Da “Il
futuro è alle nostre spalle ma i grillini non lo sanno” di Massimo Fini,
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” dell’11 di aprile 2017: (…). Il
fatto è che abbiamo perso il senso del limite. Ha prevalso la tanto
strombazzata linea ideologica giudaico-cristiana che attraverso gli innesti
della tecnologia e dell’economia ci ha alla fine portato alla società che oggi
stiamo vivendo in cui si ritiene che tutto ciò che conosciamo, che tutto ciò
che possiamo fare dobbiamo, prima o poi, più prima che poi, farlo. Ma alle
spalle della nostra civiltà c’è un’altra cultura molto più profonda di quella
giudaico-cristiana. Ed è quella Greca. I Greci, attraverso Pitagora, Filolao e
gli altri grandi matematici e pensatori, avrebbero potuto creare macchine molto
simili alle nostre. Ma non lo fecero perché intuivano o piuttosto capivano che
andare a manipolare e replicare la natura è pericoloso. Avevano il senso del
limite. Sul frontespizio del Tempio di Delfi era scritto: “Mai niente di
troppo”. E molti dei loro miti fondativi ruotano intorno a questo concetto.
Parlando nei loro termini, l’ubris, vale a dire il delirio di onnipotenza
dell’uomo (che è proprio ciò di cui oggi siamo preda) provoca la fzonos zeon,
l’invidia dei Dei, e quindi l’inevitabile punizione (Prometeo). Nel nostro caso
la punizione verrà repentina, improvvisa, “senza darci avvisaglia” come canta
De André in un suo brano significativamente intitolato La Morte. Perché il
nostro sistema è basato sulle crescite esponenziali che esistono in matematica
ma non in natura. Noi siamo come una lucente macchina che partita a metà del
XVIII secolo con la Rivoluzione scientifica e industriale ha percorso gli
ultimi due secoli e mezzo a grandissima velocità, ma ora si trova davanti a un
muro che non può valicare, però si ostina a dare di gas per cui prima o poi
fonde (chiunque oggi parli di crescita –mi riferisco naturalmente alle classi
dirigenti non al cosiddetto uomo comune- è un criminale). Naturalmente poiché
questo collasso non avverrà oggi né domani ma è spostato in là nel tempo, le
classi dirigenti se avessero un po’ di cultura potrebbero risponderci
ironicamente con Oscar Wild “ma che cosa hanno fatto i posteri per noi?”. Ma il
fatto è che alla velocità in cui stiamo andando siamo diventati i posteri di
noi stessi. In un vorticoso andamento circolare siamo arrivati alle nostre
spalle e ce lo stiamo mettendo nel culo da soli. In questo sistema che ho
definito ‘paranoico’ noi non possiamo mai trovare un momento di equilibrio, di
armonia, di pace. Raggiunto un obbiettivo dobbiamo immediatamente inseguirne un
altro e un altro ancora finché “morte non ci colga”. La situazione di grande
disagio esistenziale che tutti, o quasi tutti, noi avvertiamo, qualsiasi sia la
classe sociale cui si appartenga, è dovuta a questo meccanismo. E quindi
stress, angoscia, nevrosi, depressione, droga e ogni sorta di dipendenza per
colmare questo vuoto esistenziale. Noi siamo come i levrieri, fra gli animali
più stupidi della terra, con buona pace degli animalisti, che al cinodromo
inseguono la lepre meccanica, ricoperta di stoffa, che per definizione non
possono raggiungere. La lepre ha solo la funzione di farli correre. Se la
raggiungessero il gioco, cioè il sistema, sarebbe finito. La grande rivoluzione
che accompagna quella scientifica e industriale, è quella, ancora più
determinante, della concezione del tempo. Allo statico e quieto presente basato
sui ritmi circolari delle stagioni, si è sostituito il dinamico futuro che non
solo contiene in sé i germi della propria autodistruzione ma è precisamente la
causa del nostro malessere. In questo affannoso inseguimento dell’impossibile
(la lepre meccanica della metafora) noi abbiamo perso la consapevolezza che il
vero valore della vita non è né il denaro né il lavoro, ma il Tempo, il padrone
inesorabile delle nostre esistenze. Consapevolezza che era presente nella
cultura greca e nell’Europa medievale (ma esiste anche in alcune civiltà
contemporanee, almeno quelle che non abbiamo distrutto a suon di civilissime
bombe). Non si tratta di ritornare all’età delle caverne ma di recuperare
alcune suggestioni delle società che ci hanno preceduto e una sapienza antica.
E capire che il futuro non è davanti ma dietro di noi.
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