Affermava Gustavo Zagrebelsky nel
corso di un colloquio con Ezio Mauro: “Gli Inquisitori (figura sempiterna)
direbbero che la libertà è infelicità e che proprio loro, essendosi assunti il
compito di liberare l'umanità dalla libertà, sono i suoi veri benefattori…”. Il
colloquio, che di seguito trascrivo in parte, pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” del 5 di maggio dell’anno 2011, è parte del volume “La felicità della democrazia” edito da
Laterza (2011) – pagg. 256, € 15 -. L’affermazione incontrovertibile del
professor Zagrebelsky è l’intuizione profonda di uno straordinario
intellettuale, uno dei pochi “maestri” viventi, punto di riferimento
di ogni pensiero che si voglia definire “liberale” o meglio ancora “libero”,
quest’ultimo nell’accezione più completa, quella che il pensiero illuminista ha
saputo e potuto diramare in questo angolo di mondo che è la vecchia, cara
Europa; intuizione profonda e straordinaria che conferma una convinzione mia personale
seconda la quale siamo in un’epoca di potente e pericolosa rimonta di una “controriforma”
non più strisciante ma incredibilmente palese, “controriforma” che non
ha mia tralasciato d’influenzare il vivere politico e sociale del bel paese.
Svuotare la democrazia del suo “senso” interno imprescindibile e
connaturato ad essa di continua ricerca di nuovi e sempre più avanzati
traguardi ed equilibri è stato da sempre l’obiettivo non confessato delle
continue manovre “controriformistiche” rese sempre più chiare con l’indicazione
chiara, venuta dall’alto, del nuovo
nemico del genere umano che sarebbe il cosiddetto “relativismo” storico. Le
“cadute”
ed il conseguente risorgere da esse, nel continuo giuoco democratico degli
equilibri nuovi sempre ricercati, vengono subdolamente fatte intendere come “inutilità”,
come spreco di energie, energie sociali e personali, che sarebbe opportuno
invece convogliare verso altri traguardi di poco o nullo spessore, come il
conseguimento dell’appagamento esclusivamente materiale delle proprie ambizioni
personali o di gruppo. La proposta “controriformistica” odierna ha al
suo interno la possibilità concreta di evitare le ricorrenti “cadute”
che le democrazie tutte mettono in conto come connaturate ad esse, ricorrendo, nelle
relazioni politiche e sociali di un mondo sempre più complesso, a figure ed
entità egemoniche ed incontrollabili con gli strumenti consueti della
democrazia, che libererebbero i singoli dal “disagio” delle opinioni, dal “disagio”
delle scelte pur sempre difficili a farsi e da quant’altro abbia a che fare con
la conduzione responsabile, collettivamente, di un assetto democraticamente
compiuto delle società del secolo ventunesimo. Scriveva Gustavo Zagrebelsky nel
Suo volume “Contro l’etica della verità”
– Laterza editore (2008) pagg. 172 €15,00 – alla pagina 123:
“(…). La democrazia è relativistica, non assolutistica. Come istituzione d’insieme, non ha fedi o valori assoluti da difendere, a eccezione di quelli su cui si basa. Deve cioè credere in sé stessa e sapersi difendere, ma al di là di ciò è relativistica nel senso preciso della parola: fini e valori sono da considerare relativi a coloro che li propugnano e, nella loro varietà, ugualmente legittimi. Democrazia e verità assoluta, democrazia e dogma, sono incompatibili. La verità assoluta e il dogma valgono nelle società autocratiche, non in quelle democratiche. (…)”. È questa la “fatica” dura delle democrazie, che non conosce scorciatoie né tanto meno demiurghi d’occasione. È questa la “fatica” per la quale non è possibile demandare alcunché ai “moderni inquisitori” sempre ben disposti a sollevare i singoli e le comunità tutte dall’incombenza gravosissima del rispetto delle regole che connaturano la “libertà” dei singoli così come delle comunità umane. Sosteneva Ezio Mauro: “(…). Ci penso da tempo, è una questione cruciale. In questo Paese, e soltanto in questo (bisognerà pur riflettere sulla ragione), si sta facendo strada l'idea che la felicità e la soddisfazione dell'individuo possono essere cercate solo fuori dalle regole, a dispetto delle norme, in quella dismisura tipica dell'abuso e del privilegio, che irride agli interdetti culturali e sociali, al sentimento del rispetto, al pubblico decoro. È la ribellione culturale contro il regolamentarismo e il politicamente corretto, ed è la rivolta molto più concreta, utilitaristica, contro il diritto e la legalità, invocando il sonno della legge. (…). È un rovesciamento disperato delle cose. Sotto la spinta dell'urgenza e della necessità si cerca ipocritamente di invocare il disordine come nuovo fondamento del vivere insieme, l'esagerazione come modello sociale, la licenza come libertà, il soverchio come nuova misura. Che felicità può esserci quando, come scrive Durkheim, ‘si è talmente al di fuori delle condizioni ordinarie della vita, e se ne è talmente consapevoli, che si prova il bisogno di mettersi al di fuori e al di sopra della morale corrente’? (…). Molto semplicemente (…) c'è vita nella democrazia, intesa come sistema di regole e libertà, molto più che altrove. E dunque nelle regole che liberamente si è data. La vita comune fatta di passioni e di errori, di amori e di meraviglie, di dolori e sconfitte: la vita vera, insomma, quella di tutti, che non ha bisogno di aggettivi e di spiegazioni. Quella che si compone con le vite degli altri, esseri che si somigliano nel riconoscimento dei diritti e dei doveri, dunque della loro libertà reciproca e dei suoi confini, ecco il punto. C'è vita nella democrazia, perciò è giusto e possibile cercarvi anche la felicità, attraverso la libera realizzazione di se stessi, modulata nella consapevolezza degli altri, dei loro diritti, e nella possibilità di costruire un progetto comune di riconoscimento, che chiamiamo società politica, istituzionale, di cittadini. ZAGREBELSKY. (…). Che cosa è la felicità, questo sentimento fugace che subito, appena l'hai provato, si dissolve in angoscia per il timore della perdita? Qualcuno potrebbe dire che proprio in quella trama di relazioni libere e responsabili che è alla base della democrazia e che spetta a noi di tessere sta la nostra infelicità. La libertà è felicità o infelicità? Il tema è discusso. Gli Inquisitori (figura sempiterna) direbbero che la libertà è infelicità e che proprio loro, essendosi assunti il compito di liberare l'umanità dalla libertà, sono i suoi veri benefattori. Tolta la libertà, gli esseri umani si accontenteranno dell'unica felicità loro possibile, una felicità mediocre e bambinesca, l'appropriazione di cose materiali, la felicità del consumatore, precisamente ciò di cui ante-parlavano Tocqueville e Montesquieu, (…). Io mi accontenterei di dire che, nell'appropriazione dei propri compiti di individuo morale, nel senso detto sopra, può stare la soddisfazione del dovere compiuto e che questa soddisfazione cresce proporzionalmente al numero di coloro con i quali si riesce a stabilire rapporti di cooperazione. La soddisfazione per il dovere compiuto, possiamo definirla felicità? Nel significato moderno, certo no. Nella tradizione antica, invece, la felicità era la vita buona e la vita buona non era il soddisfacimento illimitato di pulsioni individuali, ma la pratica della virtù. In fondo, non sei molto lontano quando parli di esercizio della libertà nel riconoscimento del limite. Questa è la virtù democratica. Naturalmente, ripeto, questo non ha niente a che vedere con la libertà come pretesa di fare tutto quello che si può (nel senso di ciò che è attualmente possibile), cioè con l'assenza di regole. (…). Credo che possa esserci una grande felicità e forse anche noi, qualche volta, l'abbiamo provata. Ma non è certo la felicità di cui parla il nostro tempo, quando virtù e felicità sono state separate, anzi collocate agli antipodi. L'affamato di felicità non esita a farsi beffe della virtù, a esibire come un vessillo il proprio lato più laido. (…). MAURO. Ma le istituzioni sono dei vincoli e dei riferimenti d'obbligo che ci siamo liberamente dati e che scegliamo di rinnovare a scadenze fisse. Perché - e questo per me è il punto essenziale - siamo convinti che la felicità o la vita buona, come si diceva, non vada cercata per forza nella trasgressione abusiva o nel sacrilegio sociale, come lo chiama Roger Caillois, ma nella nostra normale condizione di cittadini fedeli e infedeli, uomini e donne, persone liberamente associate con meccanismi di garanzia scelti da tutti per tutti, e come tali riconosciuti e accettati. ZAGREBELSKY. (...). Forse dal punto di vista della felicità-infelicità, potremmo dire così: la democrazia è il modo più sopportabile di sopportare l'infelicità, il modo più umano, compassionevole, conviviale, in una parola, mite, di organizzare l'infelicità dell'humana condicio, riducendo al minimo la prepotenza, il disprezzo, la sopraffazione e, soprattutto, distribuendone il peso sul maggior numero possibile in una specie di mobilitazione generale delle umane imperfezioni. (...). MAURO. (…). Mi accontenterei di dire che la democrazia è un legame sociale positivo, quindi, non solo un meccanismo di tutela. ZAGREBELSKY. (...). Se ci pensi, la ricerca della felicità era, originariamente, la rivendicazione sulla bocca degli infelici, cioè degli oppressi quali si sentivano gli americani al tempo della loro rivoluzione anticoloniale. Oggi, il senso s'è rovesciato. Sono i potenti che la rivendicano come diritto, la praticano e l'esibiscono, quasi sempre oscenamente, come stile di vita. Non sentiremo uno sfrattato, un disoccupato, un lavoratore schiacciato dai debiti, un genitore abbandonato a se stesso con un figlio disabile, un migrante irregolare, un individuo strangolato dagli strozzini, un rom cacciato che non ha pietra su cui posare il capo, una madre che vede il suo bambino morire di fame, rivendicare il suo diritto alla felicità. Grottesco! Sentiremo questo eterogeneo popolo degli esclusi e dei sofferenti chiedere non felicità ma giustizia. Un minimo di giustizia è ciò che ha preso il posto della felicità.”
“(…). La democrazia è relativistica, non assolutistica. Come istituzione d’insieme, non ha fedi o valori assoluti da difendere, a eccezione di quelli su cui si basa. Deve cioè credere in sé stessa e sapersi difendere, ma al di là di ciò è relativistica nel senso preciso della parola: fini e valori sono da considerare relativi a coloro che li propugnano e, nella loro varietà, ugualmente legittimi. Democrazia e verità assoluta, democrazia e dogma, sono incompatibili. La verità assoluta e il dogma valgono nelle società autocratiche, non in quelle democratiche. (…)”. È questa la “fatica” dura delle democrazie, che non conosce scorciatoie né tanto meno demiurghi d’occasione. È questa la “fatica” per la quale non è possibile demandare alcunché ai “moderni inquisitori” sempre ben disposti a sollevare i singoli e le comunità tutte dall’incombenza gravosissima del rispetto delle regole che connaturano la “libertà” dei singoli così come delle comunità umane. Sosteneva Ezio Mauro: “(…). Ci penso da tempo, è una questione cruciale. In questo Paese, e soltanto in questo (bisognerà pur riflettere sulla ragione), si sta facendo strada l'idea che la felicità e la soddisfazione dell'individuo possono essere cercate solo fuori dalle regole, a dispetto delle norme, in quella dismisura tipica dell'abuso e del privilegio, che irride agli interdetti culturali e sociali, al sentimento del rispetto, al pubblico decoro. È la ribellione culturale contro il regolamentarismo e il politicamente corretto, ed è la rivolta molto più concreta, utilitaristica, contro il diritto e la legalità, invocando il sonno della legge. (…). È un rovesciamento disperato delle cose. Sotto la spinta dell'urgenza e della necessità si cerca ipocritamente di invocare il disordine come nuovo fondamento del vivere insieme, l'esagerazione come modello sociale, la licenza come libertà, il soverchio come nuova misura. Che felicità può esserci quando, come scrive Durkheim, ‘si è talmente al di fuori delle condizioni ordinarie della vita, e se ne è talmente consapevoli, che si prova il bisogno di mettersi al di fuori e al di sopra della morale corrente’? (…). Molto semplicemente (…) c'è vita nella democrazia, intesa come sistema di regole e libertà, molto più che altrove. E dunque nelle regole che liberamente si è data. La vita comune fatta di passioni e di errori, di amori e di meraviglie, di dolori e sconfitte: la vita vera, insomma, quella di tutti, che non ha bisogno di aggettivi e di spiegazioni. Quella che si compone con le vite degli altri, esseri che si somigliano nel riconoscimento dei diritti e dei doveri, dunque della loro libertà reciproca e dei suoi confini, ecco il punto. C'è vita nella democrazia, perciò è giusto e possibile cercarvi anche la felicità, attraverso la libera realizzazione di se stessi, modulata nella consapevolezza degli altri, dei loro diritti, e nella possibilità di costruire un progetto comune di riconoscimento, che chiamiamo società politica, istituzionale, di cittadini. ZAGREBELSKY. (…). Che cosa è la felicità, questo sentimento fugace che subito, appena l'hai provato, si dissolve in angoscia per il timore della perdita? Qualcuno potrebbe dire che proprio in quella trama di relazioni libere e responsabili che è alla base della democrazia e che spetta a noi di tessere sta la nostra infelicità. La libertà è felicità o infelicità? Il tema è discusso. Gli Inquisitori (figura sempiterna) direbbero che la libertà è infelicità e che proprio loro, essendosi assunti il compito di liberare l'umanità dalla libertà, sono i suoi veri benefattori. Tolta la libertà, gli esseri umani si accontenteranno dell'unica felicità loro possibile, una felicità mediocre e bambinesca, l'appropriazione di cose materiali, la felicità del consumatore, precisamente ciò di cui ante-parlavano Tocqueville e Montesquieu, (…). Io mi accontenterei di dire che, nell'appropriazione dei propri compiti di individuo morale, nel senso detto sopra, può stare la soddisfazione del dovere compiuto e che questa soddisfazione cresce proporzionalmente al numero di coloro con i quali si riesce a stabilire rapporti di cooperazione. La soddisfazione per il dovere compiuto, possiamo definirla felicità? Nel significato moderno, certo no. Nella tradizione antica, invece, la felicità era la vita buona e la vita buona non era il soddisfacimento illimitato di pulsioni individuali, ma la pratica della virtù. In fondo, non sei molto lontano quando parli di esercizio della libertà nel riconoscimento del limite. Questa è la virtù democratica. Naturalmente, ripeto, questo non ha niente a che vedere con la libertà come pretesa di fare tutto quello che si può (nel senso di ciò che è attualmente possibile), cioè con l'assenza di regole. (…). Credo che possa esserci una grande felicità e forse anche noi, qualche volta, l'abbiamo provata. Ma non è certo la felicità di cui parla il nostro tempo, quando virtù e felicità sono state separate, anzi collocate agli antipodi. L'affamato di felicità non esita a farsi beffe della virtù, a esibire come un vessillo il proprio lato più laido. (…). MAURO. Ma le istituzioni sono dei vincoli e dei riferimenti d'obbligo che ci siamo liberamente dati e che scegliamo di rinnovare a scadenze fisse. Perché - e questo per me è il punto essenziale - siamo convinti che la felicità o la vita buona, come si diceva, non vada cercata per forza nella trasgressione abusiva o nel sacrilegio sociale, come lo chiama Roger Caillois, ma nella nostra normale condizione di cittadini fedeli e infedeli, uomini e donne, persone liberamente associate con meccanismi di garanzia scelti da tutti per tutti, e come tali riconosciuti e accettati. ZAGREBELSKY. (...). Forse dal punto di vista della felicità-infelicità, potremmo dire così: la democrazia è il modo più sopportabile di sopportare l'infelicità, il modo più umano, compassionevole, conviviale, in una parola, mite, di organizzare l'infelicità dell'humana condicio, riducendo al minimo la prepotenza, il disprezzo, la sopraffazione e, soprattutto, distribuendone il peso sul maggior numero possibile in una specie di mobilitazione generale delle umane imperfezioni. (...). MAURO. (…). Mi accontenterei di dire che la democrazia è un legame sociale positivo, quindi, non solo un meccanismo di tutela. ZAGREBELSKY. (...). Se ci pensi, la ricerca della felicità era, originariamente, la rivendicazione sulla bocca degli infelici, cioè degli oppressi quali si sentivano gli americani al tempo della loro rivoluzione anticoloniale. Oggi, il senso s'è rovesciato. Sono i potenti che la rivendicano come diritto, la praticano e l'esibiscono, quasi sempre oscenamente, come stile di vita. Non sentiremo uno sfrattato, un disoccupato, un lavoratore schiacciato dai debiti, un genitore abbandonato a se stesso con un figlio disabile, un migrante irregolare, un individuo strangolato dagli strozzini, un rom cacciato che non ha pietra su cui posare il capo, una madre che vede il suo bambino morire di fame, rivendicare il suo diritto alla felicità. Grottesco! Sentiremo questo eterogeneo popolo degli esclusi e dei sofferenti chiedere non felicità ma giustizia. Un minimo di giustizia è ciò che ha preso il posto della felicità.”
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