Tratto da “La
Rete ci ha reso soli e il popolo non esiste più”, colloquio di Wlodek
Goldkorn con Ilvo Diamanti pubblicato sul settimanale L’Espresso del 30 di agosto
2018: (…). Dice Diamanti: «Lo Stato non si è mai fidato dei cittadini e i
cittadini hanno sempre ricambiato, non si sono mai fidati dello Stato». E
prosegue: «Rispetto al passato è mutata la situazione politica; oggi la
mancanza di mediazione, o meglio quello che noi politologi chiamiamo la disintermediazione
è nei fatti. (…). Mi permetta di fare il demagogo. Si è mai chiesto perché in
Italia la pressione fiscale è maggiore che altrove e per quale motivo il
sistema fiscale è meno sopportabile che altrove?»
Perché in Italia l’evasione fiscale è una prassi più diffusa che in altre nazioni occidentali. «Ecco, le tasse sono la misura dell’adesione dei cittadini allo Stato. Per carità, anche altrove esiste il fenomeno dell’evasione; ma solo da noi è considerato una specie di legittima difesa dalle pretese di uno Stato in cui non ci si riconosce fino in fondo. Ma come dicevo il rapporto è reciproco, pure lo Stato diffida dei cittadini e quindi istituisce, sottolineo il termine istituisce, modalità fiscali più pesanti che altrove. Brutalmente: io so che tu mi freghi e quindi ti impongo le tasse maggiori ma anche modalità di pagamento e di controllo tali da diventare matto e che mantengono un ceto di intermediari, fiscalisti, commercialisti, ragionieri che altrove non esiste. E viceversa. Tu mi rendi la vita difficile? E allora io dove posso mi sottraggo ai tuoi controlli, alla tua presenza. In sintesi, siamo un Paese fondato sulla reciproca diffidenza. Mi viene in mente una ricerca fatta nel 1954. Il capitolo sui sentimenti dei cittadini nei confronti dei partiti sembra una specie di manuale di antropologia criminale. Si leggono cose come: “Il Pci? Belve assetate di sangue”. E ancora: “Partito liberale? Servi dei padroni’’ Sulla Democrazia cristiana, idee chiare: “Ladri ladri ladri’”. Ma poi alla domanda: Ma se dovessi iscriverti a un partito a quale aderiresti? La risposta: “Alla Dc’” Qui nel Veneto (e non solo) erano democristiani nonostante considerassero la Dc “un partito di ladri”».
Parliamo di oggi. «Al tempo. Sto dicendo che
l’antipolitica (che è pur sempre politica) è sempre stata un sentimento
prevalente nella società. L’Italia è sempre stata considerata, dagli studiosi,
l’esempio di un Paese dove esisteva una società senza Stato, ma che funzionava.
E la differenza con la situazione attuale è la seguente: nel passato tutti i
partiti politici davano comunque per scontato che lo Stato esistesse. Perché lo
Stato erano loro. La democrazia rappresentativa integrava una società che
altrimenti sarebbe stata lontana dallo Stato. Questo discorso riguardava
perfino Berlusconi. Certo, l’ex cavaliere ha adottato un approccio populista,
personalizzando il rapporto con i cittadini. Ma lo ha fatto rispettando le
regole della mediazione della democrazia rappresentativa e non ha mai messo in
questione le regole del sistema. Non solo, Berlusconi ha integrato e
costituzionalizzato la Lega e i post fascisti, anche se lo ha fatto badando
prima di tutto ai suoi interessi. Oggi invece abbiamo due soggetti politici, il
M5S e la Lega che “disintermediano”. Ed è questo che li distingue da tutti gli
altri, ed è la prima volta che accade. (…). Ciò che li accomuna sono le
divergenze; da tutti gli altri, ma anche tra di loro».
Il rimando è ad Aldo Moro e le sue
convergenze parallele tra la Dc e il Psi. Due partiti fino ad allora rivali
destinati prima o poi a governare insieme. «Oggi, i due soggetti politici, il
M5S e la Lega si sono messi nella stessa identica ottica rispetto alla società,
raccogliendo lo stesso risentimento. E entrambi temono di essere spiazzati
dall’altro. Due soggetti alleati dunque per necessità e concorrenti di fatto».
Andiamo oltre la contingenza e le alleanze
di governo. Stiamo vivendo una crisi della democrazia liberale così come l’abbiamo
conosciuta dal dopo la guerra. Per decenni in Europa non c’era posto per la
destra. I partiti di massa erano più o meno socialdemocratici (anche quando si
proclamavano democrazia cristiana). Perfino i liberali erano a favore di
maggiore uguaglianza. Come si esce da questa crisi? Tornando al vecchio mondo
di cui noi siamo dei sopravvissuti? O immaginando e inventando nuove forme di
democrazia? «La democrazia è mediazione: tra demos e cratos, tra il popolo e il
potere. In termini tecnici la democrazia ha a che fare con i media. E i modelli
di democrazia riflettono le tecnologie e modi di comunicazione. Oggi siamo in
una società in cui la disintermediazione è favorita da diversi processi. Uno di
questi è la crescita del mito della Rete, del digitale. Nel mito del digitale è
incluso anche il mito dell’Agorà, dell’Atene di Pericle: 25 o 30 mila persone,
maschi, si riunivano in una piazza e votavano. La Rete produce l’utopia di
poter ripristinare quella piazza. Ecco come nasce l’idea dell’inutilità del
parlamento. Questo tipo di comunicazione, la Rete, il digitale, favorisce il
populismo perché è la disintermediazione allo stato puro. Ora, il populismo non
percepisce la società come un organismo articolato, composto da gruppi,
territori, classi, interessi vari e contraddittori. Il populismo esprime un
Popolo, uno e indistinto. Ma, attenzione, il Popolo per essere tale ha bisogno
da un lato della figura dell’Altro da cui distinguersi, e dall’altro di un capo
in cui riconoscersi».
Ci torneremo. Intanto, come rispondere a chi
dice: dobbiamo muoverci verso la democrazia diretta? «Dicendo, io sono più
populista di te, andando cioè oltre il populismo. C’è un libretto di Tito Boeri
“Populismo e Stato sociale”, uscito con Laterza. Nella sua ricerca su base
europea, mostra come esista una correlazione statisticamente significativa tra
il deficit di welfare, il deficit di corpi intermedi e l’indice di populismo».
Il vero nemico dei corpi intermedi era però
Renzi. «Infatti, Renzi, per me è un populista. Dove sono finite le sezioni del
Partito democratico?»
Non esistono, o quasi.... «Per carità, non è come gli altri. Ma ha presente la parola Popolocrazia?»
È il titolo del libro scritto da lei con
Marc Lazar. Ne vuole spiegare il significato? «Popolocrazia significa che il
populismo non è una componente altra rispetto alla democrazia ma una categoria
che è ormai dentro la democrazia. Il populismo ha contaminato la democrazia con
le sue logiche. Popolocrazia vuol dire che le regole della competizione
democratica costringono ad adottare un tasso elevato di populismo; e anche che
la legittimazione democratica (la cui misura è determinata sempre di più dai
sondaggi) avviene attraverso un certo stile di comunicazione. Perché il
populismo è stile di comunicazione, che appunto contraddice le regole della
democrazia liberale».
Non ha risposto alla domanda, che fare. «Semplice.
Dimostrare le buone ragioni della rappresentanza. Il populismo si nutre della
solitudine, dello stare sempre attaccati ai dispostivi digitali che ci isolano
gli uni dagli altri».
Infatti. Per fare un esempio banale: vediamo
persone che in una città straniera, non hanno più la curiosità né il contatto
con gli abitanti locali. La strada viene indicata dal Gps su uno smartphone, il
ristorante da un’applicazione. Non ci si perde, niente sorprese e non si deve
chiedere la strada. «Per quanto riguarda le tecnologie: non si torna indietro.
Possiamo però spiegare che nella rappresentanza non siamo soli, siamo in
associazione con gli altri; in piazza o in un congresso. Di questo dobbiamo
parlare».
Prima di arrivare alla definizione della
parola Popolo, una domanda filosofica. Il poeta russo Vladimir Majakovskij, a
un reading, anni prima della Rivoluzione aveva appeso in sala uno striscione:
“Mi piace guardare i bambini mentre muoiono”. Era una provocazione
avanguardistica. Oggi in Rete si trovano espressioni simili ma senza l’aura
dell’avanguardia e non come provocazione. E allora, se la democrazia liberale
presupponeva empatia e solidarietà, ma anche repressione del Male intrinseco a
ognuno di noi, perché oggi il Male non è più represso, ma dilaga?
«È quello che ci siamo detti prima: la
disintermediazione. La mancanza di mediazione implica una mancanza di
moderazione. Ieri per potersi esprimere in pubblico c’era bisogno di una
mediazione, di un giornale, un teatro, una tv. Oggi non più. Oggi ognuno può
provare direttamente il brivido della trasgressione e dell’orrido, ed esserne
il protagonista».
Proviamo a dire cosa è il Popolo? «Storicamente
può essere definito in modi diversi. Una comunità di origini e cultura
(Herder), in tal caso stiamo parlando dell’idea del Volk (il popolo in tedesco;
ndr) come etnos. Oppure la Nazione di Renan, definita come un plebiscito che si
rinnova ogni giorno. Poi ci sono altri modelli come il nostro. L’Italia è una
nazione multiforme, per questo, e grazie all’arte di arrangiarsi, riesce a
sopravvivere ai mutamenti».
I populisti a quale idea del Popolo si
riferiscono? «A quella opposta al Popolo definito dalle istituzioni. Il Popolo
dei populisti è definito invece dai nemici interni e dagli stranieri. Gli
interni sono la casta, gli esterni sono coloro che ci invadono. E noi abbiamo
bisogno di confini proprio per quello, soprattutto oggi che i confini sono
messi in discussione per non dire scomparsi a causa dalla globalizzazione».
Il Popolo è un’invenzione? «Una costruzione.
E per questo ha sempre bisogno di essere definito. Perché definire significa
dare un nome e un confine. La definizione ci permette di comunicare».
C’è però un problema. Gli immigrati sono
l’Altro, il nemico che ci invade. Ma non li possiamo bandire perché il
dispositivo del capitalismo richiede l’immigrazione. «Gli immigrati servono ai
populisti sia come forza lavoro, sia come un fenomeno che aiuta a definire il
Popolo, a tracciare appunto il confine tra il Noi e gli Altri».
Ha usato la parola confine, molto cara ai
sovranisti... «Attenzione, il sovranismo e il populismo non sono la stessa
cosa. Il sovranismo è solo una componente del populismo. In Italia, i due
partiti al governo sono populisti, ma il M5S non è sovranista».
Permetta una suggestione. Il Grande
fratello: dove uno vale uno ed è il pubblico a decidere direttamente chi esce e
chi resta. Forse è una delle origini dell’ondata populista. E forse ancora
prima vengono i funerali di Lady Diana, “principessa del popolo”? «Belle
metafore. Rocco Casalino, il vincitore del Grande Fratello presiede la
comunicazione di Palazzo Chigi. C’è però un paradosso nel dispositivo della
disintermediazione. Si vuole comunicare senza mediazione? Ma la comunicazione è
mediazione. Anche il digitale è un medium. Per questo io parlo della
comunicazione immediata e della società immediata».
Immediato, significa che è stato abolito il
tempo. «Significa la contemporaneità tra espressione, volontà e decisione. Ma
vuol dire anche non mediare, ma come dicevo, non si può non mediare».
Altro paradosso. Il populismo promette di
realizzare molte cose, attraverso un’azione politica. Ma come diceva Zygmunt
Bauman, viviamo in un’epoca in cui il potere ha divorziato dalla politica,
ragione per cui i politici possono promettere solo cose che non sono in gradi
di attuare. «Alla fine diventeranno nemici di se stessi. C’è un’antinomia. Da
un lato, nella narrazione populista il Popolo appunto, è puro, immacolato,
vittima delle lobby e dei corrotti e potenti. E loro, i populisti sono Altro
rispetto a chi comanda. Dall’altro lato, sono i populisti a comandare.
Brutalmente: il populista comanda contro il potere, per cui è allo stesso
momento contropotere e potere. Il problema di questi soggetti è che in fin dei
conti combattono contro se stessi».
E allora potrebbero tentare di mandare per
aria la globalizzazione, visto che è la globalizzazione la causa del divorzio
tra potere e politica. «Lei sta ragionando. Loro no. Loro devono continuare a
parlare, non possono star fermi. È l’antipolitica che pratica la politica. Ma
l’antipolitica è plurimorfa, fluida, cambia perché è immediata. Il Popolo
esiste se lo reinventi ogni minuto. E quindi alla fine da costruttore diventi
distruttore. Devi avere sempre una nave di una Aquarius come icona».
Viene in mente Moby Dick di Melville. «Esatto.
Una nazione inchiodata, per giorni e giorni a inseguire una barca».
Il futuro della sinistra? «Finché non ci
saranno nuovi valori, nuovi obiettivi, nuove fratture, non si avrà possibilità
di costruire una sinistra. La sinistra nasce dalle fratture; tra lavoro e
capitale, fra classi sociali. Il Popolo invece non conosce fratture. Il
populismo è contestuale alla mancanza del futuro e del passato».
Sta dicendo che il populismo è l’estrema
conseguenza del neo-liberalismo, dell’abolizione del futuro come agire
collettivo? «Sì. Il futuro è già passato. Ma torniamo alla sinistra: per dire
verso dove si va si deve indicare da dove si viene. La società immediata (come
la chiamo io) ha rimosso il passato e la storia e per questo non ha futuro. La
sinistra ha accettato questo principio, per cui non vedo come farà a
rinascere».(…).
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