"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 9 luglio 2016

Sfogliature. 64 “Quando c’era Dossetti”.



La “sfogliatura” di oggi 9 di luglio dell’anno referendario voluto per mano dell’uomo venuto da Rignano sull’Arno rimanda a quel tempo del giugno dell’anno 2006 nel quale il “popolo sovrano” fu chiamato a decidere delle riforme elaborate e stese in quel di Lorenzago del Cadore dai “quattro saggi” preposti all’uopo dall’intraprendente uomo venuto da Arcore. La “storia” di quel referendum Vi è nota. Il “popolo sovrano” rigettò quella proposta di riforma costituzionale mandando l’uomo venuto da Arcore con le cosiddette “pive nel sacco”. La “sfogliatura” ridona memoria a quanto scritto nel martedì 20 di giugno di quell’anno referendario, cinque giorni prima delle date di votazione referendaria. Riportavo in quella fausta occasione una cronaca tratta dal quotidiano l’Unità a firma di Maurizio Chierici, dalla cronaca del quale riemergeva la gigantesca figura di Giuseppe Dossetti, padre costituente. Oggigiorno si sono perse quelle straordinarie figure di politici e di uomini; conviviamo con i diretti discendenti dei “quattro saggi” di Lorenzago del Cadore che, come suol dirsi, senza arte e né parte, si erigono, per mano dell’uomo venuto da Rignano sull’Arno, nella loro inconsistenza, a rinnovatori della “Carta”. Che è tutto un bel dire. Scomparsi quei “padri costituenti” lì, in obbedienza alla cosiddette leggi di natura, rimane l’impari confronto con i rinnovatori dell’oggi che non possedendo idealità alcuna, per come orgogliosamente da essi dichiarato, mirano essenzialmente e sostanzialmente a rafforzare quel potere che consenta loro una definitiva rottura con quella “carta sovietica” denunciata sfrontatamente a suo tempo dall’uomo di Arcore. Di questo pericoloso tentativo se ne è fatto pubblico denunciatore il professor Maurizio Viroli che su “il Fatto quotidiano” dell’11 di giugno ultimo – “Se vince il Sì avremo un padrone” – ha scritto: (…). L’Italia diventerà (…) una democrazia plebiscitaria. La posta in gioco non è trasformare il Senato in un’accozzaglia di nominati e modificare il rapporto Stato-regioni, ma cambiare la Repubblica democratica in una democrazia plebiscitaria (…). La democrazia plebiscitaria, (…), non è né necessariamente, né sempre una democrazia autoritaria. William Gladstone (1809-1898), ad esempio, è stato un leader plebiscitario nell’Inghilterra dell’Ottocento, ma la democrazia inglese non è degenerata in democrazia autoritaria. Condizione essenziale affinché il leader plebiscitario non diventi il centro di un sistema autoritario è che i freni e i contrappesi “che Parlamento e società sono in grado di produrre e di fare funzionare” siano forti. “Lo straordinario impatto che la televisione ha sulla politica contemporanea, - (…) – rende quei freni e quei contrappesi sempre più importanti per evitare che la demagogia di massa si traduca in regimi autoritari”. Dopo l’investitura plebiscitaria di ottobre, Renzi, (…), avrà, grazie al sistema elettorale da lui voluto, un controllo completo sul Parlamento. Potrà infatti contare non soltanto su una maggioranza invincibile composta da persone che devono esclusivamente a lui, in quanto capo del PD, la loro elezione. Il Presidente della Repubblica, di fronte ad un capo plebiscitario, potrà soltanto tacere e avallare. La televisione pubblica è già largamente in mano sua. I giornali, (…), assecondano il suo volere. La società civile italiana - con la crisi irreversibile dei partiti politici, del sindacato e delle associazioni culturali – è del tutto frantumata. Orbene, c’è qualcuno intellettualmente onesto disposto a sostenere che stando così le cose la democrazia plebiscitaria renziana non diventerà un regime autoritario e possiamo dormire tranquilli? “Se vincerà il sì, l’Italia avrà un nuovo padrone. (…). In politica i mali devono essere curati appena si manifestano, non quando diventano incurabili. (…). La prospettiva di una democrazia plebiscitaria autoritaria dovrebbe far paura a chiunque ami la libertà e abbia un minimo di senno. Qualsiasi scenario politico, nel caso di una vittoria del ‘no’, è molto meno preoccupante. Quando un uomo conquista un potere enorme – poco importa se con la forza, o con l’inganno e con l’astuzia, come nel caso di Renzi – dipendiamo tutti dalla sua volontà, e dunque non siamo più liberi, ma servi. Purtroppo, dopo aver sperimentato il potere enorme di Berlusconi, pare sia rimasto nella maggioranza degli italiani un desiderio incontenibile di vivere servi. Qualcuno ricorda ancora l’aureo principio della saggezza politica repubblicana che essere liberi non vuol dire avere un buon padrone, ma non avere alcun padrone?
Ed ora si legga la “sfogliatura” del martedì 20 di giugno dell’anno 2006: Da una lettera un vaticinio – lontano nel tempo ma proprio dei veri profeti - di Giuseppe Dossetti,  nell’editoriale “Pace, bene e Dossetti “ di Maurizio Chierici, pubblicato sul quotidiano l’Unità. (…). Poche righe fanno capire che Dossetti è stato un politico cattolico dalla lealtà diversa da quella di Giovanardi, Formigoni o Casini, alfieri di una cristianità teleciarliera. Nel 1945 era vice di De Gasperi alla segreteria Dc. Veniva dalla Resistenza, presidente del Cln di Reggio Emilia. Comandante a mani nude: non ha mai impugnato un'arma. Alla Cattolica di Milano fa parte del gruppo dei «professorini»: La Pira, Lazzati, Fanfani. Il suo contributo alla stesura della carta costituzionale è essenziale: media tra De Gasperi e Togliatti nella scrittura del documento i cui valori etici hanno assicurato al paese 60 anni di democrazia. Nel 1952 lascia la politica, breve riapparizione nel '54: accoglie l'invito di Montini per contendere il comune di Bologna al sindaco Dozza. Sapeva dell'inutilità del «sacrificio». A suo parere i governi De Gasperi immiserivano i grandi disegni in una routine di basso profilo. Ma non vuol metterlo a disagio con una crisi che avrebbe spalancato il potere del partito alla destra dei comitati civici di Gedda. Se ne va in silenzio. Nel 1956 fonda la comunità della Piccola Famiglia dell'Annunziata a Monteveglio, sopra Bologna. La regola che impone è ancora silenzio, preghiera, lavoro, povertà. Incontra il cardinale Lercaro; lo assiste durante il Concilio Varticano II. Tre anni dopo diventa sacerdote. Va in Terra Santa dove apre tre comunità: ad Amman, Gerico e Gerusalemme. È testimone dell'occupazione israeliana in Cisgiordania, e accompagna il dolore dell'esodo dei profughi palestinesi. Nasce la comunità del monte Nepo. Torna a parlare di politica nel 1994 quando il Berlusconi del primo governo annuncia di voler cambiare la Costituzione. Scrive una lettera al sindaco di Bologna: impressiona l'attualità dell'allarme del Dossetti di dodici anni fa. Sembra scritta pensando al referendum di domenica: «Auspico la sollecita promozione, a tutti i livelli, dalle minime frazioni alle città, dei comitati impegnati e organicamente collegati nella difesa dei valori fondamentali espressi dalla nostra Costituzione: comitati che dovrebbero essere promossi non solo per riconfermare ideali e dottrine, ma per un'azione che sperimenti tutti i mezzi possibili, non violenti, che l'emergenza attuale pone agli uomini di coscienza. Si tratta cioè di impedire ad una maggioranza che non ha ricevuto alcun mandato al riguardo, di mutare la nostra Costituzione. Si arrogherebbe un compito che potrebbe assolvere solo una nuova Assemblea Costituente, programmaticamente eletta. Altrimenti sarebbe un autentico colpo di stato».  (…).

Nessun commento:

Posta un commento