Si pone la “questione” sul disarcionato “capitano
di breve corso”, avendone di già rintracciata la dotta spiegazione, Daniela
Ranieri - con un pizzico di riposta retorica che non guasta mai - in “I talk show sono gli steroidi di Salvini”
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi, ovvero come la “questione” di «un politico così modesto e pedestre riesca ancora a incanalare i sentimenti
collettivi lo spiega la psicologia delle folle di Gustave Le Bon:
“L’autoritarismo e l’intolleranza sono per le folle sentimenti che esse
sostengono e praticano con estrema facilità. Le folle rispettano la forza e
sono mediocremente impressionate dalla bontà, che al più è valutata come una
forma di debolezza. Se le masse volentieri calpestano il despota detronizzato,
è perché, avendo quegli perduto la sua forza, rientra nella categoria dei
deboli che, non temuti, meritano disprezzo”». Al di là e senza
scomodare tanto l’illustre Gustave Le Bon la risposta più immediata è che il
becerume della vita politica ed associata degli italiani ha toccato il massimo
della sua parabola. Poiché quel becerume non poteva non nutrirsi di quella
categoria dello spirito che oggi è di gran moda, ovvero il vanto della propria “ignoranza”.
Ignoranza portata come marchio delle nuove plebi che in virtù di essa non
anelano a nessun riscatto e progresso. Ne ha scritto come sempre argutamente Michele
Serra – dal quale mi sono sentito quasi tradito avendo Egli mantenuto l’impegno
Suo in quel partito nonostante l’uomo di Rignano sull’Arno – sul settimanale “il
Venerdì” del 4 di ottobre laddove ha scritto - in “La schiavitù dell’ignoranza” - che «(…). …gli ottimisti sostengono
che l’ignoranza c’è sempre stata (anzi, ce n’era molta di più in passato) e la
sola differenza è che i social l’hanno portata alla luce. L’hanno messa in
chiaro. I pessimisti dicono invece che i social non si sono limitati a renderla
visibile ma l’hanno sdoganata e moltiplicata, come un contagio. Ne sono stati
il potentissimo vettore. E la cattiva politica, ruffiana, spudorata, ci ha
sguazzato, trovando la maniera di promuovere l’ignoranza come “valore popolare”
e ricevendone in cambio la gratitudine e i voti degli ignoranti. Con il tragico
risultato che l’ignorante, un tempo infelice di esserlo, ora rivendica il
proprio status orgogliosamente, come una liberazione. Io, a seconda del mio
umore del giorno, oscillo tra le due lettura; con una lieve predilezione,
ahimè, per quella infausta, la seconda. Ma con irriducibile fiducia nei nostri
anticorpi (individuali e sociali). L’ignoranza non produce felicità e nemmeno
dignità. Abbrutisce e impedisce la soddisfazione di sentirsi, passo dopo passo,
migliori di come si era in partenza. Rende subalterni e meno liberi. E dunque
non diamole troppa fiducia; l’ignoranza tornerà ad essere, prima o poi, quello
che è sempre stata: una forma di minorità e soggezione dalla quale
emanciparsi…». È la speranza che ci piace coltivare. Ha scritto Daniela
Ranieri che “a un certo punto della sera di martedì, mentre traeva fomento dalla
terza ovazione del pubblico dell’omonima trasmissione, Salvini è sembrato
entrare in un evidente stato di alterazione psico-fisica – Salvini che, è bene
ricordarlo, esiste e gode di tanto consenso perché per anni è stato insufflato
di steroidi proprio dai talk show, felicissimi di ridursi a suoi casini da
caccia.
Da Floris c’era un’infilata di giornalisti pronti a metterlo in difficoltà sui temi a lui meno cari, come il Russiagate. “Domani gli italiani si svegliano con la paura di un’invasione della Russia o il problema è che i figli non trovano lavoro?”, ha risposto, come se fossero due alternative logiche. La tattica di bassa semiologia di Salvini è nota: agli italiani non interessa X (dove X sono magagne della Lega presentate come questioni lunari e pedantesche) ma le tasse/il lavoro/le pensioni/il prezzo del latte/i neri stupratori-ladri-spacciatori, con l’aggravante inedita, l’altra sera, del caso di un bambino disabile di Narni a cui Salvini ha promesso di mandare gli infermieri a casa (lui spiccia micro-questioni che il governo delle élite non ha la volontà di risolvere). In questo modo, Salvini fa credere che tutto ciò che non è X sia sottovalutato da chiunque non sia Salvini. A giudicare dalla claque, che escludiamo si sia portato dietro dal Papeete e dunque era autenticamente incantata dalla sua performance cardiovascolare, si direbbe che la tattica funziona ancora. Il turpiloquio lo galvanizza: “Non ho preso un rublo. Dove cazzo vuole cha abbia messo 60 milioni di dollari? Ma secondo lei, io sarei qua a parlare con lei se avessi 60 milioni di dollari? O sarei ai Caraibi?”. Salvini immagina l’italiano-tipo del tutto incapace di capire la differenza tra l’arricchimento di un politico corrotto e un sistema di corruzione internazionale che a riguarderebbe, se provato, vicendevoli favori su campagne elettorali, compravendita di petrolio e influenze varie. L’arena di DiMartedì ha apprezzato che Salvini sorvolasse sulla noiosa questione del “complotto” ai suoi danni e si riarrogasse il diritto di riferire del suo comportamento solo al pubblico televisivo: “È un anno che andate avanti con questo pippone sulla Russia, gli italiani vogliono sentir parlare di taglio delle tasse e problemi della vita reale!”; ma poi non sa parlare che dell’Umbria, dove è in corso la campagna elettorale. Il trucco è lo stesso di sempre: se l’interlocutore fa una premessa, Salvini concentra l’attenzione sulla premessa, impedendogli di continuare il discorso. Così è riuscito per anni a giocare a flipper coi giornalisti, trattati come cani lanciati a inseguire un bastone. Se come l’altra sera qualcuno premette: “I bambini muoiono in mare”, Salvini si aggancia: “E che è, colpa mia?”, il che obbliga le persone a pensare di chi sia la colpa se i bambini muoiono in mare (per quelle sintonizzate sul suo bias di conferma, delle madri che li mettono sui gommoni); e da lì scatena il domino della passivo-aggressività: “È sempre colpa di Salvini! Manca che la Raggi dica che non riesce a svuotare i cassonetti per causa mia!”. Il pubblico urla, applaude, drogato dalla vertigine dello spostamento, dimentico della questione-matrice. Forse non si aspettava nemmeno lui una platea così calda. (…). Ciò significa che Salvini – sempre secondo la versione di Gustave Le Bon n.d.r. -, se non piagnucola, non è affatto finito”.
Da Floris c’era un’infilata di giornalisti pronti a metterlo in difficoltà sui temi a lui meno cari, come il Russiagate. “Domani gli italiani si svegliano con la paura di un’invasione della Russia o il problema è che i figli non trovano lavoro?”, ha risposto, come se fossero due alternative logiche. La tattica di bassa semiologia di Salvini è nota: agli italiani non interessa X (dove X sono magagne della Lega presentate come questioni lunari e pedantesche) ma le tasse/il lavoro/le pensioni/il prezzo del latte/i neri stupratori-ladri-spacciatori, con l’aggravante inedita, l’altra sera, del caso di un bambino disabile di Narni a cui Salvini ha promesso di mandare gli infermieri a casa (lui spiccia micro-questioni che il governo delle élite non ha la volontà di risolvere). In questo modo, Salvini fa credere che tutto ciò che non è X sia sottovalutato da chiunque non sia Salvini. A giudicare dalla claque, che escludiamo si sia portato dietro dal Papeete e dunque era autenticamente incantata dalla sua performance cardiovascolare, si direbbe che la tattica funziona ancora. Il turpiloquio lo galvanizza: “Non ho preso un rublo. Dove cazzo vuole cha abbia messo 60 milioni di dollari? Ma secondo lei, io sarei qua a parlare con lei se avessi 60 milioni di dollari? O sarei ai Caraibi?”. Salvini immagina l’italiano-tipo del tutto incapace di capire la differenza tra l’arricchimento di un politico corrotto e un sistema di corruzione internazionale che a riguarderebbe, se provato, vicendevoli favori su campagne elettorali, compravendita di petrolio e influenze varie. L’arena di DiMartedì ha apprezzato che Salvini sorvolasse sulla noiosa questione del “complotto” ai suoi danni e si riarrogasse il diritto di riferire del suo comportamento solo al pubblico televisivo: “È un anno che andate avanti con questo pippone sulla Russia, gli italiani vogliono sentir parlare di taglio delle tasse e problemi della vita reale!”; ma poi non sa parlare che dell’Umbria, dove è in corso la campagna elettorale. Il trucco è lo stesso di sempre: se l’interlocutore fa una premessa, Salvini concentra l’attenzione sulla premessa, impedendogli di continuare il discorso. Così è riuscito per anni a giocare a flipper coi giornalisti, trattati come cani lanciati a inseguire un bastone. Se come l’altra sera qualcuno premette: “I bambini muoiono in mare”, Salvini si aggancia: “E che è, colpa mia?”, il che obbliga le persone a pensare di chi sia la colpa se i bambini muoiono in mare (per quelle sintonizzate sul suo bias di conferma, delle madri che li mettono sui gommoni); e da lì scatena il domino della passivo-aggressività: “È sempre colpa di Salvini! Manca che la Raggi dica che non riesce a svuotare i cassonetti per causa mia!”. Il pubblico urla, applaude, drogato dalla vertigine dello spostamento, dimentico della questione-matrice. Forse non si aspettava nemmeno lui una platea così calda. (…). Ciò significa che Salvini – sempre secondo la versione di Gustave Le Bon n.d.r. -, se non piagnucola, non è affatto finito”.
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