Tratto da “Quanto
vale il denaro?” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale D del 15
di ottobre dell’anno 2016: Quando è stato inventato ha liberato i servi
dai signori. Oggi che è il fine ultimo ci rende servi di falsi bisogni. Che
cos'è il denaro? Aristotele diceva che con esso non si può costruire una
ricchezza, perché il denaro non è un bene, ma il simbolo di un bene, e con i
simboli non ci si arricchisce. I Greci antichi chiamavano il denaro
"nómisma" e "nómos" la legge. Il denaro non ha infatti un
valore in sé, ma in virtù di una legge che lo istituisce, in forza della quale
il denaro ha una circolazione e un "corso legale". Oggi la finanza,
scambiando denaro con denaro, produce una ricchezza decisamente superiore a
quella che si può ottenere lavorando con i beni prodotti della terra o
dall'industria. Il denaro, simbolo del bene, diventa più importante dei beni
Nel Vangelo di Luca (6, 35) leggiamo: «Mutuum date nihil inde sperantes», date
in prestito senza sperare niente. Nell'Occidente cristiano, ditelo alle banche,
molte delle quali, tra l'altro, portano nomi di santi... Eppure, durante la sua
storia, il denaro è stato anche uno strumento di liberazione perché, nel regime
feudale, dove il servo doveva consegnare l'intero suo tempo e l'intera sua
esistenza al signore, l'introduzione del denaro ha reso possibile oggettivare i
rapporti personali: il servo non doveva più mettere a disposizione del signore
l'intera sua vita, ma solo la sua prestazione in cambio di una remunerazione.
Qui però i benefici dell'introduzione del denaro finiscono. Man mano infatti
che il denaro diventa la condizione universale per soddisfare qualsiasi bisogno
e per produrre qualsiasi bene, cessa di essere un "mezzo" in vista di
quegli scopi, per diventare esso stesso il "fine ultimo", per
acquisire il quale si stabilisce se è il caso di soddisfare i bisogni (soprattutto
quelli di chi non ha denaro) e in che misura produrre i beni onde evitare che
l'offerta sia più copiosa della domanda, e quindi non garantisca un buon prezzo
(è questa la ragione per cui ancora oggi si distruggono i prodotti agricoli la
cui eccessiva quantità potrebbe far crollare il prezzo di mercato).
A partire dal denaro, divenuto il generatore simbolico di tutti i valori, si cominciò a considerare le persone esclusivamente in quanto produttori e consumatori, annodati in un circolo viziosissimo per cui se non si consuma non si produce e se non si produce crescono la disoccupazione e la povertà in generale. A questo punto tutti siamo invitati a un "consumo forzato". E se di acquistare merci nuove non abbiamo bisogno perché i nostri vestiti, o le nostre automobili, i nostri televisori, i nostri telefonini, sono ancora in buono stato, allora subentra la moda a metterli fuori uso perché, anche se ancora utilizzabili, sono socialmente "fuori moda". Se la moda incentiva i consumi, la pubblicità incentiva la produzione non solo di merci, di cui siamo più o meno tutti saturi, ma di bisogni. Perché anche i bisogni, veri o fittizi che siano, sono oggetto di produzione, come dimostra il fatto che la pubblicità prima induce il bisogno e poi offre la merce per soddisfare il bisogno che ha indotto. Ma non è sufficiente. È necessario che i prodotti si consumino il più rapidamente possibile, al punto che la data di scadenza non l'hanno solo gli alimentari, ma tutte le cose. In due modi: il primo, quando un pezzo si rompe e ti dicono che non vale la pena di ripararlo perché ti costa più o meno come un apparecchio nuovo; il secondo con i prodotti, soprattutto elettronici, che hanno inserito il principio di autodistruzione e si estinguono da soli dopo un certo tempo. C'è chi se la prende con i filosofi nichilisti senza accorgersi che in pieno nichilismo viviamo, se il rapporto produzione-consumo che regge il mercato prevede che tutte le cose siano portate al nulla nel tempo più rapido possibile. E tutto questo per produrre denaro che, da mezzo, è diventato il fine di ogni nostro agire, al punto che anche le cose più eccelse, più sublimi, più spirituali, come possono essere le opere d'arte, anche loro diventano tali solo se entrano nel mercato. Il quale, al pari di un dio, le carica di quel valore di scambio, che, spiegava Marx, a differenza del valore d'uso, è in grado di produrre denaro. Altri valori in circolazione non se ne vedono, per cui anche la nostra percezione del mondo cambia, perché più non riusciamo a riconoscere che cosa è giusto, che cosa è buono, che cosa è vero, che cosa è santo, ma solo che cosa è utile. E non solo la nostra percezione, ma anche il nostro pensiero subisce una pesante limitazione, riducendosi, come scrive Heidegger, al pensiero che «sa fare solo di conto» («Denken als rechnen»).
A partire dal denaro, divenuto il generatore simbolico di tutti i valori, si cominciò a considerare le persone esclusivamente in quanto produttori e consumatori, annodati in un circolo viziosissimo per cui se non si consuma non si produce e se non si produce crescono la disoccupazione e la povertà in generale. A questo punto tutti siamo invitati a un "consumo forzato". E se di acquistare merci nuove non abbiamo bisogno perché i nostri vestiti, o le nostre automobili, i nostri televisori, i nostri telefonini, sono ancora in buono stato, allora subentra la moda a metterli fuori uso perché, anche se ancora utilizzabili, sono socialmente "fuori moda". Se la moda incentiva i consumi, la pubblicità incentiva la produzione non solo di merci, di cui siamo più o meno tutti saturi, ma di bisogni. Perché anche i bisogni, veri o fittizi che siano, sono oggetto di produzione, come dimostra il fatto che la pubblicità prima induce il bisogno e poi offre la merce per soddisfare il bisogno che ha indotto. Ma non è sufficiente. È necessario che i prodotti si consumino il più rapidamente possibile, al punto che la data di scadenza non l'hanno solo gli alimentari, ma tutte le cose. In due modi: il primo, quando un pezzo si rompe e ti dicono che non vale la pena di ripararlo perché ti costa più o meno come un apparecchio nuovo; il secondo con i prodotti, soprattutto elettronici, che hanno inserito il principio di autodistruzione e si estinguono da soli dopo un certo tempo. C'è chi se la prende con i filosofi nichilisti senza accorgersi che in pieno nichilismo viviamo, se il rapporto produzione-consumo che regge il mercato prevede che tutte le cose siano portate al nulla nel tempo più rapido possibile. E tutto questo per produrre denaro che, da mezzo, è diventato il fine di ogni nostro agire, al punto che anche le cose più eccelse, più sublimi, più spirituali, come possono essere le opere d'arte, anche loro diventano tali solo se entrano nel mercato. Il quale, al pari di un dio, le carica di quel valore di scambio, che, spiegava Marx, a differenza del valore d'uso, è in grado di produrre denaro. Altri valori in circolazione non se ne vedono, per cui anche la nostra percezione del mondo cambia, perché più non riusciamo a riconoscere che cosa è giusto, che cosa è buono, che cosa è vero, che cosa è santo, ma solo che cosa è utile. E non solo la nostra percezione, ma anche il nostro pensiero subisce una pesante limitazione, riducendosi, come scrive Heidegger, al pensiero che «sa fare solo di conto» («Denken als rechnen»).
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