A lato: "Lotta sociale" (1938).
Al tempo presente in cui si bandisce
l’”analisi”, che si bandisce quella che un tempo era la prerogativa propria
delle forze politiche che si ispiravano ad un ideale di sinistra, in questo
tempo presente che all’”analisi” si sostituiscono i “muri” e le “barriere” per
fronteggiare il malessere che si è globalizzato, torna utile rileggere – per tentare
una possibile risposta alle tragedie presenti - “La rivoluzione fragile. Perché le primavere non cambiano il mondo”
di Roberto Esposito, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 22 di luglio
dell’anno 2013. A quel tempo suscitavano speranze le cosiddette “primavere”,
in verità mai più sbocciate, ma solamente tradite: (…). Se finora si è globalizzata
la finanza, oggi a farsi globale appare anche la rivolta. A collegare tra loro
tali sommosse è per ora un elemento negativo, vale a dire l’indeterminazione
politica, l’inidoneità a costruire istituzioni stabili, la continua
reversibilità. (…). È vero, (…) il mutamento socio-antropologico ha prevalso su
quello propriamente politico. Ma ciò che adesso manca, (…), è la dimensione
collettiva, l’intensità progettuale, l’opzione ideologica. Insomma, se non un
vero e proprio orientamento, quantomeno un respiro, politico. (…). …adesso le
insorgenze di piazza, al di là degli eventi contingenti da cui nascono,
affondano radici profonde nella globalizzazione dei mercati, nelle
insostenibilità delle disuguaglianze, nella mancata diffusione dei diritti
fondamentali. (…). Così la protesta degli “indignati” è ampiamente giustificata
dalla macelleria sociale di misure destinate ad accrescere gli effetti recessivi
della crisi. Ma ciò non bilancia la difficoltà a solidificarsi in forme e
istituzioni politiche. Più che a un potere costituente, le attuali rivolte
fanno pensare a un potere destituente - capace di minare l’assetto precedente,
ma non a crearne uno nuovo. In esse prevale un carattere esistenziale, un
bisogno di identità, da parte di gruppi eterogenei che si aggregano e
disgregano a seconda degli eventi. Gli obiettivi, piuttosto che definiti
anticipatamente, nascono e mutano nel corso stesso delle lotte. Quasi si
direbbe che non sono i soggetti a fare le lotte, ma le lotte a fare i soggetti.
Perché? Cosa trattiene le rivolte contemporanee al di qua della soglia di
effettività? Cosa conferisce loro una tonalità più soggettiva che oggettiva?
Per rispondere a tale domanda bisognerebbe interrogare i mutamenti di fondo che
da qualche decennio hanno investito l’antropologia contemporanea. Non parlo
soltanto dell’arretramento della politica sotto la spinta congiunta della
tecnica e dell’economia, ma dei suoi effetti sulla percezione del tempo,
soprattutto da parte delle generazioni più giovani. Ad appannarsi, insieme alla
visione politica, è la dimensione del futuro, appiattita e risucchiata
dall’urgenza del presente. È come se il tempo si fosse ripiegato su se stesso,
impossibilitato a proiettarsi in avanti, bloccato sulla gestione quotidiana di
un’emergenza che non lascia respiro. Esso scorre in maniera automatica, senza
penetrare lo spazio della vita e l’orizzonte del pensiero. Senza sapersi fare
storia. (…). …i cortei che sfilano nelle strade europee e americane esprimono
(…) un’ansia di liberazione dai parametri insostenibili fissati dalla finanza
globale. Ma anche questa passione per la libertà, più che un affetto positivo,
o un sentimento produttivo, appare come il rovescio del disciplinamento che da
tempo modella le nostre vite attraverso una fitta rete di dispositivi ormai
diventati parte di noi. Si pensi alla registrazione sempre più capillare dei
nostri dati personali, per non parlare dei meccanismi securitari di controllo
che ci sorvegliano come un nuovo Panopticon. La stagione delle rivolte,
insomma, appare il residuo non colmato, o il controeffetto, di una generale
sottomissione alle potenze anonime che ci governano. Non per nulla per molti
analisti questa è, insieme all’età della ribellione, l’età dell’obbedienza,
della identificazione con leader, più o meno carismatici, che calamitano un
consenso altrimenti incomprensibile. (…). Alla base del dominio - ieri dei
sovrani assoluti, oggi dei leader populisti o delle banche transnazionali - non
c’è né una necessità naturale né una schiacciante sproporzione di forze, ma
quel desiderio di uniformità e rifiuto della responsabilità che già Tocqueville
rintracciava nelle pieghe della democrazia. Le rivolte che incendiano il mondo,
senza riuscire a mutarlo, nascono da questa ambivalente falda psicosociale - dall’accettazione
e insieme dal rigetto della servitù. (…).
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