Sembra, ad una prima lettura, che
questo testo di Umberto Galimberti - “Impara
a essere come gli altri ti vogliono” - pubblicato sul settimanale “D” del
quotidiano la Repubblica del 9 di ottobre dell’anno 2010 voglia sconfessare
quanto da me sostenuto in uno dei post precedenti – il 12 di settembre 2019 in “letturedeigiornipassati”
n° 43 - laddove scrivevo che “siamo come
gli altri ci aiutano a divenire”, come se l’illustre volesse quasi negare
una possibilità che sia di “autodeterminazione” di ciascuno di noi. In verità
il senso dello scrivere di Umberto Galimberti è in perfetta sintonia con il
vissuto collettivo di questi perigliosissimi tempi:
Scrive Vidiadhar S. Naipaul: "Non potevo più rassegnarmi al destino. Il mio destino non era di essere buono, secondo la nostra tradizione, ma di fare fortuna. Ma in che modo? Che cosa avevo da offrire? L'inquietudine cominciava a mangiarmi dentro". Nietzsche, colui che ha annunciato l'avvento del nichilismo che avrebbe pervaso la cultura che oggi stiamo vivendo, invitava a diventare se stessi. "Diventa ciò che sei", e per questo: "Conosci te stesso", come peraltro invitava l'oracolo di Delfi. Oggi nessuno si dà cura di conoscere se stesso e tanto meno di realizzare ciò per cui è nato, così da pervenire, grazie a questa realizzazione, alla felicità, che i Greci chiamavano "eudaimonia" e la riferivano a chi realizzava il proprio "demone", che era poi la propria specifica virtù. Oggi, dopo aver rinunciato a essere noi stessi, siamo diventati delle pure e semplici risposte agli altri. Non per altruismo, intendiamoci, ma per venderci meglio, così come il venditore intercetta i bisogni e i desideri del possibile acquirente per vendere la sua merce. Il processo di progressiva mercificazione ci ha portato a mercificare anche noi stessi. E se lasciamo ai bordi della società chi mercifica il proprio corpo, poniamo al centro chi mercifica per intero se stesso, pur di acquisire quella posizione di potere e di denaro che gli consente di guardare dall'alto i propri simili, senza poter più riconoscere i lineamenti del proprio volto, così contraffatto da renderlo a se stesso irriconoscibile. E siccome alle sue spalle altri incalzano, la contraffazione di sé e la propria mercificazione non hanno limiti, in quel percorso senza fine dove, come osserva opportunamente Alain Herenberg ne La fatica di essere se stessi (Einaudi), crolla ogni morale, perché la domanda che si pone non è più: "Mi è lecito compiere questa azione?", ma: "Sono in grado di compiere questa azione?". Al criterio del "permesso e proibito", con cui l'umanità ha regolato se stessa a partire dalle tribù primitive con i loro totem e i loro tabù, si è sostituito il criterio del "possibile e impossibile", dove per raggiungere l'impossibile, in termini di efficienza, produttività, funzionalità, performance spinte, non si rifiuta il ricorso agli psicofarmaci o alla cocaina. Questa nuova morale, (…), dove non ci si chiede più se mi è consentito compiere questa azione, ma se sono in grado di compiere questa azione, crea quegli stati di ansia, di stress, e alla fine di depressione determinati non come un tempo da sensi di colpa, ma da un senso di insufficienza, dove la nostra identità, che non abbiamo curato, ma affidato al riconoscimento degli altri, corre il suo massimo rischio.
Scrive Vidiadhar S. Naipaul: "Non potevo più rassegnarmi al destino. Il mio destino non era di essere buono, secondo la nostra tradizione, ma di fare fortuna. Ma in che modo? Che cosa avevo da offrire? L'inquietudine cominciava a mangiarmi dentro". Nietzsche, colui che ha annunciato l'avvento del nichilismo che avrebbe pervaso la cultura che oggi stiamo vivendo, invitava a diventare se stessi. "Diventa ciò che sei", e per questo: "Conosci te stesso", come peraltro invitava l'oracolo di Delfi. Oggi nessuno si dà cura di conoscere se stesso e tanto meno di realizzare ciò per cui è nato, così da pervenire, grazie a questa realizzazione, alla felicità, che i Greci chiamavano "eudaimonia" e la riferivano a chi realizzava il proprio "demone", che era poi la propria specifica virtù. Oggi, dopo aver rinunciato a essere noi stessi, siamo diventati delle pure e semplici risposte agli altri. Non per altruismo, intendiamoci, ma per venderci meglio, così come il venditore intercetta i bisogni e i desideri del possibile acquirente per vendere la sua merce. Il processo di progressiva mercificazione ci ha portato a mercificare anche noi stessi. E se lasciamo ai bordi della società chi mercifica il proprio corpo, poniamo al centro chi mercifica per intero se stesso, pur di acquisire quella posizione di potere e di denaro che gli consente di guardare dall'alto i propri simili, senza poter più riconoscere i lineamenti del proprio volto, così contraffatto da renderlo a se stesso irriconoscibile. E siccome alle sue spalle altri incalzano, la contraffazione di sé e la propria mercificazione non hanno limiti, in quel percorso senza fine dove, come osserva opportunamente Alain Herenberg ne La fatica di essere se stessi (Einaudi), crolla ogni morale, perché la domanda che si pone non è più: "Mi è lecito compiere questa azione?", ma: "Sono in grado di compiere questa azione?". Al criterio del "permesso e proibito", con cui l'umanità ha regolato se stessa a partire dalle tribù primitive con i loro totem e i loro tabù, si è sostituito il criterio del "possibile e impossibile", dove per raggiungere l'impossibile, in termini di efficienza, produttività, funzionalità, performance spinte, non si rifiuta il ricorso agli psicofarmaci o alla cocaina. Questa nuova morale, (…), dove non ci si chiede più se mi è consentito compiere questa azione, ma se sono in grado di compiere questa azione, crea quegli stati di ansia, di stress, e alla fine di depressione determinati non come un tempo da sensi di colpa, ma da un senso di insufficienza, dove la nostra identità, che non abbiamo curato, ma affidato al riconoscimento degli altri, corre il suo massimo rischio.
Carissimo Aldo, purtroppo,ormai il denaro sembra essere diventato il metro di misura della realizzazione della persona, intesa anche come "potere di essere". Sono venuti meno gli antichi valori e manca la possibilità di raggiungere un equilibrato sviluppo psichico dell'individuo, per garantire la giusta valenza da dare ai possedimenti materiali. L'aspirazione ad una maggiore disponibilità economica nasconde il desiderio di alimentare la propria visibilità, il proprio successo, per coprire grosse carenze di realizzazione dell'uomo a livello interiore. Vivere in funzione del denaro significa dimenticare chi siamo veramente e recitare secondo le regole e i valori che il mondo dei soldi impone. L'apparenza e non l'essere, il possedere oggetti e non virtù sono segni di merito e di prestigio. Un merito e un prestigio che non escludono, spesso, neppure il cinismo. Tutto ciò è mostruoso... Non è assolutamente il giusto modo di " diventare se stessi", di "individuarsi". Grazie di questo post eccezionale e buona continuazione. Agnese A.
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