Provate a leggere questa “sfogliatura”
– ultima della serie – e provate in pari tempo a negare che essa non vi
riconduca, per meccanismi innegabili, alla vita politica dell’oggi. Tali e
tanti sono gli aspetti che essa – la politica dell’oggi, intendo dire - condivide
con la vita politica del tempo della “sfogliatura” che, tolti i
riferimenti specifici ai fatti, agli accadimenti ed ai protagonisti di quel
tempo, sembra proprio che la vita politica del bel paese non abbia fatto un
passo in avanti, così come al tempo nostro del cosiddetto “cambiamento” si
strombazza ai quattro venti, con il fiato lungo ma la memoria cortissima, di un
incauto, moderno stralunato pifferaio di Hamelin. Per non dire, anzi per ricordare
ai più smemorati, che il tempo del “cambiamento” era stato preceduto da
quel tempo non meno cupo della “rottamazione”, con gli esiti che
sono sotto gli sgranati ed attoniti occhi dei più. La “sfogliatura” risale al
mercoledì 11 di febbraio dell’anno 2009. Buona lettura allora: Se fossimo in un paese normale, come i tanti
paesi normali di questo universo mondo, un paese normale che anche nelle
diatribe politiche più asperrime riuscisse a ritrovare sempre un bandolo di
ragionamento collettivo, così come la cura degli affari pubblici prescrive, se
fossimo in un paese normale, si potrebbe pensare di voltare pagina dopo le
intemerate ultime contro gli assetti costituzionali del bel paese, e contro le
persone di questo disastrato paese, pronunciate dal condottiero di Arcore? Se
fossimo in un paese normale una tale eventualità sarebbe da escludersi. La
cronaca politica insegna tutt’altro. Se fossimo in un paese normale non sarebbe
stato permesso a nessuno di offendere i colori della bandiera del bel paese. Eppure
è potuto venire il tollerato insulto da parte di reggitori della cosa pubblica,
suggerendo essi un utilizzo disonorevole del vessillo che dovrebbe
rappresentare l’unità del bel paese. Se fossimo in un paese normale non sarebbe
stato possibile minacciare, in perfetto stile mafiocamo’ndrangheista, altri
cittadini del bel paese, dichiarando spavaldamente l’irrisorietà della spesa (allora
in misere lire) per l’acquisto delle pallottole con le quali freddare i giudici
ritenuti ostili. Eppure è potuto accadere da parte di reggitori della cosa
pubblica. Se fossimo in un paese normale, che avesse un primo ministro che si
ritenesse chiamato a governare per tutti e non per occupare posizioni e spazi incontrollati
di potere politico, mediatico e finanziario; che avesse un primo ministro che
governasse e non comandasse “pro domo
sua”; se fossimo in un paese normale, non avremmo mai e poi mai ascoltato
dalla viva voce del primo dei ministri o del presidente del (mal)consiglio che
dir si voglia, parole irripetibili nei
confronti dei giudici, delle donne, degli inermi, degli elettori della parte
avversa – i cosiddetti coglioni - ecc. ecc. Non siamo affatto in un paese
normale. Seppellito quel corpo inerme da lustri e lustri, è possibile
continuare come se nulla fosse stato detto o tentato di fare? A me pare proprio
che non sia possibile più. Se il paese non è normale, come non lo è, seppellire
allora il tutto assieme ai resti della cara a tutti noi Eluana e far finta di
nulla significa avviarsi con lesto passo verso un orrido profondo che più
profondo sarebbe impossibile immaginare. Ma se un paese che sia normale, e
normale non lo è, per come siano venuti a svolgersi gli eventi politico-sociali
da quindici anni a questa parte, con responsabilità innegabili da parte di tutte
le forze politiche e dei loro massimi rappresentanti senza esclusione alcuna;
ma se un paese che fosse normale, almeno in alcune sue frange, in alcune sue
minoranze, e questo paese di minoranza non volesse passare oltre girando lo
sguardo altrove, come sicuramente verrà invitato a fare dai pompieri di turno; questo
paese che sia normale, se c’è, questa parte normale e riflessiva del paese seppur
minoritaria, dovrà continuare a riflettere, ad interrogarsi e a denunciare ad
alta voce le parole e gli atti compiuti mentre Eluana compiva il suo tragico
percorso. E mentre il paese si svuota o perde progressivamente, per insuperabili
limiti naturali, le coscienze più alte e più nobili, gli intelletti più fulgidi
e vivi, lasciando libero il campo alla cachistocrazia più sfacciata ed
illiberale che si possa immaginare; mentre il paese rimane sempre più orfano di
guide illuminate e di prestigio universalmente riconosciuto, occorre ricercare
e sollecitare il concorso dialettico e fattivo di tutti, in tutte le forme
democratiche possibili, affinché la barra di navigazione della “nave sanza nocchiero in gran tempesta”
non conduca il capitano di vascello, la sua stralunata ciurma di comando ed il
suo numerosissimo seguito ad arenarsi, sospinti dai marosi di questi agitatissimi
tempi, ad arenarsi dicevo verso approdi malsicuri assai per la salute di tutti ed
inesplorati.
Soccorre, in questi tribolati momenti, il pensiero lucido di un Maestro, autorevole, un Maestro della sapienza di Gustavo Zagrebelsky, che di recente ha rilasciato al quotidiano – 9 di febbraio - “la Repubblica” una straordinaria, intensissima riflessione col titolo “Il veleno nichilista che anima il regime”. Ne trascrivo di seguito le parti più salienti. Lo spirito malefico del tempo impone una attenzione vigile assai a tutti. (…). Se, parlando di regime oggi, è inevitabile che il pensiero corra a ciò che si denomina genericamente “berlusconismo”, dobbiamo tenere presente che qui non si tratta di vizi o virtù personali ma di una concezione generale del potere che si irraggia più in là. Colpisce che tutti i tentativi per arrivare a cogliere un'essenza - giusti o sbagliati che siano - si fermino comunque ai mezzi: denaro, televisione, blandizie e minacce, corruzione, seduzione, confusione del pubblico nel privato e viceversa, impunità, sondaggi, eccetera. Ma tutto ciò in vista di quale fine? Proprio il fine dovrebbe essere ciò che qualifica l'essenza di un regime politico, ciò che gli dà senso e ne rende comprensibile la natura. Se non c'è un fine, è puro potere, potere per il potere, tautologia. Ma qui il fine, distinto dai mezzi, è introvabile. A meno di credere a parole d'ordine tanto generiche da non significare nulla o da poter significare qualunque cosa - libertà, identità nazionale, difesa dell'Occidente, innovazione, sviluppo, o altre cose di questo genere - il fine non si vede affatto, forse perché non c'è. O, più precisamente, il fine c'è ma coincide con i mezzi: è proteggere e potenziare i mezzi. Una constatazione davvero sbalorditiva: un'aberrazione contro-natura, una volta che la politica sia intesa come rapporto tra mezzi e fini, rapporto necessario affinché il governo delle società sia dotato di senso e il potere e la sua pretesa d'essere riconosciuto come legittimo possano giustificarsi su qualcosa di diverso dallo stesso puro potere. A parte forse l'autore della massima “il potere logora chi non ce l'ha”, nessuno, nemmeno il Principe machiavelliano, ha mai attribuito al potere un valore in sé e per sé stesso. “Il fine giustifica i mezzi” è uno dei motti del machiavellismo politico; ma che succede se “i mezzi giustificano i mezzi”? È la crisi della ragion politica, o della politica tout court. È il trionfo della “ragione strumentale” nella politica. Siamo di fronte a qualcosa di incomprensibile, inafferrabile, incontrollabile, qualcosa all'occorrenza capace di tutto, come in effetti vediamo accadere sotto i nostri occhi: un giorno dialogo, un altro scomuniche; un giorno benevolenza, un altro minacce; un giorno legalità, un altro illegalità; ciò che è detto un giorno è contraddetto il giorno dopo. La coerenza non riguarda i fini ma i mezzi, cioè i mezzi come fini: si tratta di operare, non importa come e con quale coerenza, allo scopo di incrementare risorse, influenza, consenso. Il politico adatto a questa corruzione della vita pubblica è l'uomo senza passato e senza radici, che sa spiegare le vele al vento del momento; oppure l'uomo che crede di avere un passato da dimenticare, anzi da rinnegare, per presentarsi anch'egli come uomo nuovo. È colui che proclama la fine delle distinzioni che obbligherebbero a stare o di qua o di là. Così, si può fingere di essere contemporaneamente di destra e di sinistra o di stare in un centro senza contorni; si può avere un'idea, ma anche un'altra contraria; ci si può presentare come imprenditori e operai; si può essere atei o agnostici ma dire che, comunque, “si è alla ricerca”; si può dare esempio pubblico della più ampia libertà nei rapporti sessuali e farsi paladini della famiglia fondata sul santo matrimonio; si può essere amico del nemico del proprio amico, eccetera, eccetera. Insomma: il politico di successo, in questo regime, è il profittatore, è l'uomo “di circostanza” in ogni senso dell'espressione, è colui che crede in tutto e nel suo contrario. Questo tipo di politico conosce un solo criterio di legittimità del suo potere, lo stare a galla ed espandere la sua influenza. Il suo fallimento non sta nella mancata realizzazione di un qualche progetto politico. Se egli vive di potere che cresce, anche una piccola battuta d'arresto può essere l'inizio della sua fine. Non sarà più creduto. Per questo ogni indecisione, obbiettivo mancato o fallimento deve essere nascosto o mascherato e propagandato come un successo. La corruzione e la mistificazione della dura realtà dei fatti e della loro verità è nell'essenza di questo regime. Il rapporto col mondo esterno corre il rischio di essere “disturbato”. (…).
Soccorre, in questi tribolati momenti, il pensiero lucido di un Maestro, autorevole, un Maestro della sapienza di Gustavo Zagrebelsky, che di recente ha rilasciato al quotidiano – 9 di febbraio - “la Repubblica” una straordinaria, intensissima riflessione col titolo “Il veleno nichilista che anima il regime”. Ne trascrivo di seguito le parti più salienti. Lo spirito malefico del tempo impone una attenzione vigile assai a tutti. (…). Se, parlando di regime oggi, è inevitabile che il pensiero corra a ciò che si denomina genericamente “berlusconismo”, dobbiamo tenere presente che qui non si tratta di vizi o virtù personali ma di una concezione generale del potere che si irraggia più in là. Colpisce che tutti i tentativi per arrivare a cogliere un'essenza - giusti o sbagliati che siano - si fermino comunque ai mezzi: denaro, televisione, blandizie e minacce, corruzione, seduzione, confusione del pubblico nel privato e viceversa, impunità, sondaggi, eccetera. Ma tutto ciò in vista di quale fine? Proprio il fine dovrebbe essere ciò che qualifica l'essenza di un regime politico, ciò che gli dà senso e ne rende comprensibile la natura. Se non c'è un fine, è puro potere, potere per il potere, tautologia. Ma qui il fine, distinto dai mezzi, è introvabile. A meno di credere a parole d'ordine tanto generiche da non significare nulla o da poter significare qualunque cosa - libertà, identità nazionale, difesa dell'Occidente, innovazione, sviluppo, o altre cose di questo genere - il fine non si vede affatto, forse perché non c'è. O, più precisamente, il fine c'è ma coincide con i mezzi: è proteggere e potenziare i mezzi. Una constatazione davvero sbalorditiva: un'aberrazione contro-natura, una volta che la politica sia intesa come rapporto tra mezzi e fini, rapporto necessario affinché il governo delle società sia dotato di senso e il potere e la sua pretesa d'essere riconosciuto come legittimo possano giustificarsi su qualcosa di diverso dallo stesso puro potere. A parte forse l'autore della massima “il potere logora chi non ce l'ha”, nessuno, nemmeno il Principe machiavelliano, ha mai attribuito al potere un valore in sé e per sé stesso. “Il fine giustifica i mezzi” è uno dei motti del machiavellismo politico; ma che succede se “i mezzi giustificano i mezzi”? È la crisi della ragion politica, o della politica tout court. È il trionfo della “ragione strumentale” nella politica. Siamo di fronte a qualcosa di incomprensibile, inafferrabile, incontrollabile, qualcosa all'occorrenza capace di tutto, come in effetti vediamo accadere sotto i nostri occhi: un giorno dialogo, un altro scomuniche; un giorno benevolenza, un altro minacce; un giorno legalità, un altro illegalità; ciò che è detto un giorno è contraddetto il giorno dopo. La coerenza non riguarda i fini ma i mezzi, cioè i mezzi come fini: si tratta di operare, non importa come e con quale coerenza, allo scopo di incrementare risorse, influenza, consenso. Il politico adatto a questa corruzione della vita pubblica è l'uomo senza passato e senza radici, che sa spiegare le vele al vento del momento; oppure l'uomo che crede di avere un passato da dimenticare, anzi da rinnegare, per presentarsi anch'egli come uomo nuovo. È colui che proclama la fine delle distinzioni che obbligherebbero a stare o di qua o di là. Così, si può fingere di essere contemporaneamente di destra e di sinistra o di stare in un centro senza contorni; si può avere un'idea, ma anche un'altra contraria; ci si può presentare come imprenditori e operai; si può essere atei o agnostici ma dire che, comunque, “si è alla ricerca”; si può dare esempio pubblico della più ampia libertà nei rapporti sessuali e farsi paladini della famiglia fondata sul santo matrimonio; si può essere amico del nemico del proprio amico, eccetera, eccetera. Insomma: il politico di successo, in questo regime, è il profittatore, è l'uomo “di circostanza” in ogni senso dell'espressione, è colui che crede in tutto e nel suo contrario. Questo tipo di politico conosce un solo criterio di legittimità del suo potere, lo stare a galla ed espandere la sua influenza. Il suo fallimento non sta nella mancata realizzazione di un qualche progetto politico. Se egli vive di potere che cresce, anche una piccola battuta d'arresto può essere l'inizio della sua fine. Non sarà più creduto. Per questo ogni indecisione, obbiettivo mancato o fallimento deve essere nascosto o mascherato e propagandato come un successo. La corruzione e la mistificazione della dura realtà dei fatti e della loro verità è nell'essenza di questo regime. Il rapporto col mondo esterno corre il rischio di essere “disturbato”. (…).
Nessun commento:
Posta un commento