Perché meravigliarsi più di tanto per le proditorie
manovre - o sotto-manovre - del governo in carica in vista della legge finanziaria
al tempo del cosiddetto “cambiamento”? È invece confortante
e rassicurante andare a ri-leggere le cronache sulla “materia” riportate su “il
Fatto Quotidiano” del 22 di ottobre dell’anno 2014 a firma di Stefano Feltri - “Una manovra-pasticcio: Colle e Ue non si
fidano” –, cronache che ci confermano e ci rassicurano di una incontrovertibile
verità: la politica nel bel paese è sempre la stessa, non cambia proprio, con
buona pace per tutti. Poiché quelle cronache hanno a che fare con il tempo
politico del “#cambiareverso”, ovvero al tempo della “rottamazione” degli usi
e costumi di quella che allora veniva definita spregiativamente la vecchia
politica. Leggiamo quelle cronache con l’occhio vigile rivolto all’oggi per scoprire,
solo che ce ne fosse stato il bisogno, quel persistente permanere di usi e costumi
che ci confortano nella convinzione che nulla cambia nonostante l’acqua
continui a scorrere sotto i nostri ponti (senza allusione alcuna al disgraziato
ponte di Genova). Scriveva a quel tempo Stefano Feltri: Il parto della legge di Stabilità
è ogni giorno più travagliato: a quasi sei giorni dal Consiglio dei ministri
che ha definito la manovra da 36 miliardi, il governo ha mandato ieri al
Quirinale un testo ancora grezzo, mancava un dettaglio non irrilevante come la
bollinatura della Ragioneria generale dello Stato. Cioè la certificazione che
le coperture siano a posto. Il Colle ha diramato un comunicato in cui capo
dello Stato Giorgio Napolitano ha sottolineato che la legge di Stabilità sarà
“oggetto di un attento esame”, così attento che non è bastato un colloquio di
un’ora e mezza con il premier Matteo Renzi a chiarire i dubbi. Si replica oggi
con una colazione tra i due. Oggetto del confronto: la reazione della
Commissione europea alla legge di stabilità e la riunione del Consiglio cui
parteciperà Renzi domani. “La lettera all’Italia sulla legge di Stabilità non è
stata ancora inviata, ci sta lavorando la direzione generale Affari economici”,
ha detto il temuto commissario Jyrki Katainen. L’obiettivo ormai non più
nascosto del governo Renzi è evitare la bocciatura esplicita, che la
Commissione deve decidere entro due settimane dalla presentazione dei conti
(arrivati a Bruxelles il 15 ottobre, con la nota di aggiornamento al Def). Per
le richieste di correzione minori, c’è più tempo. E da novembre sarebbe la
nuova Commissione guidata da Jean Claude Juncker a pronunciarsi, considerata
più bendisposta. Il punto sensibile è il rinvio del pareggio di bilancio dal
2016 al 2017: l’Italia sostiene che ci sono le “circostanze eccezionali” che
giustificano il mancato rispetto del cosiddetto “obiettivo di medio termine”,
ma due giorni fa il presidente uscente della Commissione José Barroso ha detto
invece che all’Italia sarà comunque richiesto un aggiustamento da 0,5 punti di
Pil (circa 7,5 miliardi) nel 2015 invece che lo 0,1 offerto da Renzi e dal suo
ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan.
Secondo quanto risulta al Fatto, a Bruxelles ci sarebbe una soluzione di
compromesso pronta: un aggiustamento di 0,2-0,3 punti. Ma è un’ipotesi
elaborata dagli uffici tecnici, che ha bisogno di un via libera politico ancora
mancante. La direzione generale economia e finanza, guidata proprio da un
italiano, Marco Buti, ha elaborato la mediazione. Ma la copertura politica non
c’è perché a Bruxelles vogliono capire se l’Italia sta imbrogliando o no. A Katainen
e Barroso non è sfuggito il testo dell’audizione di Giuseppe Pisauro,
presidente dell’Upb, l’Ufficio parlamentare di bilancio.
È il primo anno in cui, come previsto dal Fiscal Compact, un’autorità indipendente esamina e commenta i numeri del governo. Nel documento dell’Upb, di cui in Italia si sono accorti in pochi, ci sono commenti politicamente esplosivi. Primo dato: le stime di crescita del governo su 2016, 2017 e 2018 sono discutibili. Uno 0,2 per cento nel 2016 e 0,4 nei due anni seguenti dipendono dall’impatto delle riforme strutturali (lavoro, Pubblica amministrazione ecc.), una misura “essenzialmente affidata alla valutazione discrezionale dell’analista, con conseguente rischio di errori e dimensioni nelle stime del loro impatto macroeconomico”. Come dire che sono numeri sparati a caso. Secondo punto critico segnalato da Pisauro e dall’Upb: i conti legittimano un rinvio del pareggio di bilancio di un anno, cioè dal 2015 al 2016, ma non di due, come chiede il governo. All’Italia è richiesto un aggiustamento dello 0,5 del Pil, cui si può derogare se ci sono due condizioni: se la crescita è negativa (e nel 2014 è di -0,3) e se a causa della recessione l’economia reale è molto lontana dal suo potenziale (in gergo: l’output gap è sopra il 4 per cento, e nel 2014 è al 4,3). Quindi è lecito non prevedere l’aggiustamento di 0,5 punti, circa 7,5 miliardi, nel 2015. Ma il governo prevede poi una piccola ripresa nel 2015 e un output gap al 3,5, quindi nessuna delle due condizioni richieste per rimandare ancora i tagli sarebbe rispettata. Delle due l’una: o il governo non ha diritto a rinviare il pareggio di bilancio al 2017, o sono sbagliati i numeri ma allora significa che il prossimo anno il deficit sfonderà la soglia del 3 per cento del Pil. C’è un’altra cosa che i tecnici di Bruxelles non hanno preso bene: tutti i conti dell’Upb sono fatti sulla manovra da 30 miliardi con un deficit di 11, ma la versione finale muove 36 miliardi, 11 di deficit e 3,4 di “cuscinetto” per placare la Commissione. Quindi l’impatto espansivo non è 11, ma 7,6 (11 meno i 3,4 di cuscinetto), dunque la crescita sarà inferiore al previsto. E questo aggiunge elementi per dubitare dei numeri del governo. Un pasticcio che si complica ogni giorno di più.
È il primo anno in cui, come previsto dal Fiscal Compact, un’autorità indipendente esamina e commenta i numeri del governo. Nel documento dell’Upb, di cui in Italia si sono accorti in pochi, ci sono commenti politicamente esplosivi. Primo dato: le stime di crescita del governo su 2016, 2017 e 2018 sono discutibili. Uno 0,2 per cento nel 2016 e 0,4 nei due anni seguenti dipendono dall’impatto delle riforme strutturali (lavoro, Pubblica amministrazione ecc.), una misura “essenzialmente affidata alla valutazione discrezionale dell’analista, con conseguente rischio di errori e dimensioni nelle stime del loro impatto macroeconomico”. Come dire che sono numeri sparati a caso. Secondo punto critico segnalato da Pisauro e dall’Upb: i conti legittimano un rinvio del pareggio di bilancio di un anno, cioè dal 2015 al 2016, ma non di due, come chiede il governo. All’Italia è richiesto un aggiustamento dello 0,5 del Pil, cui si può derogare se ci sono due condizioni: se la crescita è negativa (e nel 2014 è di -0,3) e se a causa della recessione l’economia reale è molto lontana dal suo potenziale (in gergo: l’output gap è sopra il 4 per cento, e nel 2014 è al 4,3). Quindi è lecito non prevedere l’aggiustamento di 0,5 punti, circa 7,5 miliardi, nel 2015. Ma il governo prevede poi una piccola ripresa nel 2015 e un output gap al 3,5, quindi nessuna delle due condizioni richieste per rimandare ancora i tagli sarebbe rispettata. Delle due l’una: o il governo non ha diritto a rinviare il pareggio di bilancio al 2017, o sono sbagliati i numeri ma allora significa che il prossimo anno il deficit sfonderà la soglia del 3 per cento del Pil. C’è un’altra cosa che i tecnici di Bruxelles non hanno preso bene: tutti i conti dell’Upb sono fatti sulla manovra da 30 miliardi con un deficit di 11, ma la versione finale muove 36 miliardi, 11 di deficit e 3,4 di “cuscinetto” per placare la Commissione. Quindi l’impatto espansivo non è 11, ma 7,6 (11 meno i 3,4 di cuscinetto), dunque la crescita sarà inferiore al previsto. E questo aggiunge elementi per dubitare dei numeri del governo. Un pasticcio che si complica ogni giorno di più.
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