericolosamente la misura, dove malinconie radicali inducono alla demotivazione quando non alla depressione, dove il volume delle sensazioni oltrepassa di gran lunga la capacità delle parole disponibili per esprimerle. In questa stagione, caratterizzata da un inquieto disordine, che fa la scuola? E soprattutto che attinenza hanno con questa instabilità adolescenziale le riforme ministeriali quando propongono autonomie gestionali, rivalutazione della funzione del preside, nuovi programmi in funzione di nuovi profili professionali, accorpamenti di indirizzi di studio, lavagne luminose, registri digitali, informatizzazione di questo e di quello, quando l'unica cosa necessaria è la cura emotiva di chi sta crescendo, con tutte le difficoltà che si frappongono alla faticosa costruzione del proprio percorso futuro.
(…). Nel primo anno del mio insegnamento, capitato in un ginnasio del Mezzogiorno, un collega anziano mi disse: - Collega, tieni in ordine il registro e poi "fottetinne". – Obbiettai, ingenuo: - Non sarebbe il caso piuttosto di invertire i termini - Collega, non farete carriera. – E una volta, alcuni anni fa, un ministro pedagogista, di questi registri ne inventò tre: uno, per ogni singolo insegnante, che recava i voti e la materia spiegata e le lezioni e i lavori assegnati; uno in comune per tutti gli insegnanti, che stava su la cattedra e dove gli insegnanti diversi, man mano che si succedevano, indicavano ciascuno la materia spiegata e le lezioni e i lavori assegnati; e finalmente, un terzo, il così detto diario, per gli scolari, ai quali ogni insegnante dettava quello stesso che egli aveva scritto nel proprio registro e nel registro collegiale. Con questi tre registri l'insegnante modello poteva ridurre di mezz'ora la propria lezione. - Collega, tieni in ordine il registro e poi "fottetinne". - Il precetto del collega anziano aveva ricevuto da Sua Eccellenza il Ministro pedagogista la consacrazione ufficiale. Tratto da “Evitiamo che i giovani si sentano stranieri nella propria vita” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano la Repubblica del 21 di ottobre dell’anno 2017: C'è un'enorme distanza tra le domande che gli studenti comprimono nel loro cuore e le risposte che la scuola, ignara, evita di dare. (…). Ne conviene anche un professore (l.vavala@me.com) che così mi scrive: «Le vie della frustrazione o della felicità, o della soddisfazione, o del sorriso, o del pianto, sono individuali. […] Ma è delittuoso gettare gli adolescenti nel meccanismo delle certificazioni, delle necessità produttive, delle frustrazioni costanti; sospinti in nuovi stati di minorità, bisognerebbe subito riportarli a un moderno illuminismo». Kant definiva l'illuminismo: «L'uscita dell'uomo da una condizione di minorità che consiste nell'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di altri». Ora, che i giovani che frequentano la scuola abbiano bisogno di guide culturali è fuori dubbio, purché queste guide non impediscano agli studenti l'uso del proprio intelletto, riducendoli in uno stato di passività come quando lo studente ripete quello che l'insegnante ha detto guardandosi bene dal metterci del suo. Scopo della scuola è addestrare al senso critico, alla non accettazione indiscussa dell'opinione corrente, all'esame dei pro e dei contro, alla discussione argomentata e non alla semplice ripetizione pedissequa di quel che l'insegnante ha spiegato. Solo così gli studenti si sentiranno nella classe soggetti attivi, impegnati in discussioni proficue, in cui sono costretti a praticare la parola in pubblico, curando vocabolario, grammatica e sintassi, in un clima che sia di reciproco e attento ascolto e partecipazione emotiva. L'apprendimento, infatti, non è frutto di "buona volontà" come sono soliti dire i professori in quegli inutili e sbiaditi colloqui con i genitori, perché tutti sappiamo che la buona volontà è promossa dall'interesse, e l'interesse non esiste separato da un legame emotivo. Ne consegue che se l'incuria dell'emotività o la sua cura a livelli sbrigativi diventa la costante che si riscontra nelle nostre classi, anche i contenuti culturali, quando la trasmissione riesce, restano contenuti della mente senza diventare spunti formativi del cuore. E questo accade soprattutto là dove il rapporto tra studenti e insegnanti è regolato da una reciproca diffidenza, quando non da una inspiegabile paura degli allievi nei confronti dei professori, o dei professori nei confronti degli allievi. Clima questo perfettamente adatto per far giungere agli studenti quanto di più lontano e astratto c'è in ordine alla loro vita, dove il sapere, per difetto di trasmissione, non riesce a diventare nutrimento della passione, senza la quale l'interesse per la cultura non nasce, e se mai per caso fosse nato, come sembra lasciar intendere il sogno di Ilia, inesorabilmente si estingue. Se la scuola deve rispondere non solo in termini di istruzione ma anche in termini di educazione, non può prescindere dalla cura dell'emotività in quella stagione, l'adolescenza, dove il cuore non sa se avere legami con l'ideale o col sesso, dove la rabbia non sa se scatenarsi su di sé o sugli altri, dove l'eccesso della vita travalica talvolta pericolosamente la misura, dove malinconie radicali inducono alla demotivazione quando non alla depressione, dove il volume delle sensazioni oltrepassa di gran lunga la capacità delle parole disponibili per esprimerle. In questa stagione, caratterizzata da un inquieto disordine, che fa la scuola? E soprattutto che attinenza hanno con questa instabilità adolescenziale le riforme ministeriali quando propongono autonomie gestionali, rivalutazione della funzione del preside, nuovi programmi in funzione di nuovi profili professionali, accorpamenti di indirizzi di studio, lavagne luminose, registri digitali, informatizzazione di questo e di quello, quando l'unica cosa necessaria è la cura emotiva di chi sta crescendo, con tutte le difficoltà che si frappongono alla faticosa costruzione del proprio percorso futuro.
Carissimo Aldo, quanto afferma il Professor Galimberti mi fa pensare all'"arte della maieutica" che è a fondamento della filosofia di Socrate. Egli riteneva che l'opera del maestro consiste nell'aiutare gli allievi a trarre dalla propria anima la verità, attraverso il dialogo. Così facendo gli allievi vengono indotti a riflettere autonomamente ed educati alla libertà di pensiero.Pertanto, ancora oggi, si ritiene valido il metodo socratico che si basa sulla partecipazione attiva del discepolo a quel processo educativo che mira a formare la sua personalità. Questo presuppone comunque una "cura dell'emotivita'...senza la quale l'interesse per la cultura non nasce". È necessaria un'interazione tra cognizione e affettività. Se si vuole che certe conoscenze siano interiorizzate e messe in pratica, è necessario un contesto capace di suscitare emozioni, perché esiste uno stretto rapporto tra emozione, motivazione e apprendimento. È per questo che, per ottenere risultati positivi, ogni docente dovrà curare costantemente l'educazione emotiva. Congratulazioni per questo post e buona continuazione. Agnese A.
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