Tratto da “Un’agenda
per la sinistra (e non solo per Corbyn)” di Mariana Mazzucato, pubblicato
sul quotidiano la Repubblica dell’8 di ottobre dell’anno 2015: (…). Quando
il Partito laburista ha perso le elezioni, lo scorso maggio, in tanti, anche
esponenti del Governo ombra, gli hanno contestato di non aver saputo
interloquire con i «creatori di ricchezza», cioè la comunità imprenditoriale.
Che le imprese creino ricchezza è evidente. Ma anche i lavoratori, le istituzioni
pubbliche, le organizzazioni della società civile creano ricchezza, promuovendo
crescita e produttività nel lungo termine. Un programma economico progressista
deve partire necessariamente dal riconoscimento che la creazione di ricchezza è
un processo collettivo e che gli esiti di mercato sono il risultato
dell’interazione fra tutti questi «creatori di ricchezza». Dobbiamo abbandonare
la falsa dicotomia “Stato contro mercato” e cominciare a ragionare più
chiaramente su quali risultati vogliamo che il mercato produca. Investimenti
pubblici “mission-oriented”, con un obiettivo chiaro, hanno molto da
insegnarci. La politica economica dovrebbe impegnarsi attivamente per plasmare
e creare mercati, non limitarsi a ripararli quando si guastano. Le politiche
tradizionalmente considerate “business friendly”, come i crediti di imposta e
la riduzione delle aliquote, a lungo andare possono essere nocive per
l’attività imprenditoriale. Allo stesso modo, è ora di superare il dibattito
sull’austerity e discutere di come costruire collaborazioni intelligenti e
reciprocamente vantaggiose fra pubblico e privato, in grado di alimentare la
crescita per decenni. Per cominciare dobbiamo investire in istruzione, capitale
umano, tecnologia e ricerca. In molti settori gli imponenti progressi
tecnologici e organizzativi hanno prodotto un aumento della produttività. Molte
di queste innovazioni decisive affondano le loro radici in ricerche finanziate
dallo Stato. Per garantire che ci siano progressi anche in futuro, ci sarà
bisogno di interventi diretti e investimenti in innovazione lungo l’intera
catena dell’innovazione: ricerca di base, ricerca applicata e finanziamenti
alle imprese nelle fasi iniziali.
Oltre a questo c’è bisogno di una finanza paziente e a lungo termine. Gran parte della finanza attuale è troppo speculativa e troppo focalizzata sui risultati immediati. Per una rivoluzione tecnologica c’è bisogno della pazienza e della dedizione dei finanziamenti pubblici. In certi Paesi, come Germania e Cina, sono delle banche pubbliche a svolgere questo ruolo; in altri, il compito è affidato a organismi pubblici. Una cosa del genere significa anche definanziarizzare l’economia reale, troppo attenta al breve termine. Nell’ultimo decennio, le aziende del “Fortune 500” che operano in settori come l’informatica, la farmaceutica e l’energia hanno speso più di 3mila miliardi di dollari per riacquistare azioni proprie, allo scopo di gonfiare il prezzo del titolo, le stock options e i compensi dei dirigenti. Bisogna ricompensare quelle aziende che reinvestono i profitti in produzione, innovazione e formazione del capitale umano. Il passo successivo è incrementare i salari e il tenore di vita. Fino agli anni 80, gli incrementi di produttività erano accompagnati da aumenti salariali. Il collegamento si è spezzato per effetto della riduzione del potere negoziale dei lavoratori e del crescente orientamento delle aziende verso la finanza. I sindacati sono un elemento chiave per un’efficace governance delle imprese e vanno coinvolti maggiormente nelle politiche per l’innovazione, spingendo per investimenti in istruzione e formazione, i motori a lungo termine dei salari. Anche le istituzioni pubbliche devono essere rafforzate. Per poter prendere decisioni di politica economica audaci c’è bisogno di agenzie pubbliche e istituzioni che siano capaci di assumersi dei rischi. Creare una rete di agenzie e istituzioni decentralizzata e dotata di adeguati finanziamenti, che lavora in collaborazione con le imprese, renderebbe lo Stato più efficiente e maggiormente focalizzato in senso strategico. Anche il sistema fiscale deve diventare più progressivo. Dobbiamo farla finita con l’abbassare le tasse alla cieca, creando scappatoie che consentono pratiche di elusione fiscale, e offrire crediti di imposta che hanno effetti limitati in investimenti e creazione di posti di lavoro. Anche sul debito bisogna cambiare atteggiamento. Invece di focalizzarci sui deficit di bilancio, dovremmo puntare l’attenzione sul denominatore del rapporto debito-Pil. Se gli investimenti pubblici accrescono la produttività di lungo periodo, il rapporto rimane sotto controllo. Nell’Ocse, molti dei Paesi con un rapporto debito-Pil più elevato (per esempio Italia, Portogallo e Spagna) hanno un disavanzo relativamente contenuto, ma non investono efficacemente in istruzione, ricerca, formazione, o programmi di welfare disegnati in modo da facilitare l’aggiustamento economico. La politica di bilancio e la politica monetaria sono importanti, ma solo se abbinate alla creazione di opportunità nell’economia reale. La creazione di moneta, attraverso il cosiddetto quantitative easing , non alimenterà l’economia reale se la nuova moneta finirà nei forzieri di banche che non prestano. E quando le imprese non vedono opportunità, i tassi di interesse non bastano a influenzare gli investimenti. Infine, non dobbiamo aver paura di guidare la direzione dello sviluppo verso un’economia verde. Gli stimoli di bilancio dovrebbero sostenere progetti trasformativi, come quelli che hanno determinato i grandi progressi dell’informatica e delle telecomunicazioni, delle biotecnologie e delle nanotecnologie, tutte aree «prescelte» da un settore pubblico che ha lavorato al fianco delle imprese. Lo sviluppo verde è molto di più delle semplici energie rinnovabili: può diventare una direzione nuova per l’intera economia.
Oltre a questo c’è bisogno di una finanza paziente e a lungo termine. Gran parte della finanza attuale è troppo speculativa e troppo focalizzata sui risultati immediati. Per una rivoluzione tecnologica c’è bisogno della pazienza e della dedizione dei finanziamenti pubblici. In certi Paesi, come Germania e Cina, sono delle banche pubbliche a svolgere questo ruolo; in altri, il compito è affidato a organismi pubblici. Una cosa del genere significa anche definanziarizzare l’economia reale, troppo attenta al breve termine. Nell’ultimo decennio, le aziende del “Fortune 500” che operano in settori come l’informatica, la farmaceutica e l’energia hanno speso più di 3mila miliardi di dollari per riacquistare azioni proprie, allo scopo di gonfiare il prezzo del titolo, le stock options e i compensi dei dirigenti. Bisogna ricompensare quelle aziende che reinvestono i profitti in produzione, innovazione e formazione del capitale umano. Il passo successivo è incrementare i salari e il tenore di vita. Fino agli anni 80, gli incrementi di produttività erano accompagnati da aumenti salariali. Il collegamento si è spezzato per effetto della riduzione del potere negoziale dei lavoratori e del crescente orientamento delle aziende verso la finanza. I sindacati sono un elemento chiave per un’efficace governance delle imprese e vanno coinvolti maggiormente nelle politiche per l’innovazione, spingendo per investimenti in istruzione e formazione, i motori a lungo termine dei salari. Anche le istituzioni pubbliche devono essere rafforzate. Per poter prendere decisioni di politica economica audaci c’è bisogno di agenzie pubbliche e istituzioni che siano capaci di assumersi dei rischi. Creare una rete di agenzie e istituzioni decentralizzata e dotata di adeguati finanziamenti, che lavora in collaborazione con le imprese, renderebbe lo Stato più efficiente e maggiormente focalizzato in senso strategico. Anche il sistema fiscale deve diventare più progressivo. Dobbiamo farla finita con l’abbassare le tasse alla cieca, creando scappatoie che consentono pratiche di elusione fiscale, e offrire crediti di imposta che hanno effetti limitati in investimenti e creazione di posti di lavoro. Anche sul debito bisogna cambiare atteggiamento. Invece di focalizzarci sui deficit di bilancio, dovremmo puntare l’attenzione sul denominatore del rapporto debito-Pil. Se gli investimenti pubblici accrescono la produttività di lungo periodo, il rapporto rimane sotto controllo. Nell’Ocse, molti dei Paesi con un rapporto debito-Pil più elevato (per esempio Italia, Portogallo e Spagna) hanno un disavanzo relativamente contenuto, ma non investono efficacemente in istruzione, ricerca, formazione, o programmi di welfare disegnati in modo da facilitare l’aggiustamento economico. La politica di bilancio e la politica monetaria sono importanti, ma solo se abbinate alla creazione di opportunità nell’economia reale. La creazione di moneta, attraverso il cosiddetto quantitative easing , non alimenterà l’economia reale se la nuova moneta finirà nei forzieri di banche che non prestano. E quando le imprese non vedono opportunità, i tassi di interesse non bastano a influenzare gli investimenti. Infine, non dobbiamo aver paura di guidare la direzione dello sviluppo verso un’economia verde. Gli stimoli di bilancio dovrebbero sostenere progetti trasformativi, come quelli che hanno determinato i grandi progressi dell’informatica e delle telecomunicazioni, delle biotecnologie e delle nanotecnologie, tutte aree «prescelte» da un settore pubblico che ha lavorato al fianco delle imprese. Lo sviluppo verde è molto di più delle semplici energie rinnovabili: può diventare una direzione nuova per l’intera economia.
Nessun commento:
Posta un commento