Quando l’esito della “Brexit” era ampiamente
annunciato negli “scriptamanent” del 1° di luglio dell’anno 2015. Da “La Grecia e il debito populismo vero
contro populismo presunto” di Alessandro Robecchi, su “il Fatto Quotidiano”:
Ora,
diciamolo, comunque la si pensi sulla crisi greca, il referendum, i livori
della signora Merkel, i debiti, Alexis Tsipras e tutto il cucuzzaro, una cosa è
innegabile: si usano le parole un po’ a vanvera, con il consolidato e
tradizionale metodo “a cazzo”. La più gettonata al momento è la parola
“populismo”. Una brutta bestia, si sa, a patto di mettersi d’accordo su cosa
vuol dire. Già sul termine si registravano sbandamenti e scarsa tenuta di
strada, ma ora che i grandi commentatori dei grandi giornali ci spiegano che
indire un referendum per chiedere ai greci una conferma o una bocciatura alla
linea del loro governo è “populismo”, il testacoda è completo. La pretesa
secondo cui dare la parola agli elettori sia una specie di barbatrucco
antidemocratico suona in effetti assai bizzarra, specie in una comunità,
l’Europa, che parla di democrazia ogni minuto, vantandosi di esserne uno dei
santuari. Un continente dove la pregiudiziale antifascista è andata un po’
gambe all’aria (vedi l’Ungheria, vedi i movimenti filonazi), ma dove cresce la
pregiudiziale antipopulista, con la parola usata quasi sempre per indicare chi
non si attiene al pensiero unico, il cui guardiano sarebbe una specie di banca.
Va bene, ci sono i pro e ci sono i contro. Da qui al referendum chiunque, ma
proprio chiunque, spiegherà al popolo greco che votando “no” si metterà ancor
più nei guai, che si rischia il disastro, eccetera eccetera. Per cui, tirate le
somme, sarebbe “populismo” chiedere a un popolo di esprimersi nelle urne, ma
non lo è interferire in quello che quel popolo scriverà sulla scheda. Il capo
dei banchieri, il presidente della Commissione Europea, i vari leader del
continente che indicano ai greci come votare, pregandoli di votare “sì” e
sottoponendoli a ogni tipo di pressioni sarebbero invece sinceri democratici
antipopulisti. Mah. Si aggiungano al pasticcio un paio di dettagli. Uno, per
così dire, tutto politico e un altro più legato alla comunicazione della paura.
La questione politica è abbastanza semplice: al governo greco guidato da
Tsipras non si fanno gli sconti clamorosi e spaventosi che si fecero volentieri
a chi, in Grecia, fece quei debiti. In sostanza, chi indebitò la Grecia fino
alle orecchie andava quasi bene e non era populista, chi invece arrivò dopo
(eletto, si badi bene, non scrivendo su twitter “Samaras stai sereno”),
ereditando una situazione disastrosa e cercando di trattare una
ristrutturazione del debito, è populista e va punito. Si noti en passant che la
rata del debito greco che oggi Tsipras non riesce a pagare è di 1,6 miliardi,
mentre le Borse ne hanno bruciati in un solo giorno 287: è come se per tentare
di recuperare una cinquecento incidentata si desse fuoco a una decina di
Ferrari, lo chiamano capitalismo, una cosa ben poco populista ma abbastanza scema
anche lei. L’altra questione riguarda una specie di nazionalismo dei soldi,
quel meccanismo tragicomico per cui si vede gente normale, che lavora, paga il
mutuo, che arriva sì e no alla fine del mese, gridare indignata che “i greci ci
devono dei soldi e non ce li danno”. È la stessa gente che dava una quindicina
di miliardi al fondo salva-banche senza battere ciglio, la qual cosa è
abbastanza strabiliante ma comprensibile e molto furba: soldi per le banche ne
abbiamo, soldi per un popolo in ginocchio no. Atteggiamento incoraggiato e
caldeggiato, spinto da giornali, commenti, reportage, pensosi corsivi. Insomma,
un populismo vero usato per picchiare un populismo presunto.
Da “Quando
l’errore è nella diagnosi” di Mariana Mazzucato, sul quotidiano la Repubblica:
Come
Yanis Varoufakis ripete fin dall'inizio, la Grecia non aveva una crisi di
liquidità, ma una crisi di solvibilità, originata a sua volta da una crisi di
"competitività", aggravata dalla crisi finanziaria. E una crisi di
questo tipo non può essere risolta con tagli e ancora tagli, ma solo con una
strategia di investimento seria accompagnata da riforme serie e non pro-forma
per ripristinare la competitività. La vera cura. Invece, fingendo che la Grecia
avesse solo una crisi di liquidità ci si è concentrati troppo su pagamenti del
debito a breve termine e condizioni di austerity sfiancanti imposte per poter
ricevere altri prestiti, che sarà impossibile rimborsare in futuro se non
torneranno crescita e competitività. E non torneranno se la Grecia non potrà
investire. Un circolo vizioso senza fine. La realtà è che è impossibile avere
un'unione monetaria con competitività tanto differenti. E finora non c'è stata
una comprensione chiara di come e perché queste differenze di competitività
siano nate. Se da un lato è corretto mettere l'accento sulle riforme fiscali e
sulle modifiche all'età pensionabile per riportarle in linea con il resto
d'Europa, dall'altro lato si è parlato molto di quello che bisognava buttare
non si è parlato per nulla di quello che bisognava costruire. Come in Italia,
si è puntato solo a ridurre le pensioni, gli stipendi dei dipendenti pubblici,
le rigidità del mercato del lavoro ( eufemismo che sta per diritti dei
lavoratori!), partendo dal presupposto che sbarazzandosi delle inefficienze
sarebbe arrivata la crescita. Ma nulla è più lontano dalla verità. C'è molto da
costruire, non solo da eliminare, e fin quando non si farà questo la Grecia non
arriverà a nulla. E il rapporto debito/Pil aumenterà perché il denominatore (il
Pil) rimarrà al palo, anche se il numeratore (il deficit) resterà basso. La
Grecia deve fare quello che la Germania fa (investire), non quello che la
Germania dice (tagliare)! Molti criticano la Germania perché investe poco, ma
la verità è che negli ultimi decenni la Germania ha investito in tutte le aree
decisive non solo per aumentare la produttività, ma anche per creare una
crescita trainata dall'innovazione. Aziende come la Siemens, che vince appalti
pubblici nel Regno Unito, sono il risultato del dinamismo dell'ecosistema
pubblico/privato in Germania, con forti investimenti pubblici sui collegamenti
fra scienza e industria; la presenza di una banca pubblica grossa e strategica
(la KfW), che offre alle imprese tedesche capitali "pazienti",
impegnati sul lungo termine; un modello di governo d'impresa incentrato sugli
stakeholders (i portatori di interesse) e focalizzato sul lungo periodo, invece
del modello anglosassone incentrato sugli shareholders (gli azionisti) e
focalizzato sul breve periodo, che l'Europa meridionale ha copiato; un rapporto
ricerca e sviluppo/Pil superiore alla media; investimenti sulla formazione
professionale e il capitale umano; una strategia mission- oriented che punta a
rendere "verde" l'intera economia. Immaginate che risultato diverso
("compromesso") avremmo avuto se le trattative avessero puntato a far
digerire alla Grecia una strategia di investimenti, invece che altri tagli: va
bene, noi vi salviamo, ma voi riformate il vostro Paese e mettete in moto investimenti
pubblici (del tipo su elencato) per essere pronti per la sfida dell'innovazione
del 2020! Invece, insistere sul proseguimento dello status quo, con abbondanza
di altre misure di austerity, ha prodotto una Grecia sempre più debole, più
disoccupazione e più perdita di competitività. Alla Grecia bisognava sì
somministrare la medicina tedesca, ma quella vera, non quella ideologica. E non
dimentichiamo ciò che tanti hanno ripetuto: dopo la seconda guerra mondiale il
60 per cento dei debiti tedeschi fu cancellato. È un altro esempio di come la
Germania abbia beneficiato di una medicina, ma ne prescriva una diversa per
tutti gli altri. Tra l'altro è anche vero che questa medicina la Grecia l'ha
ingoiata in questi ultimi, dolorosi mesi, ma pochissimi glielo hanno
riconosciuto: ha ridotto il disavanzo, tagliato il numero di dipendenti
pubblici e alzato l'età pensionabile. Se gli avessero dato maggior respiro,
avrebbe potuto fare di più. Se la Grecia dovesse uscire, l'unica speranza è che
l'insistenza di Varoufakis per un programma di investimenti a livello europeo
possa almeno trovare una soluzione nazionale. Forse si potrebbe partire dalla
creazione di una banca per lo sviluppo come la KfW e usarla per mettere in moto
una strategia di investimenti a lungo termine. L'Italia deve trarre gli
insegnamenti giusti da questa tragedia greca. La competitività dell'Italia è
scadente quasi quanto quella della Grecia, e fino a questo momento la strategia
di investimenti è stata alquanto deficitaria: qualche misura pro forma
sull'istruzione, tagli al settore pubblico e tanta attenzione a quello a cui i
lavoratori devono rinunciare. Perciò, se ci sarà la Grexit - e
l'Europa non si deciderà a portare nella stanza un vero dottore -
preparatevi per l'exItalia il prossimo anno.
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