Ho rivisto qualche sera addietro
il film “Le invasioni barbariche” di
Denys Arcand. Sì, rivisto a casa. Gran bel film. Necessiterebbe farlo vedere ad
un pubblico più vasto. Non penso che alla sua uscita abbia battuto alcun record
d’incasso. Bisognerebbe farlo vedere ai giovani d’oggi. Si abbuffano di morte.
Ma di morte violenta. La morte dei film, delle finzioni televisive. Si
immunizzano così verso la morte. Sulla morte vera non ci si interroga. Poi
succede che di fronte ad essa i giovani d’oggi siano del tutto impreparati.
Molto fragili. Nel film si ragiona della vita e della morte. Di quest’ultima
soprattutto. Mi è venuto da ripensare ai ricorrenti fatti tragici di casa
nostra ed a come siano presentati al pubblico più vasto della televisione i
protagonisti dei fatti più efferati di questi ultimi tempi. Come estranei.
Estranei a sé stessi ed all’orrendo crimine di cui si sono pur macchiati. Una “impersonale
irresponsabilità”, come se il tragico fatto non appartenesse loro. Mi è venuto
da pensare come i giovani d’oggi, di fronte ai fatti della vita e della morte,
siano come impreparati, fragili, disorientati. La spettacolarizzazione dei
fatti tragici cui accennavo, l’abitudine alle scene più violente nei film o
nelle finzioni della televisione – televisione cattiva maestra era il grido
d’un grande -, penso abbiano fatto perdere loro il vero senso della vita e
della morte. Loro, i giovani d’oggi, non sono stati educati a riflettere su quel
momento finale, inevitabile, della vita che è la morte, poiché la stessa è
divenuta parte essenziale di una recita mediatica per cui la fine di un essere è
solo la scena scritta in un copione. Le invasioni barbariche, per l’appunto. I
nuovi barbari. Aridità emotiva, aridità di cuori. Capire come e perché sia
potuto accadere: difficile. Meglio affidarsi alla lucida analisi di Umberto
Galimberti nel suo prezioso “Se Dio tace”:
Mark
Hauser, professore all'Università di Harvard, dice che le radici dei giudizi
morali sono innati. Così pensava anche Kant, secondo il quale ‘Non è necessario
definire il bene e il male, perché ognuno lo sente immediatamente da sé’.
Questo criterio, che valeva al tempo di Kant, oggi vale molto meno. E la
ragione va cercata nel fatto che i bambini di oggi sono sottoposti a troppi
stimoli che la loro psiche infantile non è in grado di elaborare. Stimoli
scolastici, stimoli televisivi, processi accelerati di adultismo, mille
attività in cui sono impegnati, eserciti di baby-sitter a cui sono affidati, in
un deserto di comunicazione dove passano solo ordini, insofferenza, poco
ascolto, scarsissima attenzione a quello che nella loro interiorità vanno
elaborando. Quando gli stimoli sono
eccessivi rispetto alla capacità di elaborarli al bambino restano solo due
possibilità: o ‘andare in angoscia’, o ‘appiattire la propria psiche’ in modo
che gli stimoli non abbiano più alcuna risonanza. In questo secondo caso la
capacità di distinguere il bene dal male e più in generale di elaborare la
differenza si attutisce, quando addirittura non si estingue. L'appiattimento
del sentimento morale solitamente non è avvertito, perché l'intelligenza non
subisce per questo alcun ritardo. Anzi, si sviluppa con una lucidità
impressionante, perché non è turbata da interferenze emotive. Nessuna
meraviglia quindi di fronte alla freddezza e alla lucidità con cui esecutori di
orrendi delitti, come la cronaca quotidiana non cessa di documentare, conducono
la loro vita normale come se nulla fosse accaduto, senza lasciar trapelare
alcuna emozione, perché le loro azioni non sono accompagnate da alcuna
risonanza emotiva. Quando i giudici,
appurate le prove, condannano imputati del genere, sono soliti verificare la
loro facoltà di ‘intendere’ e ‘volere’ che ovviamente funziona benissimo.
Bisognerebbe però anche valutare la loro capacità di ‘sentire’. E qui si
scoprirebbe la radice di certe condotte che risultano aberranti a quanti di noi
vivono sostenuti dal proprio sentimento morale, ma che non acquistano alcuna
rilevanza per chi il sentimento (non solo quello morale) non l'ha mai
conosciuto, perché a suo tempo non è stato raccolto, ascoltato, coltivato.
Questa tonalità dell'anima a bassa emotività e a scarso sentimento morale è
qualcosa che si va diffondendo tra i giovani d'oggi che, nella loro crescita,
acquisiscono valori di intelligenza, prestazione, efficienza, arrivismo, quando
non addirittura cinismo, nel silenzio del cuore. E quando il cuore tace e più
non registra le cadenze del sentimento morale, il terribile è già accaduto
anche se non approda a un crimine. Ma non basta. La morale cristiana ci ha
abituato a valutare le colpe morali solo a livello ‘individuale’, per cui,
giusto per fare degli esempi: 5° comandamento ‘non ammazzare’ crea indignazione
a livello individuale, ma le stragi, le guerre, gli stermini in ogni parte del mondo
sono solo una notizia. 6° comandamento ‘non commettere atti impuri’ crea
reazioni emotive anche tragiche in occasione di tradimenti, separazioni,
divorzi, ma vallettopoli, festini, discoteche, prostituzione, pornografia
televisiva a notte fonda, non creano alcun sussulto morale perché, si sa,
questo è il mondo dello spettacolo. 7° comandamento ‘non rubare’ è subito
avvertito come un'infrazione morale se si tratta di scippi, di circonvenzione
di anziani, di sottrazione di merci nei negozi, ma se si tratta di banche che
vendono titoli di nessun valore, se si tratta di non pagare le tasse, la
reazione è rassegnata quando non addirittura giustificata. 8° comandamento ‘non
dire falsa testimonianza’, a livello individuale fa subito perdere la fiducia
in chi mente, mentre se a mentire sono i politici, o quelli che scatenano
guerre perché, mentendo e sapendo di mentire, dicono che in quel Paese ci sono
armi di distruzione di massa, non risveglia un particolare sentimento morale di
sfiducia o meglio ancora di riprovazione. Voglio dire che il sentimento morale
circoscritto a livello ‘individuale’, come ci ha insegnato la morale cristiana
che predica il bene dal pulpito e perdona il male nel confessionale, creando
una doppia coscienza, per cui si può fare più o meno quel che si vuole, tanto
c'è il perdono, non basta più. Ci vuole una morale ‘collettiva’ che trova il
suo fondamento non nella ‘salvezza dell'anima’, ma nelle ‘regole di convivenza’.
Sento dire che i laici non sono in grado di fondare una morale perché non
possono ancorarla a quel fondamento che è Dio e i suoi comandamenti. Ma proprio
per questo possono fondarne una che faccia riferimento alla ‘convivenza comune’
che, senza regole, non è in grado di costituirsi e di esistere. Si tratta di
una morale che magari non ha la sacralità di quella religiosa, ma ha senz'altro
quella forza ragionevole e cogente che, senza regole comuni e condivise, non
c'è società che possa sopravvivere con un minimo di sicurezza. A meno di non
affidare la sicurezza alle porte blindate, ai sistemi di allarme o addirittura
a una pistola a portata di mano. Dove ancora una volta a salvarsi è solo il
singolo individuo, ma non la società nella complessità delle sue relazioni.
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