Paolo di Paolo, giovane scrittore (1983), si è
fatto conoscere su larga scala per il Suo volume “Dove eravate tutti” – Feltrinelli editore (2013) - con il quale ha
chiamato alla resa dei conti i tanti, tantissimi “padri tromboni” che nell’era
dell’egoarca di Arcore hanno fatto finta di non vedere, di non sentire e di
conseguenza non han parlato e così tacendo si sono resi corresponsabili dello
scempio compiuto da quell’uomo della vita politica e pubblica e della salute morale del
bel paese. Da “Padri tromboni maestri
d’ipocrisia” di Paolo di Paolo, pubblicato sul settimanale l’Espresso del 16
di aprile 2017: Cari Papà Tromboni, tutto bene? Vi trovate in quella strana fase della
vita - fra i cinquanta e i sessanta, o poco più - che pare dia un po’ alla
testa. A distanza di sicurezza della terza età, se non cadete nella classica
regressione (Peter Pan-insegue-Lolita), il potere è la vostra droga. Piccolo o
grande che sia, vi tiene comunque su di giri: dal lunedì al venerdì siete nella
bolla dei workaholic, non fate che bearvi della vostra agenda stracarica.
Sabato e domenica siete come palloni sgonfi. Per il resto, nient’altro che
cravatte, smartphone, pance che crescono: non è un bello spettacolo! Ma non è
per questo che vi giunge la nostra lettera. Non siamo preoccupati per il vostro
stress, e nemmeno per il fatto che il cosiddetto senso della realtà vi sta abbandonando.
A preoccuparci è la vostra inarginabile inclinazione alla retorica. Chi fra voi
è sulla scena politica non può farne a meno: è così da sempre, fa parte del
gioco e del mestiere. Il “conservatore” moralista François Fillon, classe 1954,
in corsa per l’Eliseo, preferendo - così diceva - “le parole che salvano a
quelle che seducono”, assegnava intanto falsi impieghi ai parenti per oltre un
milione di euro. Il cinquantaduenne premier russo Dmitrij Medvedev, uso a
richiamare “con pieno senso di responsabilità il nostro bene e il bene generale
della società”, è ambiguo titolare di conti offshore, piste da sci private,
ville con piscina ed eliporti, aziende vinicole in Toscana. Niente di nuovo,
per carità. Nessuno è nato ieri. Ma il punto è che questi babbi non si limitano
a razzolare male, si impegnano con eccessivo (e sospetto) slancio a predicare
benissimo. Anche dalle nostre parti, la sera a tavola - così come nei corsivi
di prima pagina - fanno un uso smodato di retorica, oltre il livello di
guardia. Come il sale per gli ipertesi, non è buona norma. Guardate cosa è
successo all’ex direttore del “Sole 24 Ore”: tutte le domeniche pronto a
infliggerci la sua omelia laica, è finito indagato per falso in bilancio. Fosse
pure innocente su un piano giuridico, non lo sarebbe comunque al tribunale
delle false coscienze. Dante gli farebbe indossare - come minimo! - il mantello
degli ipocriti: dorato fuori, di piombo dentro. In uno dei suoi ultimi
editoriali, Roberto Napoletano puntava il dito, nell’ordine, contro «furbetti
del cartellino», «corruttele varie e sistemiche», «distribuzione di seggiole e
poltrone», «vecchie e nuove clientele». Cito alla lettera: «Tornano le ombre
dei soliti maestri dell’eterno galleggiamento italiano in un Paese sospeso che
fugge dalle sue responsabilità. Promana da tutto ciò una sensazione mista di
nausea e di disorientamento» (“Il Sole 24 Ore”, 26 febbraio 2017, a undici
giorni dall’avviso di garanzia). Impressionante: come il protagonista di un
racconto di Savinio che sentiva odore di morte dappertutto, senza capire che a
emanarlo era lui. La chiusa dell’articolo? Canonica: sull’Italia che «brucia il
futuro dei nostri giovani». Non che il faraonico stipendio di Napoletano -
93mila euro lordi mensili, pare - contribuisse a spegnere le fiamme, ma
l’ipocrisia è perfino più colpevole. L’aspetto psicologico della questione è
avventuroso: che cosa spinge stimati e solitamente spietati professionisti (del
giornalismo, della politica, della finanza, dell’industria) ad ammannirci
quintali di retorica moraleggiante? Qual è il vantaggio interiore del
trombonismo, per chi lo pratica?
Storia vecchia: di “doppia morale” si parlava
già sui giornali di sessant’anni fa. Erano i giorni del torbido caso Montesi
(1953), e un politico che si era scagliato contro la turpitudine altrui venne
subito fotografato all’uscita di un bordello (con l’auto blu!). Non basta:
Franco Moretti, nel recente Il borghese (Einaudi), torna parecchio più
indietro; esplora, attraverso Ibsen, una «zona grigia» fatta di slealtà,
reticenza, mezze verità, costitutiva di una classe sociale e del suo modo di
stare al mondo. La menzogna – scrive – diventa “vita”: una contraddizione tra
due moralità «impossibile da conciliare», il trionfo dell’ambiguità, l’onestà di
facciata, a parole. Bisogna rassegnarsi? Al peggio della natura umana forse sì;
ai falsi maestri, no. Esiste un antidoto? È possibile una moratoria della
retorica a buon mercato? Più ancora che proseguire in una (ormai
indiscriminata) lotta alle oligarchie (vedi in proposito l’illuminante saggio
di Giulio Azzolini Dopo le classi dirigenti, Laterza), occorre intanto
inchiodarle a una responsabilità verbale. O, almeno, ridimensionare le loro
tribune. Dà il voltastomaco sentir parlare, con falsa partecipazione, di
“futuro rubato” ai giovani, proprio da chi ha collaborato al furto. Non è più
accettabile vedere una selva di indici puntati nel vuoto, contro responsabili
sempre troppo generici. I colpevoli sono sempre gli altri. Ma di preciso che
faccia hanno? Ai Tartufi di turno, gli ipocriti in servizio permanente, farebbe
gioco la rilettura di certa disinvolta trattatistica tra Cinque e Settecento:
se il “sommo bene” è un ideale, tanto vale sembrare onesti senza esserlo
davvero. “Dissimulazione” è la parola chiave - e più che il solito Machiavelli,
meglio scomodare il rassegnato Mandeville: “Solo i pazzi si affaticano per
creare un grande e onesto alveare” (1705). I “sani”, allora, restano a
guardare, ma non tacciono: tengono viva l’onestade a parole. In una palude di
parole facili e comode, alligna un’etica falsa e tanto più irresponsabile, che
inquina, confonde, e in sostanza mette al sicuro. A mo’ di antibiotico, o
meglio, di avviso di garanzia preventivo, sarebbe utile recapitare a parecchi
notabili odierni non un saggio rinascimentale, ma un recente - e ovviamente
troppo poco letto - romanzo. L’ha scritto Aldo Busi, si intitola Vacche amiche
(Marsilio). Busi si fa beffe, o peggio, di “gente chiaramente puzzona a
libro-paga di questo e di quello”, di gente che predica anche bene - appunto -
“ma razzola che peggio non si può”. Si può considerare l’ipocrisia già una
forma di corruzione? Sì. “Non capirò mai - scrive Busi - perché una merda vuole
spacciarsi per pan di zucchero: sei una merda, e allora? L’unico modo per
esserlo di meno è andarne fiero, no? Certo, a una vera merda interessa esserlo
di più, non di meno, negherà anche con le spalle alla ceramica di un water e è
senza speranza di riscatto fino a che non gli danno quindici anni di galera o
il manicomio criminale a vita, cosa praticamente impossibile, perché le merde
si proteggono e sostengono tra di loro, essendo della stessa pasta fanno
comunella anche a distanza di chilometri l’una dall’altra, una sul marciapiede
è sorella di una in un Ministero o al Riesame o in Cassazione, sono a piede
libero per definizione: le pesti per sbadataggine, le diffondi e le espandi,
fai il loro gioco per il solo fatto di camminare e, contrariamente al detto,
porti tu fortuna a loro, e è scontato infine chi schiaccia chi”. Nell’attesa di
esserne sicuri, cari Papà Tromboni, ci basterebbe un piccolo gesto generoso e
tuttavia gratuito (altro è difficile chiedervi): il vostro silenzio. Firmato: i
vostri figli delusi.
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