Tratto da “Non
basta dire che si deve accoglierli” di Renzo Guolo, pubblicato sul
settimanale L'Espresso del 23 di settembre 2018: (…). La sinistra ha
illuministicamente pensato che il tempo avrebbe comunque appianato gli eccessi.
Ottimismo della volontà che, poco gramscianamente, metteva da parte la
necessaria dose di pessimismo della ragione.
Tanto da rimuovere l'idea che le culture possano essere, senza politiche e pedagogie pubbliche che aiutino a scongiurare quell'esito, motore di conflitti e non solo di convivenza. Eppure bastava guardare a quanto avveniva nel Nordest, granaio elettorale della Lega. Il capitalismo molecolare nordestino, policentrico per natura, ha popolato di immigrati non solo i centri urbani ma anche i piccoli paesi e le frazioni di campagne di quell'area. Se quella disseminazione territoriale ha scongiurato la nascita di grandi spazi di segregazione urbana e sociale, incubatori di conflitti potenzialmente acuti, non di meno ha reso palese ai più che la globalizzazione non faceva circolare solo capitali, merci e forza-lavoro, ma anche persone con le proprie identità culturali. Una constatazione che ha generato spaesamento e senso di spossessamento. Sino a dilatare, tra gli autoctoni, i fantasmi della perdita della propria cultura. (…). Di fronte a simili reazioni, spesso abnormi, sarebbe servito un discorso chiaro sulle difficoltà - oggettive ma non insormontabili - di ogni processo d'integrazione. Senza il timore di inseguire i competitori politici su un terreno ritenuto di destra. La sinistra, invece, non ha proferito verbo. Costretta al silenzio dal peso delle sue stesse culture di riferimento, quella di ispirazione marxista e quella cattolica progressista. La prima, in una sorta di "complesso di Kurtz", il conradiano protagonista di "Cuore di tenebra", vede nei migranti i figli dello sfruttamento coloniale e neocoloniale da risarcire per riparare agli orrori e agli errori dell'Occidente. La seconda guarda ai migranti come ai poveri e ai fratelli in Cristo. Richiami ideali che però non riescono a placare i timori di quella parte di società sempre più desiderosa di protezione che chiede efficaci pratiche di governo del fenomeno "qui e ora". Uno sguardo, quello della sinistra, gravato dalla ricerca di un effetto "compensativo". Alle prese dopo il 1989 con un serio problema d'identità, ha surrogato la subalternità all'ideologia liberista e a una visione acritica della globalizzazione, mediante un meccanismo sostitutivo: la sua vocazione universalista e umanista troverà nei diritti umani, in particolare quelli dei nuovi dannati della terra, un nuovo terreno di richiamo. Limitandosi per il resto a proporsi di gestire le conseguenze prodotte dall'incessante lavorio della talpa del capitale globale nelle viscere della società. Dando così l'impressione di occuparsi solo degli ultimi di "fuori". Il successo dello slogan "prima gli italiani", che ne fa un bersaglio senza che possa nemmeno poter mobilitare elettoralmente quelli per cui si batte (privi del diritto di voto), non è comprensibile senza questo fermo immagine. (…). Per i suoi valori la sinistra è, naturalmente, portata all'accoglienza. Ma "che fare" di poveri ed ex-colonizzati una volta in Italia? Come governare non solo il presente ma anche il futuro, oltretutto in un contesto destrutturato dalla crisi del welfare e dall'aumento delle diseguaglianze? Paradossalmente ma non troppo, nonostante le ispirazioni solidaristiche, la sinistra è incappata, sul punto, nella sindrome di Lord Chandos: la parola ha lasciato il posto al silenzio che introietta la consapevolezza che dire diviene impossibile. Perché significherebbe mettere in discussione molto, se non tutto. Un silenzio che la condurrà a una passiva adesione a un "liberismo sociale" che affida i processi d'integrazione culturale all'evolversi delle dinamiche societarie. Rinunciando a governare le contraddizioni che nel frattempo esploderanno "in seno al popolo". Certo, le culture mutano interagendo tra loro, ma cicli politici e cicli culturali hanno tempi diversi. I primi hanno come orizzonte il breve periodo, i secondi il lungo. Tanto più in un paese monoculturale come l'Italia, storicamente alieno dal misurarsi con la differenza. L'evitare di affrontare la questione dell'integrazione culturale favorirà sia le chiusure xenofobe sia quelle etno-comunitarie di taluni gruppi di migranti. (…). La via della rinuncia ha avuto un momento topico tra la fine degli anni Novanta e i primi anni del nuovo secolo, quando - senza un vero confronto tra politica e saperi - verrà scartata l'ipotesi di adottare un qualsiasi modello d'integrazione culturale destinato, come in altri paesi europei, a definire regole del gioco e forme e limiti del riconoscimento delle differenze. Prevarrà la tesi sull'inutile rigidità dei modelli nelle loro varie versioni: assimilazionisti, multiculturalisti o pluralisti. Preferendo procedere attraverso misure legislative su singoli temi: scuola, politiche urbane, libertà religiosa. Le dinamiche dell'alternanza politica vanificheranno la scelta del passo dopo passo, svuotando quei provvedimenti a ogni cambio di maggioranza. Finirà così tra parentesi anche il discorso pubblico che sorregge ogni modello: quello che esplicita a cittadini e residenti strumenti e finalità dell'integrazione culturale. Nel panorama italiano, dunque, non vi sarà traccia di una discussione simile a quella francese, britannica o tedesca che, negli ultimi decenni, ha cercato di rispondere all'interrogativo sul come sia possibile far convivere culture diverse all'interno del medesimo spazio sociale. Un vuoto che farà diventare egemone un "assimilazionismo senza assimilazione", fondato sull'idea che gli stranieri devono accettare regole e valori della società italiana e che la politica non deve fare nulla che incoraggi il riconoscimento della differenza, ritenuta disgregante. Un tipo di considerazione diffusa, oggi, in tutta Europa. Come dimostra il recente risultato elettorale svedese: l'avanzata dei partiti xenofobi è determinata anche dalla protesta di cittadini che stigmatizzano gli stranieri non solo perché concorrenti sul terreno del welfare ma perché ne usufruiscono senza condividere quella partecipazione civica ritenuta costitutiva del patto di cittadinanza. Fatto che, nella culla della socialdemocrazia scandinava, appare inaccettabile anche a elettori prima orientati a sinistra. Uno smottamento che investe ovunque settori di opinione pubblica liberale e progressista che convergono sulle posizioni della destra xenofoba in nome di valori che sentono minacciati da identità altrui ritenute regressive. Come quei pezzi di movimento femminista o Lgbt che imputano a taluni gruppi di immigrati chiusure sessiste. Insomma, il discorso della sinistra sull'immigrazione deve tenere conto non solo della sicurezza ma anche dei crescenti timori per la coesione culturale. La sfida si gioca su questo duplice piano.
Tanto da rimuovere l'idea che le culture possano essere, senza politiche e pedagogie pubbliche che aiutino a scongiurare quell'esito, motore di conflitti e non solo di convivenza. Eppure bastava guardare a quanto avveniva nel Nordest, granaio elettorale della Lega. Il capitalismo molecolare nordestino, policentrico per natura, ha popolato di immigrati non solo i centri urbani ma anche i piccoli paesi e le frazioni di campagne di quell'area. Se quella disseminazione territoriale ha scongiurato la nascita di grandi spazi di segregazione urbana e sociale, incubatori di conflitti potenzialmente acuti, non di meno ha reso palese ai più che la globalizzazione non faceva circolare solo capitali, merci e forza-lavoro, ma anche persone con le proprie identità culturali. Una constatazione che ha generato spaesamento e senso di spossessamento. Sino a dilatare, tra gli autoctoni, i fantasmi della perdita della propria cultura. (…). Di fronte a simili reazioni, spesso abnormi, sarebbe servito un discorso chiaro sulle difficoltà - oggettive ma non insormontabili - di ogni processo d'integrazione. Senza il timore di inseguire i competitori politici su un terreno ritenuto di destra. La sinistra, invece, non ha proferito verbo. Costretta al silenzio dal peso delle sue stesse culture di riferimento, quella di ispirazione marxista e quella cattolica progressista. La prima, in una sorta di "complesso di Kurtz", il conradiano protagonista di "Cuore di tenebra", vede nei migranti i figli dello sfruttamento coloniale e neocoloniale da risarcire per riparare agli orrori e agli errori dell'Occidente. La seconda guarda ai migranti come ai poveri e ai fratelli in Cristo. Richiami ideali che però non riescono a placare i timori di quella parte di società sempre più desiderosa di protezione che chiede efficaci pratiche di governo del fenomeno "qui e ora". Uno sguardo, quello della sinistra, gravato dalla ricerca di un effetto "compensativo". Alle prese dopo il 1989 con un serio problema d'identità, ha surrogato la subalternità all'ideologia liberista e a una visione acritica della globalizzazione, mediante un meccanismo sostitutivo: la sua vocazione universalista e umanista troverà nei diritti umani, in particolare quelli dei nuovi dannati della terra, un nuovo terreno di richiamo. Limitandosi per il resto a proporsi di gestire le conseguenze prodotte dall'incessante lavorio della talpa del capitale globale nelle viscere della società. Dando così l'impressione di occuparsi solo degli ultimi di "fuori". Il successo dello slogan "prima gli italiani", che ne fa un bersaglio senza che possa nemmeno poter mobilitare elettoralmente quelli per cui si batte (privi del diritto di voto), non è comprensibile senza questo fermo immagine. (…). Per i suoi valori la sinistra è, naturalmente, portata all'accoglienza. Ma "che fare" di poveri ed ex-colonizzati una volta in Italia? Come governare non solo il presente ma anche il futuro, oltretutto in un contesto destrutturato dalla crisi del welfare e dall'aumento delle diseguaglianze? Paradossalmente ma non troppo, nonostante le ispirazioni solidaristiche, la sinistra è incappata, sul punto, nella sindrome di Lord Chandos: la parola ha lasciato il posto al silenzio che introietta la consapevolezza che dire diviene impossibile. Perché significherebbe mettere in discussione molto, se non tutto. Un silenzio che la condurrà a una passiva adesione a un "liberismo sociale" che affida i processi d'integrazione culturale all'evolversi delle dinamiche societarie. Rinunciando a governare le contraddizioni che nel frattempo esploderanno "in seno al popolo". Certo, le culture mutano interagendo tra loro, ma cicli politici e cicli culturali hanno tempi diversi. I primi hanno come orizzonte il breve periodo, i secondi il lungo. Tanto più in un paese monoculturale come l'Italia, storicamente alieno dal misurarsi con la differenza. L'evitare di affrontare la questione dell'integrazione culturale favorirà sia le chiusure xenofobe sia quelle etno-comunitarie di taluni gruppi di migranti. (…). La via della rinuncia ha avuto un momento topico tra la fine degli anni Novanta e i primi anni del nuovo secolo, quando - senza un vero confronto tra politica e saperi - verrà scartata l'ipotesi di adottare un qualsiasi modello d'integrazione culturale destinato, come in altri paesi europei, a definire regole del gioco e forme e limiti del riconoscimento delle differenze. Prevarrà la tesi sull'inutile rigidità dei modelli nelle loro varie versioni: assimilazionisti, multiculturalisti o pluralisti. Preferendo procedere attraverso misure legislative su singoli temi: scuola, politiche urbane, libertà religiosa. Le dinamiche dell'alternanza politica vanificheranno la scelta del passo dopo passo, svuotando quei provvedimenti a ogni cambio di maggioranza. Finirà così tra parentesi anche il discorso pubblico che sorregge ogni modello: quello che esplicita a cittadini e residenti strumenti e finalità dell'integrazione culturale. Nel panorama italiano, dunque, non vi sarà traccia di una discussione simile a quella francese, britannica o tedesca che, negli ultimi decenni, ha cercato di rispondere all'interrogativo sul come sia possibile far convivere culture diverse all'interno del medesimo spazio sociale. Un vuoto che farà diventare egemone un "assimilazionismo senza assimilazione", fondato sull'idea che gli stranieri devono accettare regole e valori della società italiana e che la politica non deve fare nulla che incoraggi il riconoscimento della differenza, ritenuta disgregante. Un tipo di considerazione diffusa, oggi, in tutta Europa. Come dimostra il recente risultato elettorale svedese: l'avanzata dei partiti xenofobi è determinata anche dalla protesta di cittadini che stigmatizzano gli stranieri non solo perché concorrenti sul terreno del welfare ma perché ne usufruiscono senza condividere quella partecipazione civica ritenuta costitutiva del patto di cittadinanza. Fatto che, nella culla della socialdemocrazia scandinava, appare inaccettabile anche a elettori prima orientati a sinistra. Uno smottamento che investe ovunque settori di opinione pubblica liberale e progressista che convergono sulle posizioni della destra xenofoba in nome di valori che sentono minacciati da identità altrui ritenute regressive. Come quei pezzi di movimento femminista o Lgbt che imputano a taluni gruppi di immigrati chiusure sessiste. Insomma, il discorso della sinistra sull'immigrazione deve tenere conto non solo della sicurezza ma anche dei crescenti timori per la coesione culturale. La sfida si gioca su questo duplice piano.
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