Da “La felicità del pensiero” di Gustavo Zagrebelsky, pubblicato sul
quotidiano la Repubblica del 10 di aprile dell’anno 2013: (…). Le persone sensuali trovano
i loro beni con gli occhi per ciò che vedono (gli spettacoli), con gli orecchi
per ciò che sentono (la musica), col naso per gli odori (i profumi), con la
bocca per ciò che ingurgitano (il cibo e il vino) e con ciò che conosciamo in
ragione del sesso (i corpi degli amati). C’è poi il sonno, che genera felicità
per il corpo e per l’anima, forse perché attutisce le sensazioni. Conosciamo
persone per natura superbe e arroganti. Costoro trovano la felicità nei grandi
progetti, nel superfluo in abbondanza, in cavalli d’ineguagliabile velocità, in
armi belle e potenti, in gioielli per le proprie amanti, in dimore magnifiche e
molta servitù, nella sopraffazione dei nemici, nell’ammirazione della gente.
Ancora: ci sono persone spirituali, per le quali i veri beni sono quelli
dell’anima, l’amicizia, l’amore, la saggezza, la contemplazione, la filosofia,
l’armonia con i propri simili e con la natura. Negli elenchi di quelli che
consideriamo i beni della vita, non troviamo le idee. Eppure, la grande maestra
che è la lingua non ci dice qualcosa di diverso, quando parla di “poveri o
ricchi d’idee”? Poveri e ricchi non solo nel senso della quantità, ma anche
dell’accrescimento esistenziale: noi non diremmo poveri o ricchi di ferite, di
malanni, di mali, ecc.; ma lo diciamo quando la cosa di cui ci diciamo ricchi o
poveri è un bene per noi, qualcosa che ci può, per l’appunto, “arricchire”. Le
idee possono dare anch’esse felicità (in qualche momento, anche più di altri
beni) alle persone di pensiero, e ciò vale in quanto tali, indipendentemente
dal fatto che siano vere o false, giuste o ingiuste, buone o cattive. Non si
tratta di giudizi sul contenuto, ma d’idee in quanto idee. I giudizi vengono dopo.
(…). Chi abbia fatto una qualche (…) esperienza di scoperta d’idee, che può
giungere all’entusiasmo, non avrà dunque difficoltà nel considerare le idee
“beni della vita”, e l’elaborazione d’idee qualcosa cui può essere dedicata, in
tutta o in parte, la propria esistenza, non meno degnamente di altri, che la
spendono nell’autorealizzazione in differenti aspetti dell’umana natura.
Invece, nella comune percezione, le idee non entrano affatto a far parte dei
beni della vita. Anzi, sembrano stancare, essere perdita di tempo, divagazioni
senza costrutto; nella migliore delle ipotesi, qualcosa da cui le “persone del
fare” possono facilmente prescindere. Le idee sono per “gli intellettuali”,
parola che si pronuncia sempre con una certa dose di disprezzo. Pensare: che
cosa noiosa, pesante, pedante, superflua!
Un’idea che, dall’antichità, giunge fino a noi come stella polare dell’esistenza, cui si dedicano libri, riviste, convegni, “terze pagine”, è la felicità. Chi non pensa, tanto più oggi, quando le cose sembrano andare al contrario, che il fine della vita è la felicità e che, quindi, il primo diritto che gli spetta è il “diritto alla felicità” o almeno alla libera “ricerca della felicità” (come recita la Dichiarazione d’indipendenza americana)? Poiché, poi, siamo figli di un’epoca in cui tutto, per esistere, sembra dover essere misurabile e quantificato, non solo si parla di felicità, ma ci si dedica anche a calcolarla. Sembra, così, che si possa avere un’idea oggettiva, scientifica, di che cosa sia la felicità. Non si tratta di essere felici come a ciascun piace, ma di vivere in società felici, come piace a chi può dispensare a tutti una buona e bella vita, secondo intenti analoghi a quelli dei “principi illuminati” del Settecento. Che tutto ciò sia sensato, è lecito dubitare. (…). …già Saint-Just, sulla fine del Settecento, aveva esclamato: «La felicità è un’idea nuova in Europa». “Felicità” è infatti una delle parole più ricorrenti in tutta la pubblicistica di quel secolo. Ora ritorna d’attualità, sotto specie di “benessere”. (…). Ciò che più interessa qui è, però, il fatto che le idee non entrano nel computo dei fattori di vita buona. Entrano di solito le scuole, i musei, i libri, la lettura, i concerti e altre cose di questo genere, che hanno a che vedere con la cultura, ma non necessariamente con le idee. Possono esistere, infatti, anche senza idee, senza “nuove idee”, con idee morte. Non si dica che le idee sono difficilmente censibili. Forse che lo sono più facilmente “la certezza del lavoro”, “la vivibilità delle città”, “il verde pubblico”, “gli affetti familiari”? Le idee sembra che siano irrilevanti per la nostra soddisfazione, se non addirittura per la nostra felicità. Si capisce la difficoltà di contarle e la loro estraneità alle politiche pubbliche. Eppure, comprendiamo facilmente che una vita senza idee e una società che non sprigiona idee, sono letteralmente “infelici”, cioè infeconde, non creative, destinate non a vivere ma, nelle migliori delle ipotesi, a sopravvivere come colonie. (…). Ma, in generale, che cosa dice questo silenzio sul valore delle idee, quanto ai caratteri dello spirito del nostro tempo? Forse, che è un tempo edonista, materialista, che ha bisogno di esseri mentalmente programmati per un tipo di società che, a parole, esalta il pluralismo delle idee e, quindi, la libertà della cultura ma, nella realtà, ha bisogno che di idee ce ne sia una sola, grande, omogenea, e che di quella libertà non sa che farsi. Tante idee liberano; una sola opprime.
Un’idea che, dall’antichità, giunge fino a noi come stella polare dell’esistenza, cui si dedicano libri, riviste, convegni, “terze pagine”, è la felicità. Chi non pensa, tanto più oggi, quando le cose sembrano andare al contrario, che il fine della vita è la felicità e che, quindi, il primo diritto che gli spetta è il “diritto alla felicità” o almeno alla libera “ricerca della felicità” (come recita la Dichiarazione d’indipendenza americana)? Poiché, poi, siamo figli di un’epoca in cui tutto, per esistere, sembra dover essere misurabile e quantificato, non solo si parla di felicità, ma ci si dedica anche a calcolarla. Sembra, così, che si possa avere un’idea oggettiva, scientifica, di che cosa sia la felicità. Non si tratta di essere felici come a ciascun piace, ma di vivere in società felici, come piace a chi può dispensare a tutti una buona e bella vita, secondo intenti analoghi a quelli dei “principi illuminati” del Settecento. Che tutto ciò sia sensato, è lecito dubitare. (…). …già Saint-Just, sulla fine del Settecento, aveva esclamato: «La felicità è un’idea nuova in Europa». “Felicità” è infatti una delle parole più ricorrenti in tutta la pubblicistica di quel secolo. Ora ritorna d’attualità, sotto specie di “benessere”. (…). Ciò che più interessa qui è, però, il fatto che le idee non entrano nel computo dei fattori di vita buona. Entrano di solito le scuole, i musei, i libri, la lettura, i concerti e altre cose di questo genere, che hanno a che vedere con la cultura, ma non necessariamente con le idee. Possono esistere, infatti, anche senza idee, senza “nuove idee”, con idee morte. Non si dica che le idee sono difficilmente censibili. Forse che lo sono più facilmente “la certezza del lavoro”, “la vivibilità delle città”, “il verde pubblico”, “gli affetti familiari”? Le idee sembra che siano irrilevanti per la nostra soddisfazione, se non addirittura per la nostra felicità. Si capisce la difficoltà di contarle e la loro estraneità alle politiche pubbliche. Eppure, comprendiamo facilmente che una vita senza idee e una società che non sprigiona idee, sono letteralmente “infelici”, cioè infeconde, non creative, destinate non a vivere ma, nelle migliori delle ipotesi, a sopravvivere come colonie. (…). Ma, in generale, che cosa dice questo silenzio sul valore delle idee, quanto ai caratteri dello spirito del nostro tempo? Forse, che è un tempo edonista, materialista, che ha bisogno di esseri mentalmente programmati per un tipo di società che, a parole, esalta il pluralismo delle idee e, quindi, la libertà della cultura ma, nella realtà, ha bisogno che di idee ce ne sia una sola, grande, omogenea, e che di quella libertà non sa che farsi. Tante idee liberano; una sola opprime.
Nessun commento:
Posta un commento