Tratto da “La
sfida di Janet obiettivo ridurre le disuguaglianze in America” di Federico
Rampini, pubblicato sul settimanale A&F del 20 di ottobre dell’anno 2014: Non è
il tipo di linguaggio a cui sono abituati gli europei, quando ascoltano un
banchiere centrale. Ma anche qui negli Stati Uniti, non passa inosservato un
discorso come quello tenuto da Janet Yellen, (“già” n.d.r.) presidente
della Federal Reserve. Parlando a Boston venerdì scorso la Yellen ha affrontato
il tema delle diseguaglianze con queste parole: “L’ampiezza e il continuo
peggioramento delle diseguaglianze negli Stati Uniti mi preoccupano seriamente.
Credo sia giusto chiederci se questa tendenza è compatibile con i valori
radicati nella storia del nostro paese, tra i quali c’è l’importanza che gli
americani hanno sempre attribuito all’eguaglianza nelle opportunità”. No, non è
una frase di maniera: conferma che la Yellen è una figura anomala. Quella
dichiarazione è coerente con l’estrema attenzione che lei ha dedicato alle
nuove forme della disoccupazione, alla stagnazione dei salari reali, al disagio
sociale che permane anche dopo cinque anni di ripresa americana. Un
commentatore del New York Times, Neil Irwin, nel blog The Upshot mette in
contrasto quella frase della Yellen con ciò che disse molto prima di lei il suo
predecessore Ben Bernanke. Nel 2007, prima della grande crisi, Bernanke parlò
anche lui di peggioramento diseguaglianze (è un trend che dura ormai dagli anni
Ottanta) ma solo per specificare che “spetta alla politica determinare se e
come ridurle”. La Yellen non ci sta a chiamarsi fuori, pensa che anche la
politica monetaria ha le sue responsabilità. Nel suo discorso di Boston la
presidente della Fed si è dilungata su alcune manifestazioni e concause delle
diseguaglianze. Per esempio l’aumento inquietante dell’ammontare di “debiti
studenteschi”: da sempre in America tanti giovani si pagano gli studi coi
prestiti bancari, ma negli ultimi anni si sono trovati stritolati dall’effetto
congiunto di un’iperinflazione nelle rette universitarie, e un ristagno dei
redditi da lavoro con cui dovranno rimborsare quei debiti. Un altro tema che la
Yellen ha discusso è quello caro a Thomas Piketty: il ruolo sempre più decisivo
dell’eredità nel determinare la geografia della ricchezza, sicché la mobilità
sociale diminuisce e l’America come tutte le nazioni occidentali si avvia a diventare
una società patrimoniale, ingessata, oligarchica. La questione delle
diseguaglianze è anche decisiva per spiegare la debolezza della crescita.
Perfino negli Stati Uniti, dopo più di 60 mesi di crescita, è d’obbligo
constatare che questa ripresa non è così vigorosa come lo erano i periodi
post-recessione nel passato. Il trend di crescita di lungo periodo mostra un
abbassamento lento ma inesorabile per tutte le nazioni industrializzate, se si
paragona gli anni Sessanta-Settanta con gli Ottanta-Novanta e infine con
l’ultimo ventennio. Anche quando la crescita c’è, è ben lungi dai ritmi di una
volta. È il tema sollevato da Larry Summers che ha rilanciato il dibattito
sulla “stagnazione secolare”. Il nesso con la diseguaglianza? È noto che i
ricchi hanno un’elevata propensione al risparmio, e dunque se troppa parte del
reddito nazionale si concentra nelle loro mani, i consumi si deprimono. Ma
proprio gli economisti più di sinistra, pur sentendosi vicini alla Yellen, non
sono affatto convinti che la Fed sia “innocente” in materia di diseguaglianze.
Il coraggioso esperimento chiamato “quantitative easing”, con la massiccia
creazione di liquidità che ha trainato l’America fuori dalla crisi, ha
probabilmente avuto effetti redistributivi alla rovescia: ha fatto salire le
Borse, dove sono soprattutto i ricchi ad avere una vasta quota del loro
patrimonio; idem con il revival del mercato immobiliare, anche questo ha
favorito i privilegiati.
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