Da “Settant'anni
fa ci voleva un bel coraggio” di Vittorio Zucconi, pubblicato sul
settimanale “D” del 7 di febbraio dell’anno 2015: Quando mi sembra che tutto vada
per il peggio, tiro fuori un amuleto ingiallito. Che racconta una storia vera. Quando
mi sembra, come sembra a tutti noi adesso, che il mondo stia andando
all'inferno in carriola, quando ogni giorno l'informazione e Internet ci
bombardano, ci sgozzano e ci mitragliano con annunci di Apocalisse prossima
ventura, riprendo in mano un rettangolino di carta color avorio, poco poco
ingiallito dal tempo, come un amuleto. È l'annuncio di una nascita e del
battesimo di un bambino. I genitori, Anna e Mino, lo comunicano ai pochi
parenti e amici interessati al trascurabile evento, traboccanti di orgoglio e
di felicità nei caratteri ornati, dorati e molto kitsch. Non avrebbe davvero
nulla di notevole, quel "santino" come si diceva in passato, se non
fosse per la data: 27 agosto 1944. E il luogo: Bastiglia in provincia di
Modena. Nell'agosto del 1944, per i pochissimi che non ricordassero o sapessero
nulla della guerra in Italia finita 70 anni or sono (un po' di ironia, qui) la
città nella quale Anna e Mino si erano sposati e avevano messo al mondo un
figlio era il Fronte, la prima linea. Stormi di bombardieri americani
scavalcavano indisturbati gli Appennini e martellavano i nodi ferroviari e
stradali fra Bologna e Modena, l'ultima via di rifornirimento o di fuga verso
il nord per i Tedeschi ancora aggrappati alle montagne. Quei due, mi
raccontarono, erano andati a sposarsi di corsa in chiesa negli intervalli fra i
bombardamenti, come si fa attraversando una strada da un portico all'altro, fra
gli scrosci di pioggia. A pochi chilometri, nelle montagne che sovrastano e
spalancano la Bassa emiliana, i tedeschi in ritirata compivano massacri da far
vergognare le gang di terroristi in Siria o Iraq. Marzabotto, un mattatoio, è a
un'ora di auto da dove quel santino fu stampato. Di futuro, di sicurezza, di
lavoro, era meglio non occuparsi, anzi, meglio non pensarci proprio. Anna,
maestra di pianoforte, non aveva lavoro essendo non molti gli interessati a
studiare solfeggio nei rifugi antiaerei scossi dalle bombe. Il marito, Mino,
insegnava come supplente di Greco e Latino in un liceo privato, senza alcun contratto
né garanzie, coprendo in bici ogni giorno 32 chilometri fra la campagna e la
città, lungo strade e sentieri pattugliati da caccia inglesi e americani,
infestati da repubblichini e militi esasperati dall'odio che li circondava e da
partigiani con il dito nervoso sul grilletto dei fucili. Qualche volta lui
stesso, fresco sposo e padre, trasportava messaggi e armi per i partigiani,
sicura promessa di una brutta fine se fermato. Il futuro era la speranza di non
essere ammazzati, mitragliati, rastrellati, torturati, spediti in Germania. In
questa Italia del 1944, non soltanto quei due incoscienti avevano messo al
mondo un figlio senza alcuna assistenza sanitaria, ospedali, esami prenatali,
ecografia, ostetriche. In più - e questo è l'oggetto del mio sbalordimento e
della mia allegria - avevano sfidato i pericoli e le bombe per cercare una
tipografia ancora in funzione tra le rovine, una che potesse stampare santini
per annunciare la nascita e il battesimo di un figlio qualsiasi. Avevano scelto
il cartoncino avorio, i caratteri leziosi, l'immaginetta religiosa sulla
copertina, pedalando avanti e indietro per trovare qualcuno disposto a fare il
lavoro, con il brontolio lontano dell'artiglieria sulle colline, sicuramente
con i soldi di un nonno felice di spenderli. La loro unione, la nascita del
primo figlio, erano state più importanti della paura, della miseria,
dell'angoscia di un futuro che poteva essere lungo come la canna dei mitra
Schmeisser che i soldati tedeschi impugnavano, accampati nella stessa casa dove
Anna aveva partorito, oltre la porta della camera. Quel bambino, lo avrete
capito, ero io, Anna e Mino i miei genitori che non avevano avuto paura del
tempo, delle circostanze, dei tedeschi, dei repubblichini, delle bombe
americane. Forti nella certezza che nella vita non ci sono altre certezze che
quelle che si portano dentro di sè, soprattutto nelle ore più terribili, quando
sembra che il mondo stia andando all'inferno in carriola.
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