"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 30 aprile 2017

Scriptamanent. 93 “Il Paese dei penultimi”.



Da “Il Paese dei penultimi” di Ilvo Diamanti, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 30 di aprile dell’anno 2012: (…). La fine del berlusconismo ha, (…), decretato anche la fine della grande illusione. Che tutti gli italiani potessero diventare come Lui. Il Cavaliere. Con molta fortuna e altrettanta spregiudicatezza, un po' di senso cinico al posto di quello civico. Gli italiani: un popolo di partite Iva e di imprenditori. Di ceti medi pronti a salire ancora nella scala sociale. Il "sogno italiano", interpretato per quasi un ventennio da Berlusconi, sembra finito in modo brusco. Perfino violento. Gli italiani che si sentono "ceto medio" sono, infatti, calati dal 60%, nel 2006, al 44% di oggi. Mentre il "mito dell'imprenditore" appare in rapido e profondo declino. Solo 2 italiani su dieci, per sé e i propri figli, ambiscono a un lavoro in proprio. Nel 2004 erano il 31%. Ancor meno, il 16%, sperano in una carriera da liberi professionisti. Un anno fa erano quasi il 23%. Parallelamente, ha recuperato un grande appeal l'impiego pubblico. In testa alle aspirazioni del 34% degli italiani: 5 punti in più dell'anno scorso. È il mito del posto fisso che si fa largo e resiste. Nonostante che, nell'ultimo anno, solo il 30% delle persone dichiarino di aver lavorato "regolarmente tutti i mesi". O forse proprio per questo. Cioè: perché in un mondo instabile, la flessibilità, se è priva di prospettive e di tutela, sconfina nella precarietà. Alimenta incertezza. Per questo il 55% degli italiani si accontenterebbe di un lavoro di qualsiasi tipo, ma stabile. Non importa che piaccia, a condizione che sia sicuro. Insieme al berlusconismo pare svanito anche il suo complemento psicologico: l'ottimismo. Fino a un anno fa, era l'ideologia del tempo. Un obbligo e un imperativo "nazionale". Dirsi pessimisti significava dichiararsi anti-italiani. E, quindi, (almeno un po') comunisti. (…). Questo Paese, più che perduto, appare, dunque, popolato di "perdenti". Gli "ultimi", coloro che si sentono di posizione sociale bassa. I più colpiti dalla crisi. Insieme ai "penultimi", quelli che si dichiarano di classe medio-bassa. Il che significa, soprattutto, i lavoratori dipendenti privati, i pensionati, le casalinghe. La popolazione del Mezzogiorno. (…). Un Paese smarrito. Dove la maggioranza delle persone ritiene troppo rischioso investire nel futuro. Dove la fiducia negli altri è, ormai, una merce rara. Espressa da due persone su dieci. Dove, di conseguenza, ci si sente stranieri, perché il "prossimo" si è eclissato e gli "altri" ci appaiono minacciosi. Stranieri fra stranieri. Da ciò la differenza sostanziale dalle altre crisi che abbiamo affrontato, nel dopoguerra. Ieri - e ancor più ieri l'altro - credevamo in noi stessi e investivamo nelle virtù, ma anche nei vizi, del nostro carattere nazionale. Il lavoro, la famiglia, il risparmio. L'arte di arrangiarsi. Eravamo sicuri che ce l'avremmo fatta, comunque.
Noi, che quando il gioco si fa più duro, abbiamo sempre dato il meglio. In grado di utilizzare come una risorsa perfino la povertà di senso civico, alimentata da un sistema pubblico poco efficiente. O meglio: un segno coerente con la storia del nostro Paese. Dove la società è tradizionalmente più forte dello Stato. Ed è sempre stata capace di affrontare sfide ed emergenze, con mezzi leciti e talora illeciti. Attraverso l'economia formale e quella sommersa. Il lavoro ufficiale e quello nero. La pressione e l'evasione fiscale. Oggi questo modello sembra in seria difficoltà. Perché i suoi fondamenti e i suoi meccanismi rischiano di logorarsi. La famiglia e il familismo, il risparmio, il localismo: non garantiscono più le stesse "prestazioni" di una volta. L'arte di arrangiarsi: non appare più reattiva come prima. Siamo meno convinti che, comunque, "ce la faremo" da soli. Con o senza lo Stato. La stessa riluttanza verso le regole, la fuga nel sommerso: appaiono, sempre più, un costo e perfino un danno sociale. E suscitano, per questo, insofferenza. (…). Ma, soprattutto, ci penalizza il deficit di futuro e di comunità. L'incapacità di vedere lontano, di costruire relazioni con gli altri. Nessuno come noi, in Europa, guarda con sfiducia il futuro delle giovani generazioni. Forse perché nessuno come noi, in Europa, è invecchiato tanto e tanto in fretta. Così rischiamo di perderci. Perché la fiducia nello Stato, nel sistema pubblico e nella politica resta bassa. E, anzi, continua a calare. Ma le nostre tradizioni e le nostre istituzioni sociali non ci soccorrono più.

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