Da “Il Paese dei penultimi” di Ilvo Diamanti, pubblicato sul
quotidiano la Repubblica del 30 di aprile dell’anno 2012: (…). La fine del berlusconismo
ha, (…), decretato anche la fine della grande illusione. Che tutti gli italiani
potessero diventare come Lui. Il Cavaliere. Con molta fortuna e altrettanta
spregiudicatezza, un po' di senso cinico al posto di quello civico. Gli
italiani: un popolo di partite Iva e di imprenditori. Di ceti medi pronti a
salire ancora nella scala sociale. Il "sogno italiano", interpretato
per quasi un ventennio da Berlusconi, sembra finito in modo brusco. Perfino
violento. Gli italiani che si sentono "ceto medio" sono, infatti,
calati dal 60%, nel 2006, al 44% di oggi. Mentre il "mito
dell'imprenditore" appare in rapido e profondo declino. Solo 2 italiani su
dieci, per sé e i propri figli, ambiscono a un lavoro in proprio. Nel 2004
erano il 31%. Ancor meno, il 16%, sperano in una carriera da liberi
professionisti. Un anno fa erano quasi il 23%. Parallelamente, ha recuperato un
grande appeal l'impiego pubblico. In testa alle aspirazioni del 34% degli italiani:
5 punti in più dell'anno scorso. È il mito del posto fisso che si fa largo e
resiste. Nonostante che, nell'ultimo anno, solo il 30% delle persone dichiarino
di aver lavorato "regolarmente tutti i mesi". O forse proprio per
questo. Cioè: perché in un mondo instabile, la flessibilità, se è priva di
prospettive e di tutela, sconfina nella precarietà. Alimenta incertezza. Per
questo il 55% degli italiani si accontenterebbe di un lavoro di qualsiasi tipo,
ma stabile. Non importa che piaccia, a condizione che sia sicuro. Insieme al
berlusconismo pare svanito anche il suo complemento psicologico: l'ottimismo.
Fino a un anno fa, era l'ideologia del tempo. Un obbligo e un imperativo
"nazionale". Dirsi pessimisti significava dichiararsi anti-italiani.
E, quindi, (almeno un po') comunisti. (…). Questo Paese, più che perduto,
appare, dunque, popolato di "perdenti". Gli "ultimi",
coloro che si sentono di posizione sociale bassa. I più colpiti dalla crisi.
Insieme ai "penultimi", quelli che si dichiarano di classe medio-bassa.
Il che significa, soprattutto, i lavoratori dipendenti privati, i pensionati,
le casalinghe. La popolazione del Mezzogiorno. (…). Un Paese smarrito. Dove la
maggioranza delle persone ritiene troppo rischioso investire nel futuro. Dove
la fiducia negli altri è, ormai, una merce rara. Espressa da due persone su
dieci. Dove, di conseguenza, ci si sente stranieri, perché il
"prossimo" si è eclissato e gli "altri" ci appaiono
minacciosi. Stranieri fra stranieri. Da ciò la differenza sostanziale dalle altre
crisi che abbiamo affrontato, nel dopoguerra. Ieri - e ancor più ieri l'altro -
credevamo in noi stessi e investivamo nelle virtù, ma anche nei vizi, del
nostro carattere nazionale. Il lavoro, la famiglia, il risparmio. L'arte di
arrangiarsi. Eravamo sicuri che ce l'avremmo fatta, comunque.
Noi, che quando
il gioco si fa più duro, abbiamo sempre dato il meglio. In grado di utilizzare
come una risorsa perfino la povertà di senso civico, alimentata da un sistema
pubblico poco efficiente. O meglio: un segno coerente con la storia del nostro
Paese. Dove la società è tradizionalmente più forte dello Stato. Ed è sempre
stata capace di affrontare sfide ed emergenze, con mezzi leciti e talora
illeciti. Attraverso l'economia formale e quella sommersa. Il lavoro ufficiale
e quello nero. La pressione e l'evasione fiscale. Oggi questo modello sembra in
seria difficoltà. Perché i suoi fondamenti e i suoi meccanismi rischiano di
logorarsi. La famiglia e il familismo, il risparmio, il localismo: non
garantiscono più le stesse "prestazioni" di una volta. L'arte di
arrangiarsi: non appare più reattiva come prima. Siamo meno convinti che,
comunque, "ce la faremo" da soli. Con o senza lo Stato. La stessa
riluttanza verso le regole, la fuga nel sommerso: appaiono, sempre più, un
costo e perfino un danno sociale. E suscitano, per questo, insofferenza. (…).
Ma, soprattutto, ci penalizza il deficit di futuro e di comunità. L'incapacità
di vedere lontano, di costruire relazioni con gli altri. Nessuno come noi, in
Europa, guarda con sfiducia il futuro delle giovani generazioni. Forse perché
nessuno come noi, in Europa, è invecchiato tanto e tanto in fretta. Così
rischiamo di perderci. Perché la fiducia nello Stato, nel sistema pubblico e
nella politica resta bassa. E, anzi, continua a calare. Ma le nostre tradizioni
e le nostre istituzioni sociali non ci soccorrono più.
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