Tratto da “Dissento
dunque sono”, colloquio di Wlodek Goldkorn con Ágnes Heller pubblicato sul
settimanale L’Espresso 30 di settembre 2018: (…). «Le identità esistono
invece, noi non siamo esseri astratti, siamo il nostro passato, la nostra
memoria». (…). Se lei è venuto per chiedermi qual è la mia identità, le
rispondo: ne ho diverse, sono ungherese, ebrea, donna, filosofa e potrei
continuare. Ma se mi chiedesse quale tra queste identità sia la più importante,
risponderei: dipende dalla circostanza, da quello che sto facendo e da qual è
il compito che mi sono data. Oggi, per me è di primaria importanza la mia
identità ungherese; e questo a causa del primo ministro Viktor Orbán. Sono
convinta che il suo regime sia estremamente pericoloso per l’Ungheria e per
l’Europa».
Sta dicendo che l’importanza dell’identità è determinata dal grado di insofferenza nei confronti degli avversari. Ma quali sono le ragioni per le quali il discorso sull’identità è diventato cruciale in politica, in Europa? «Per via del nazionalismo etnico, un fenomeno che è causa e al contempo conseguenza del peccato originale del nostro continente: ossia la Prima guerra mondiale. La Grande guerra a sua volta ha generato i regimi totalitari; figli del nazionalismo etnico. Ecco perché si tratta del fenomeno identitario più pericoloso in assoluto».
Tuttavia fino a pochi anni fa, forse fino
alla crisi scatenata dal fallimento di Lehman Bros, non molte persone
consideravano il loro essere italiano o francese la dimensione più importante
della loro identità. «Non è vero. Guardi i giochi olimpici. La gente tifa per
la propria nazione. Forse la questione dell’identità nazionale non era
interessante per gli intellettuali, ma in tal caso hanno sbagliato. E sa
perché? Perché un intellettuale è legato all’idioma in cui crea e comunica. La
lingua nazionale è l’identità del poeta e dello scrittore. E allora la
questione è come definisci la tua identità nazionale e non se questa identità
esiste».
Dal dopo Auschwitz abbiamo però vissuto
nell’idea che il nazionalismo, e quindi il considerare l’identità nazionale
come la più importante delle nostre identità, fosse la via maestra verso il
razzismo e gli orrori. Può esserci un’identità nazionale non pericolosa? «I
francesi l’hanno creata; è l’idea che la Nazione coincide con la Repubblica,
non con l’etnia».
Comunque il populismo avanza. «Cosa vuol
dire populismo? È una parola che viene usata perché abbiamo l’illusione di
vivere ancora in una società divisa in classi. E invece la nostra è una società
di massa. La gente non vota a seconda dell’interesse di classe, ma per
convinzione ideologica. Tutti i partiti politici sono oggi populisti, perché
tutti si rivolgono a tutto il popolo, costruendo narrazioni. E queste
narrazioni sono ideologie, benevole o malevole. Ci sono narrazioni fondate su
verità e narrazioni il cui fondamento è la menzogna. Ma comunque nessuno è in
grado di vincere le elezioni sulla base del programma economico come accadeva
invece una cinquantina di anni fa. Per parafrasare Spinoza: così come una
passione può essere vinta da un’altra passione, la narrazione può essere vinta
da un’altra narrazione. E io, francamente, non so per quale motivo il
nazionalismo etnico venga chiamato populismo».
Una volta lei disse che la nostra identità è
la nostra memoria. Ma si potrebbe obiettare che la memoria è la storia che
raccontiamo a noi stessi e ad altri; quindi in parte immaginazione e
invenzione. Noi ci ricordiamo quello che vogliamo a seconda del momento e della
situazione e di come vogliamo rappresentarci. «Il modo in cui lei rappresenta
la sua memoria ad altri non è il suo passato; ma è invece la narrazione del suo
passato. Lei prende tracce di memoria, scampoli di ricordi e li mette insieme
creando dei nessi. Ma quella storia non è precisamente la memoria; è appunto
solo una storia».
Però un politico può raccontare come vuole
la memoria ungherese, italiana, polacca, senza mentire né inventare, ma dando
una sua versione, funzionale alla sua ideologia, al suo discorso del potere e
quindi manipolata, non condivisa da tutta la nazione. «In tal caso parliamo di
memoria culturale o collettiva, non più individuale. La memoria culturale è
testo. Un testo può essere composto in una maniera differente, a seconda delle
circostanze. Ovviamente, la natura della memoria nazionale dipende dal testo
che si sceglie. Ed è questo che fanno i politici. Del resto sono stati i
politici a inventare le feste nazionali; la prima, il 14 luglio francese. Il
testo delle feste nazionali è differente da quello delle feste religiose. Nelle
feste religiose si ripetono le stesse cose da duemila anni, scritte nei libri
sacri. Nelle feste nazionali è il politico che parla di cose successe qualche
decennio fa; e quasi sempre a sostegno della propria versione della storia. Un
esempio: quello che il governo di Budapest oggi racconta del nostro 1956 (…)
non ha niente a che fare con l’esperienza del 1956 come la ricordo io».
Resta il fatto che le memorie e le identità
degli sconfitti (...) sono tuttora importanti. Perché lo sono? Per quale motivo
ne siamo devoti? O sbagliava Walter Benjamin, quando diceva che nella memoria
degli sconfitti si possono leggere elementi del futuro? «Non sbagliava. Però,
una cosa la devo dire: la memoria degli sconfitti è importante per chi tra gli
sconfitti è vivo. Degli antichi popoli, delle antiche tribù, scomparsi sappiamo
poco o niente. Nell’assenza della vita, la memoria si estingue. Resta come
tradizione».
Lei come filosofa parla spesso della
libertà. L’identità ha a che fare con la libertà? Noi scegliamo la nostra
identità, o no? «La scegliamo, ma fino a un certo punto. Possiamo
“ri-scegliere” quello che siamo. Io “ri-scelgo” di essere ebrea e donna. In
altre parole: io ho deciso di essere donna ed ebrea. E questa è l’espressione
della mia volontà. Ma ci sono altre identità che non scegliamo e in cui siamo nati».
Facciamo un provvisorio riassunto. L’identità è sempre stata importante, è plurale, parzialmente la possiamo scegliere, se diventa un discorso etnico è estremamente pericolosa maneggiata dai politici. E tuttavia, nella letteratura, nell’ambito della moda (un linguaggio universale che parla del futuro), tra i giovani va forte una figura che in tedesco si chiama “Doppelgänger”, il doppio; l’ambivalente. Facciamo due esempi: se guarda come sono vestiti i ragazzi nelle nostre metropoli, ha l’impressione che siano androgini, abbiano una doppia identità sessuale. E poi, il successo di un romanzo come “Giuda” di Amos Oz, dove il tradimento è presentato come una necessità e un’ipotesi di azione da persone oneste e perbene. «Quella del tradimento è una storia vecchia. Già nella Bibbia Geremia è accusato di essere un traditore (…). E se parliamo del libro di Oz, è pur sempre fiction».
Facciamo un provvisorio riassunto. L’identità è sempre stata importante, è plurale, parzialmente la possiamo scegliere, se diventa un discorso etnico è estremamente pericolosa maneggiata dai politici. E tuttavia, nella letteratura, nell’ambito della moda (un linguaggio universale che parla del futuro), tra i giovani va forte una figura che in tedesco si chiama “Doppelgänger”, il doppio; l’ambivalente. Facciamo due esempi: se guarda come sono vestiti i ragazzi nelle nostre metropoli, ha l’impressione che siano androgini, abbiano una doppia identità sessuale. E poi, il successo di un romanzo come “Giuda” di Amos Oz, dove il tradimento è presentato come una necessità e un’ipotesi di azione da persone oneste e perbene. «Quella del tradimento è una storia vecchia. Già nella Bibbia Geremia è accusato di essere un traditore (…). E se parliamo del libro di Oz, è pur sempre fiction».
Sarà fiction, ma c’è un personaggio che
ricorda un intellettuale israeliano vero, contrario alla nascita dello Stato. «Se
nel 1947 eri contro la nascita dello Stato ebraico, eri un traditore».
E allora, la stessa domanda riformulata: nel
mondo in cui i nazionalisti ci dicono che si può avere una sola identità e che
quella identità esclude l’Altro, dobbiamo avere il coraggio di essere
traditori? «Dipende. Dobbiamo averlo, quando è giusto passare per traditori».
Willy Brandt e Marlene Dietrich tradirono,
si schierarono con gli alleati contro la loro patria, la Germania. «Avevano
ragione. Come avevano ragione i deputati ungheresi a Strasburgo che hanno
votato a favore delle sanzioni contro l’Ungheria di Orbán. La vera domanda però
è un’altra: un giudice per farsi accreditare come buon ungherese deve tradire
la propria professione?».
Professoressa Heller, quando diventiamo
anziani, spesso proviamo bisogno di tornare ai nostri luoghi d’infanzia, per
esempio a Budapest; di indagare sui nostri nonni, specie quando non li abbiamo
conosciuti (condizione comune per gli ebrei della generazione nata subito dopo
la Catastrofe). Perché questo bisogno di tornare alle radici? «Io non ne ho
bisogno e non sono tornata a Budapest per cercare le mie radici. Ma posso
parlare dei miei amici e conoscenti. È moda. Specie se si fa parte di un
ambiente cosmopolita. Le racconto una storia: tanti anni fa a Roma a Campo de’
Fiori ho chiesto al proprietario del ristorante come andare da un’altra parte
della città. Mi rispose: “Non so, non ho mai lasciato questo quartiere”. Poi,
sull’aereo per l’Australia una donna mi raccontava di avere un appartamento a
Sydney, uno a Hong Kong, un altro a New York. Le ho chiesto dove stava di casa.
Mi ha risposto: “La casa è dove sta il gatto”».
Può un immigrato sentirsi a casa in Italia, senza saper l’italiano, senza saper leggere Dante e quindi senza avere una certa conoscenza della tradizione e della cultura cristiana? «Sinceramente non lo so. Negli Stati nazione l’integrazione significa assimilazione. È quanto è stato chiesto agli ebrei negli Stati etnici, ad esempio in Ungheria. Ma a New York integrazione non significa assimilazione; sei cittadino e basta. Questa è la regola in tutto il mondo nuovo. Ho vissuto in Australia. Dopo tre anni sono diventata cittadina e considerata filosofa australiana. Punto».
Proviamo a parlare di capitalismo e identità
e memoria. Il capitale ha memoria? «Non esiste il capitale, come entità fisica.
Marx ha definito il capitale come un rapporto sociale. Un rapporto sociale non
può avere memoria».
Ma allora perché con la globalizzazione
l’identità nazionale si è rafforzata? In apparenza è un paradosso. «Farei
alcuni distinguo. Intanto, ci sono fenomeni che non possono essere
globalizzati. Quello che invece sicuramente si può globalizzare è la cultura.
Se lei va alla Biennale di Venezia, vedrà opere di vari Paesi che non si
differenziano l’una dall’altra; se va in Cina, la lirica è la Traviata o il
Ring wagneriano. Ma se prendiamo in considerazione personaggi come Orbán,
Erdogan, Putin, allora parliamo del profitto, della redistribuzione degli
utili, in un modo opposto a quello socialdemocratico. Chi serve il tiranno può
avere successo e soldi, chi non lo serve è escluso».
Sta dicendo che l’ideologia identitaria è
solo una maschera del potere? «No. Ma perché una simile ideologia vinca occorre
che ci sia bisogno di identità e nostalgia per un capo che indichi la strada,
dica cosa fare: la sindrome della paura della libertà».
Resta inevasa la domanda sul perché abbiamo
bisogno di identità. «Perché è molto difficile essere umani. Il mondo in cui
gli umani crescono è pericoloso, strano, o nel migliore dei casi, difficile.
Per combattere la solitudine l’essere umano deve definire se stesso».
Era più facile essere umani in una società
di classi, dove era chiaro chi era il subalterno? «Era più facile finché
esistevano le comunità. Si nasceva, si viveva, si moriva nello stesso luogo. E
tutti sapevano a quale luogo e quale classe appartenevano».
Sarebbe di rito una domanda sul futuro della
sinistra. Ma invece cito Zygmunt Bauman, che un giorno mi disse: dal momento
che non ci sono più modi di vita e quindi identità di classe operaia, è
difficile definire la sinistra. «La divisione tra destra e sinistra appartiene
al passato. Esisteva dalla metà dell’Ottocento e fino alla fine del Novecento.
Oggi in Europa la linea di divisione passa tra i federalisti e il nazionalismo
etnico. La vittoria dei nazionalismi etnici signiicherebbe la fine dell’Europa.
Non è retorica. Non abbiamo più la forza economica né la nostra cultura è
particolarmente interessante. Ci resta solo la democrazia liberale. Se
rinunciamo a questa, abbiamo chiuso».
Domanda supplementare. Cos’è il Male? «Sono
in totale disaccordo con Hannah Arendt: il Male non è banale né è la mancanza
di riflessione. E del resto neanche lei lo poteva pensare seriamente, lo ha
detto perché era incapace di tradire il pensiero di Heidegger. Io ho la mia
concezione del Male e del Male radicale. In breve, e per citare Thomas Mann,
tutti noi violiamo i dieci comandamenti, desideriamo la donna altrui, a volte
rubiamo, nell’immaginazione uccidiamo. Ma il Male radicale si ha quando
qualcuno dice: devi rubare, devi uccidere, devi far soffrire l’altro. E perché
quel Male si manifesti, occorrono certe condizioni sociali e politiche».
E la cosa più importante nella sua vita? «Dipende
dal momento. Ma il momento più bello fu quando vidi il carro armato sovietico
entrare nel ghetto dove ero rinchiusa. Quel carro armato significava vita».
Gli stessi carri nel 1956 portarono morte e
oppressione. «La liberazione non sempre significa libertà. Le ho detto che è
difficile essere umani».
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