La “sfogliatura” di oggi 9
di luglio dell’anno referendario voluto per mano dell’uomo venuto da Rignano
sull’Arno rimanda a quel tempo del giugno dell’anno 2006 nel quale il “popolo
sovrano” fu chiamato a decidere delle riforme elaborate e stese in quel di Lorenzago
del Cadore dai “quattro saggi” preposti all’uopo dall’intraprendente uomo
venuto da Arcore. La “storia” di quel referendum Vi è nota. Il “popolo sovrano”
rigettò quella proposta di riforma costituzionale mandando l’uomo venuto da
Arcore con le cosiddette “pive nel sacco”. La “sfogliatura” ridona
memoria a quanto scritto nel martedì 20 di giugno di quell’anno referendario, cinque
giorni prima delle date di votazione referendaria. Riportavo in quella fausta
occasione una cronaca tratta dal quotidiano l’Unità a firma di Maurizio Chierici,
dalla cronaca del quale riemergeva la gigantesca figura di Giuseppe Dossetti,
padre costituente. Oggigiorno si sono perse quelle straordinarie figure di
politici e di uomini; conviviamo con i diretti discendenti dei “quattro saggi” di
Lorenzago del Cadore che, come suol dirsi, senza arte e né parte, si erigono, per
mano dell’uomo venuto da Rignano sull’Arno, nella loro inconsistenza, a rinnovatori
della “Carta”. Che è tutto un bel dire. Scomparsi quei “padri costituenti” lì,
in obbedienza alla cosiddette leggi di natura, rimane l’impari confronto con i
rinnovatori dell’oggi che non possedendo idealità alcuna, per come
orgogliosamente da essi dichiarato, mirano essenzialmente e sostanzialmente a
rafforzare quel potere che consenta loro una definitiva rottura con quella “carta
sovietica” denunciata sfrontatamente a suo tempo dall’uomo di Arcore. Di questo
pericoloso tentativo se ne è fatto pubblico denunciatore il professor Maurizio
Viroli che su “il Fatto quotidiano” dell’11 di giugno ultimo – “Se vince il Sì avremo un padrone” – ha
scritto: (…). L’Italia diventerà (…) una democrazia plebiscitaria. La posta in
gioco non è trasformare il Senato in un’accozzaglia di nominati e modificare il
rapporto Stato-regioni, ma cambiare la Repubblica democratica in una democrazia
plebiscitaria (…). La democrazia plebiscitaria, (…), non è né necessariamente,
né sempre una democrazia autoritaria. William Gladstone (1809-1898), ad
esempio, è stato un leader plebiscitario nell’Inghilterra dell’Ottocento, ma la
democrazia inglese non è degenerata in democrazia autoritaria. Condizione
essenziale affinché il leader plebiscitario non diventi il centro di un sistema
autoritario è che i freni e i contrappesi “che Parlamento e società sono in
grado di produrre e di fare funzionare” siano forti. “Lo straordinario impatto
che la televisione ha sulla politica contemporanea, - (…) – rende quei freni e
quei contrappesi sempre più importanti per evitare che la demagogia di massa si
traduca in regimi autoritari”. Dopo l’investitura plebiscitaria di ottobre,
Renzi, (…), avrà, grazie al sistema elettorale da lui voluto, un controllo
completo sul Parlamento. Potrà infatti contare non soltanto su una maggioranza
invincibile composta da persone che devono esclusivamente a lui, in quanto capo
del PD, la loro elezione. Il Presidente della Repubblica, di fronte ad un capo
plebiscitario, potrà soltanto tacere e avallare. La televisione pubblica è già
largamente in mano sua. I giornali, (…), assecondano il suo volere. La società
civile italiana - con la crisi irreversibile dei partiti politici, del
sindacato e delle associazioni culturali – è del tutto frantumata. Orbene, c’è
qualcuno intellettualmente onesto disposto a sostenere che stando così le cose
la democrazia plebiscitaria renziana non diventerà un regime autoritario e
possiamo dormire tranquilli? “Se vincerà il sì, l’Italia avrà un nuovo padrone.
(…). In politica i mali devono essere curati appena si manifestano, non quando
diventano incurabili. (…). La prospettiva di una democrazia plebiscitaria
autoritaria dovrebbe far paura a chiunque ami la libertà e abbia un minimo di
senno. Qualsiasi scenario politico, nel caso di una vittoria del ‘no’, è molto
meno preoccupante. Quando un uomo conquista un potere enorme – poco importa se
con la forza, o con l’inganno e con l’astuzia, come nel caso di Renzi –
dipendiamo tutti dalla sua volontà, e dunque non siamo più liberi, ma servi.
Purtroppo, dopo aver sperimentato il potere enorme di Berlusconi, pare sia
rimasto nella maggioranza degli italiani un desiderio incontenibile di vivere
servi. Qualcuno ricorda ancora l’aureo principio della saggezza politica
repubblicana che essere liberi non vuol dire avere un buon padrone, ma non
avere alcun padrone?
Ed ora si legga la “sfogliatura” del martedì
20 di giugno dell’anno 2006: Da una
lettera un vaticinio – lontano nel tempo ma proprio dei veri profeti - di
Giuseppe Dossetti, nell’editoriale “Pace, bene e Dossetti “ di Maurizio
Chierici, pubblicato sul quotidiano l’Unità. (…). Poche righe fanno capire che Dossetti è stato un politico
cattolico dalla lealtà diversa da quella di Giovanardi, Formigoni o Casini,
alfieri di una cristianità teleciarliera. Nel 1945 era vice di De Gasperi alla
segreteria Dc. Veniva dalla Resistenza, presidente del Cln di Reggio Emilia.
Comandante a mani nude: non ha mai impugnato un'arma. Alla Cattolica di Milano
fa parte del gruppo dei «professorini»: La Pira, Lazzati, Fanfani. Il suo contributo alla
stesura della carta costituzionale è essenziale: media tra De Gasperi e
Togliatti nella scrittura del documento i cui valori etici hanno assicurato al
paese 60 anni di democrazia. Nel 1952 lascia la politica, breve riapparizione
nel '54: accoglie l'invito di Montini per contendere il comune di Bologna al
sindaco Dozza. Sapeva dell'inutilità del «sacrificio». A suo parere i governi
De Gasperi immiserivano i grandi disegni in una routine di basso profilo. Ma
non vuol metterlo a disagio con una crisi che avrebbe spalancato il potere del
partito alla destra dei comitati civici di Gedda. Se ne va in silenzio. Nel
1956 fonda la comunità della Piccola Famiglia dell'Annunziata a Monteveglio,
sopra Bologna. La regola che impone è ancora silenzio, preghiera, lavoro,
povertà. Incontra il cardinale Lercaro; lo assiste durante il Concilio
Varticano II. Tre anni dopo diventa sacerdote. Va in Terra Santa dove apre tre
comunità: ad Amman, Gerico e Gerusalemme. È testimone dell'occupazione
israeliana in Cisgiordania, e accompagna il dolore dell'esodo dei profughi
palestinesi. Nasce la comunità del monte Nepo. Torna a parlare di politica nel
1994 quando il Berlusconi del primo governo annuncia di voler cambiare la Costituzione. Scrive
una lettera al sindaco di Bologna: impressiona l'attualità dell'allarme del
Dossetti di dodici anni fa. Sembra scritta pensando al referendum di domenica: «Auspico
la sollecita promozione, a tutti i livelli, dalle minime frazioni alle città,
dei comitati impegnati e organicamente collegati nella difesa dei valori
fondamentali espressi dalla nostra Costituzione: comitati che dovrebbero essere
promossi non solo per riconfermare ideali e dottrine, ma per un'azione che
sperimenti tutti i mezzi possibili, non violenti, che l'emergenza attuale pone
agli uomini di coscienza. Si tratta cioè di impedire ad una maggioranza che non
ha ricevuto alcun mandato al riguardo, di mutare la nostra Costituzione. Si
arrogherebbe un compito che potrebbe assolvere solo una nuova Assemblea
Costituente, programmaticamente eletta. Altrimenti sarebbe un autentico colpo di
stato». (…).
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